Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12733 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 12733 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26129/2022 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa anche disgiuntamente dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
ORDINE DEGLI PSICOLOGI DELLA REGIONE EMILIA-ROMAGNA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio del dott. NOME COGNOME rappresentata e difesa dal l’avvocato NOME COGNOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA n.1578/2022 depositata il 18.7.2022.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3.4.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
A seguito di segnalazione di COGNOME NOMECOGNOME che aveva una causa per cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con COGNOME NOME davanti al Tribunale di Reggio Emilia, il Consiglio dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna, con delibera n. 27/2019, ravvisata la violazione dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi nella redazione e produzione in giudizio da parte della psicologa COGNOME NOME di un parere pro veritate in data 17.11.2017, su richiesta della cliente COGNOME NOME, e nella redazione della risposta alla consulenza tecnica della controparte redatta dalla dott.ssa NOME COGNOME in data 1.12.2017, applicava alla COGNOME la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione per un periodo di venti giorni.
Nel parere pro veritate la COGNOME secondo il Consiglio del suo ordine professionale, aveva riportato dati riferiti dalla sua cliente, privi di riscontri clinici e/o di validazioni scientifiche, esprimendo in base a tali dati, non verificati, giudizi personali eccessivamente netti e categorici sulla persona di COGNOME LorenzoCOGNOME che neppure conosceva, e sulle sue capacità genitoriali, nonché sui figli della coppia, in un crescendo di autoreferenzialità valutativa.
Impugnata tale delibera con ricorso ex art. 17 della L. n. 56/1989 al Tribunale di Bologna, la COGNOME sosteneva l’insussistenza della violazione dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi, in quanto si era limitata ad esprimere valutazioni in ambito giudiziario, e lamentava la sproporzione della sanzione applicatale per inesistenza dei precedenti specifici valutati.
Il Tribunale di Bologna in composizione collegiale, all’esito del giudizio camerale, e previo intervento del Pubblico Ministero, nella resistenza dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, confermava la delibera impugnata, riducendo solo la sanzione della
sospensione da venti a quindici giorni, e condannava la COGNOME al pagamento delle spese processuali in favore dell’Ordine.
Impugnata tale sentenza dalla COGNOME sotto il profilo dell’insussistenza della violazione dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi in quanto si sarebbe limitata a riferire i racconti della sua cliente, COGNOME NOME, senza farli propri, nel parere pro veritate del 17.11.2017, e ad esercitare il diritto di difesa della cliente, ed in quanto i precedenti disciplinari utilizzati a supporto della recidiva contestatale erano risalenti ed inesorabilmente prescritti, la Corte d’Appello di Bologna, nella resistenza dell’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna, che chiedeva il rigetto dell’impugnazione avversaria, con la sentenza n. 1578/2022 del 12/18.7.2022, senza alcun intervento del Pubblico Ministero, rigettava l’appello, e condannava la COGNOME al pagamento delle spese processuali di secondo grado in favore dell’Ordine, dando atto della sussistenza dei presupposti per l’imposizione di un ulteriore contributo unificato a carico della appellante.
Avverso tale sentenza, notificatale il 26.8.2022, ha proposto ricorso a questa Corte, notificato soltanto all’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna il 28.10.2022, NOME affidandosi a cinque motivi, ed ha resistito l’Ordine con controricorso notificato il 7.12.2022.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c..
Con ordinanza interlocutoria del 13.9.2024, conseguente all’udienza camerale del 27.6.2024 ed alla riconvocazione della camera di consiglio del 13.9.2024, veniva disposta la fissazione di pubblica udienza, per consentire alle parti ed alla Procura Generale, di interloquire sulla questione rilevata d’ufficio dell’esistenza, o meno del litisconsorzio necessario del Pubblico Ministero nei giudizi di impugnazione giudiziale delle sanzioni disciplinari a carico degli psicologi, essendosi riscontrata l’esistenza di un contrasto sul
punto, all’interno della seconda sezione, tra quanto affermato dalla sentenza n. 17324/2015 e quanto ritenuto dalle ordinanze n.3532/2024 e n. 4319/2024.
La Procura Generale, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME ha concluso per l’accoglimento dell’interpretazione della L. n. 56/1989 seguita dalle due più recenti ordinanze della sezione, e sia la ricorrente che l’Ordine degli Psicologi dell’Emilia Romagna nell’imminenza della pubblica udienza hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c., la prima sollecitando il rilievo d’ufficio della prescrizione estintiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1) Col primo motivo di ricorso la COGNOME lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi (che impone allo psicologo nelle sue attività di valutare attentamente, anche in relazione al contesto, il grado di validità ed attendibilità dei dati e delle informazioni acquisiti sui quali si basano le conclusioni raggiunte, esponendo all’occorrenza le ipotesi alternative ed esplicitando i limiti dei risultati raggiunti, e che stabilisce che lo psicologo, su casi specifici, esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta, ovvero su documentazione adeguata ed attendibile) in relazione all’art. 24 della Costituzione.
Si duole la ricorrente che la sentenza impugnata, confermando quella di primo grado, abbia ritenuto violato l’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi, sostenendo che nel parere pro veritate da lei redatto il 17.11.2017 la ricorrente si fosse basata esclusivamente sui dati riferiti dalla sua cliente, non verificati, con riferimenti scientifici volti solo ad attribuire maggiore autorevolezza al suo elaborato, mentre in realtà nel parere suddetto le prime 30
pagine riportavano pacificamente i racconti della sua cliente, e le pagine da 31 in poi esaminavano in maniera critica la CTU espletata, nel giudizio di separazione tra COGNOME NOME e COGNOME NOME svoltosi davanti al Tribunale di Reggio Emilia, dal dott. NOME COGNOME sotto il profilo della metodologia (mancanza di un approfondimento psicodiagnostico individuale e/o relazionale con somministrazione di test), delle risultanze per le risposte al quesito e della correttezza deontologica, basandosi sulle linee guida di buona prassi metodologica, risultando quindi espressive del diritto di critica in un procedimento giudiziario a tutela del diritto di difesa della COGNOME nel giudizio di divorzio, posto che la COGNOME aveva operato come consulente tecnico di parte nominato dalla COGNOME, e non come professionista indipendente dalle parti processuali. Ulteriormente lamenta la ricorrente che l’impugnata sentenza abbia considerato obbligatoria, e non meramente facoltativa, la formulazione da parte dello psicologo, di ipotesi alternative, prevista dall’art. 7 in questione.
2) Col secondo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 5) c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla violazione dell’art. 7 del Codice Deontologico degli Psicologi.
Nel corpo del motivo la COGNOME lamenta che la Corte d’Appello, sul suo motivo d’impugnazione concernente l’omessa motivazione del Tribunale di Bologna circa la rilevanza disciplinare attribuita alla sua risposta alla consulenza tecnica di parte della dott.ssa NOME COGNOME dell’1.12.2017, prodotta dal COGNOME nel giudizio di divorzio per avallare le conclusioni alle quali era pervenuto il CTU COGNOME nel precedente giudizio di separazione, si sia limitata a ravvisare una violazione analoga a quella accertata per il parere pro veritate del 17.11.2017, mentre in realtà con quella risposta la ricorrente si sarebbe limitata ad esercitare il diritto di difesa della sua cliente nel giudizio di divorzio, criticando le risultanze di quella CTU e della
relazione tecnica di parte della dott.ssa COGNOME nell’ambito di un procedimento giudiziario.
Col terzo motivo la ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 comma primo n. 3) c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 26 della L.n.56/1989.
Si duole la COGNOME, che le sentenze di primo e di secondo grado, le abbiano applicato la sanzione disciplinare della sospensione, anziché le meno afflittive sanzioni dell’avvertimento, o della censura, ritenendo sussistente la recidiva sulla base di condanne disciplinari risalenti ad oltre dieci anni prima, e facendo da essa discendere in via automatica l’applicazione della più severa sanzione.
Col quarto e col quinto motivo la ricorrente lamenta che la Corte d’Appello di Bologna l’abbia condannata alle spese di secondo grado, ed abbia dato atto della sussistenza dei presupposti per l’imposizione a suo carico di un ulteriore contributo unificato, in base al comune presupposto della soccombenza, mentre essendo fondato il suo ricorso, quel principio non poteva essere applicato.
Ritiene la Corte di dovere rilevare d’ufficio, in via preliminare rispetto all’esame dei cinque motivi fatti valere dalla psicologa sanzionata, il difetto d’integrità del contraddittorio, verificatosi nel giudizio davanti alla Corte d’Appello di Bologna, per la mancata partecipazione al giudizio della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna.
Ed invero l’art. 17 della L. 18.2.1989 n. 56, relativa alla professione di psicologo, prevede che le delibere del Consiglio Regionale o Provinciale dell’Ordine degli Psicologi (tra le quali rientrano, ai sensi dell’art. 12 lettera i) della stessa legge, le delibere di adozione di provvedimenti disciplinari ai sensi dell’art. 27 della medesima legge, che in base al terzo comma di tale articolo sono notificate entro venti giorni all’interessato ed al Procuratore della Repubblica competente per territorio, evidentemente perché legittimati
all’impugnazione) ed i risultati elettorali possano essere impugnati con ricorso al Tribunale competente per territorio dagli interessati, o dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale stesso, (nella specie il Tribunale di Bologna), e l’art. 19 della stessa legge stabilisce, al primo comma, che il Tribunale competente sull’impugnazione delle delibere del Consiglio Regionale o Provinciale dell’Ordine degli Psicologi ex art. 17 della stessa legge provvede in camera di consiglio sentito il Pubblico Ministero e l’interessato, ed al secondo comma che contro la sentenza del Tribunale gli interessati (al plurale, e non più al singolare come nel primo comma, per ricomprendere tra i legittimati anche il Pubblico Ministero) possono ricorrere alla Corte d’Appello, con l’osservanza delle medesime forme previste per il procedimento davanti al Tribunale.
Deve quindi ritenersi, in linea con la più recente giurisprudenza di questa Corte che, la Procura della Repubblica presso il Tribunale, competente a decidere in sede giurisdizionale sull’impugnazione della sanzione disciplinare inflitta ad uno psicologo dal Consiglio dell’Ordine degli Psicologi regionale, non sia chiamata ad effettuare un semplice intervento volontario, ma sia un vero e proprio litisconsorte necessario, autonomamente legittimato ad impugnare la sanzione disciplinare in sede giurisdizionale e ad impugnare la sentenza di primo grado che si sia pronunciata sull’impugnazione e tenuta a formulare le proprie conclusioni nei giudizi impugnatori della sanzione di primo e di secondo grado (vedi in tal senso Cass. ord. 7.2.2024 n.3532; Cass. 19.2.2024 n. 4319).
Di tali conclusioni non vi è traccia negli atti processuali, consultabili da questa Corte in quanto si tratta di vizio processuale, né nella sentenza di secondo grado, che del resto nell’intestazione non riporta la Procura della Repubblica e non é stata preceduta neppure dalla necessaria notifica dell’atto di appello della COGNOME alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, che
viceversa era intervenuta nel giudizio di primo grado, chiedendo la reiezione dell’impugnazione della sanzione effettuata dalla COGNOME. Non può invece essere avallata l’interpretazione della normativa di settore che era stata data dalla sentenza n. 17324 del 31.8.2015 di questa Corte, che aveva affermato che in materia di impugnazione in sede giudiziale delle sanzioni disciplinari a carico degli psicologi sarebbe stata attribuita al Pubblico Ministero solo una facoltà di intervento e non di azione, essendo limitata la facoltà d’impugnazione delle sanzioni del Pubblico Ministero solo alla fase amministrativa ex art. 27 della L. n. 56/1989, essendo attribuito invece il potere d’impugnazione solo al soggetto sanzionato in base alla previsione specifica relativa alle sanzioni disciplinari dell’ultimo comma dell’art. 26 della stessa legge, e riferendosi il potere d’impugnazione delle delibere del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi regionale attribuito al Pubblico Ministero all’art. 17 della legge citata, solo alla materia elettorale.
Il riferimento all’art. 27 della L. n. 56/1989, relativo al procedimento disciplinare ed alla disciplina relativa, che attribuisce al Pubblico Ministero un possibile ruolo d’impulso, alternativo all’attivazione d’ufficio da parte del Consiglio, é inconferente, in quanto la questione che qui si pone é quella dell’impugnazione in sede giudiziale delle deliberazioni del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi regionale applicative di sanzioni disciplinari, e la lettura ivi proposta dell’art. 17 della L. n. 56/1989 é sostanzialmente abrogativa di una parte del contenuto di tale articolo, che già nell’intitolazione (” Ricorsi avverso le deliberazioni del consiglio regionale o provinciale dell’ordine ed in materia elettorale “) evidenzia che il potere d’impugnazione del Pubblico Ministero nell’ordinamento relativo alla professione di psicologo non é limitato alla sola materia elettorale, e che ulteriormente nel testo stabilisce che ” Le deliberazioni del consiglio dell’ordine nonché i risultati elettorali possono essere impugnati, con ricorso al
tribunale competente per territorio, dagli interessati o dal procuratore della Repubblica presso il tribunale stesso “, imponendo quindi, per l’individuazione delle deliberazioni che possono essere oggetto d’impugnazione da parte del Pubblico Ministero, di riferirsi all’elencazione dell’art. 12 della L.n.56/1989, che ricomprende alla lettera i) le deliberazioni di adozione dei provvedimenti disciplinari ai sensi dell’art. 27 della stessa legge.
La circostanza che l’ultimo comma dell’art. 26 della L. n. 56/1989, dopo l’elencazione delle varie sanzioni disciplinari previste per gli psicologi, consenta all’interessato di impugnare le deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli Psicologi regionale applicative di sanzioni disciplinari di impugnarle, richiamando la disciplina dell’art. 17 della stessa legge, inerente ai procedimenti d’impugnazione giudiziale di tutte le deliberazioni del suddetto consiglio, non permette di ritenere escluso il potere d’impugnazione che al Pubblico Ministero deriva dal combinato disposto degli articoli 17, 12 e 19 della stessa legge, ed in tal senso é significativo che l’art. 19 della L. n.56/1989, dopo avere previsto al primo comma che nel procedimento d’impugnazione giudiziale delle delibere consiliari di cui all’art. 17 della stessa legge siano sentiti in camera di consiglio il Pubblico Ministero e l’interessato, al secondo comma usi il termine al plurale ” gli interessati ” anziché al singolare, proprio per attribuire il potere d’impugnazione ad entrambi i soggetti menzionati nel comma precedente, ossia al Pubblico Ministero ed al soggetto al quale sia stata inflitta la sanzione disciplinare.
Il principio della partecipazione necessaria al procedimento giurisdizionale di impugnazione delle sanzioni disciplinari inflitte ai professionisti del Pubblico Ministero, è stato, del resto enunciato, anche se per altre categorie professionali (quelle degli avvocati e dei notai), dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione n. 34778 del 16.11.2021 e dalla sentenza di questa Corte n. 1221 del 6.3.1989.
La violazione dell’art. 102 c.p.c. per la mancata partecipazione al giudizio di appello della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, preposta alla tutela di un interesse pubblico, ha determinato la nullità della sentenza di secondo grado, ed implica la cassazione dell’impugnata sentenza della Corte d’Appello di Bologna.
Dal momento che l’appello proposto dalla COGNOME contro la sentenza di primo grado, emessa a contraddittorio non integro, ne ha impedito il passaggio in giudicato, e posto che la sentenza di secondo grado emessa senza la partecipazione necessaria del Pubblico Ministero presso il Tribunale di Bologna deve ritenersi ineseguibile ed inutiliter data (vedi in tal senso sulle conseguenze del vizio di difetto di contraddittorio nel giudizio di secondo grado Cass. 18.11.2008 n. 27412), l’impugnata sentenza va cassata, ma il collegio ritiene che debba essere escluso il rinvio al giudice di secondo grado, davanti al quale il vizio processuale si é verificato, in quanto va rilevata d’ufficio la prescrizione quinquennale dell’illecito disciplinare ascritto alla COGNOME (vedi sulla rilevabilità d’ufficio della prescrizione dell’illecito disciplinare per i giornalisti Cass. ord. 7.7.2024 n. 3536; Cass. 15.1.2007 n. 643; Cass. 17.10.2003, n. 15550 e per gli avvocati Cass. sez. un. 4.7.2002 n.9694; Cass. 30.6.1999 n. 372; Cass. sez. un. 2.6.1997 n. 4902). Come riconosciuto dalla sentenza di questa Corte del 21.1.2914 n. 1172, ” il potere disciplinare non si esercita secondo la consueta tecnica del provvedimento amministrativo che attua la sintesi solidaristica tra interesse generale e interesse particolare, ma in maniera immediata e diretta sulla posizione del soggetto incolpato, secondo un modulo simile a quello penalistico. La fase giurisdizionale che ne può seguire non ha ad oggetto, infatti, il controllo dell’uso legittimo di un potere altrimenti insindacabile nelle sue scelte di merito amministrativo, ma l’accertamento della fondatezza della pretesa sanzionatoria esercitata, accertamento
che, una volta richiesto dalla parte percossa dal provvedimento o da quella titolare del potere d’azione, coinvolge un interesse pubblico indisponibile.
Ne consegue, per un verso, che in tale contesto non trovano spazio applicativo le norme sulla prescrizione civile, che presuppongono un conflitto tra diritti disponibili e di pari livello; per l’altro, che la prescrizione in materia è oggetto di un’implicita riserva di legge, il cui eventuale vuoto normativo non può essere colmato in via regolamentare. Pertanto, nè gli ordini nazionali, nè le rispettive articolazioni territoriali possono stabilire con proprie determinazioni in quali casi e col decorso di quale lasso di tempo gli illeciti disciplinari si estinguano per intervenuta prescrizione.
Ne è conferma il fatto che la prescrizione è per lo più prevista e disciplinata dalle norme legislative di settore ed assimilata, nella sua operatività, a quella penale, incluse le cause d’interruzione e di sospensione (per gli avvocati, v. ora la L. n. 247 del 2012, art. 56 e in precedenza il R.D. n. 1578 del 1933, art. 51; per gli esercenti le professioni sanitarie, v. il D.P.R. n. 221 del 1950, art. 51; per i dottori commercialisti, v. il D.Lgs. n. 139 del 2005, art. 56; per i giornalisti, v. la L. n. 69 del 1963, art. 58; per i notai, v. la L. n. 89 del 1913, art. 146, come modificato dal D.Lgs. n. 249 del 2006, art. 29).
Non sempre, tuttavia, la legge la prevede. E ciò in base ad una discrezionalità politica che di per sè non è stata ritenuta incompatibile con taluni principi costituzionali (cfr. in ordine al sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati previgente al D.Lgs. n. 109 del 2006, in riferimento all’art. 101 Cost., comma 2, art. 104 Cost., comma 1 e art. 107 Cost., commi 1 e 2, Corte Cost. n. 145/76).
Le fonti normative della responsabilità disciplinare degli psicologi sono costituite dalla L. n. 56 del 1989 , art. 12, comma 2, lett. i), artt. 26 e 27. Il primo prevede il potere, il secondo tipizza le
sanzioni, il terzo ne disciplina il procedimento d’irrogazione. Detta legge, però, non prevede la prescrizione dell’illecito, nè la decadenza dell’organo disciplinare dall’esercizio della relativa azione. Problema, quest’ultimo, che questa Corte ha avuto modo di affrontare e di risolvere nel senso che la mancata previsione, da parte della L. n. 56 del 1989 (e, segnatamente, degli artt. 26 e 27), di una causa di decadenza dal diritto di procedere all’irrogazione della sanzione disciplinare – che, come tale, deve appunto ritenersi riservata esclusivamente alla legge – rende inefficace la previsione di cui all’art. 39 del Regolamento per la vigilanza e la disciplina della professione (approvato dall’Ordine degli psicologi l’11 giugno 1997, in forza dell’art. 28 della predetta L. n. 56), la quale, assoggettando la perseguibilità dell’illecito disciplinare al breve termine di un anno, con relativa estinzione in caso di mancata conclusione del procedimento in detto termine, si pone in contrasto con norme imperative di legge (Cass. n.25183/07).
La generale potestà regolamentare esercitabile ai sensi della L. n. 56 del 1989, art. 12, consente al consiglio nazionale e a quelli territoriali di porre norme sul procedimento, per meglio adattare i principi in materia alle specificità della categoria professionale rappresentata, ma non di surrogarsi al legislatore nello stabilire la prescrizione dell’illecito disciplinare e il suo termine di compimento, previsione, questa, che per le ragioni fin qui esplicitate permane riservata alla legge”.
Pertanto è illegittima, e va disapplicata, la norma dell’art. 2 del regolamento disciplinare dell’Ordine degli psicologi della Regione Emilia Romagna, invocata dalla ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., che non aveva il potere di stabilire in cinque anni la durata della prescrizione degli illeciti disciplinari degli psicologi.
Nondimeno, come evidenziato dalla già citata sentenza di questa Corte, ” per la peculiarità degli interessi individuali incisi, l’affermata
discrezionalità politica nel prevedere o non limiti di tempo (sotto il profilo della prescrizione o della decadenza) all’esercizio della potestà disciplinare non si presta a generalizzazioni assolute, verosimilmente contrarie ad altri parametri costituzionali e della Convenzione EDU. Esposta sine die all’azione disciplinare, la libertà dell’individuo potrebbe essere messa a repentaglio da un uso strumentalmente intimidatorio o comunque irrazionale del potere amministrativo, il cui eventuale eccesso, sotto il profilo dello sviamento, non potrebbe paradossalmente essere sottratto nella fase giurisdizionale al controllo di legittimità, sol perchè omogeneo alla tutela degli interessi legittimi e non dei diritti.
Di qui la necessità di colmare mediante analogia iuris il vuoto legislativo in materia di responsabilità disciplinare degli psicologi, applicando le norme che in altri ambiti professionali regolano la prescrizione, generalizzandone il decorso in cinque anni (vedi le norme sopra richiamate, ad eccezione della L.n. 247 del 2012, art. 56, che per gli avvocati fissa il termine di prescrizione in sei anni) “.
Nel caso di specie, non essendo stato intrapreso a carico della COGNOME un processo penale per i fatti costituenti illecito disciplinare, risalenti a novembre e dicembre 2017, non si é verificata la sospensione per effetto dell’inizio di un procedimento penale per i medesimi fatti costituenti illecito disciplinare per l’esercizio del potere disciplinare e per la successiva verifica giudiziale (vedi sulla sospensione del procedimento disciplinare, e cioè della sua fase amministrativa ovvero di quella giurisdizionale, se già instaurata per il procedimento disciplinare notarile, Cass. 18.11.2010 n.23367) discendente dall’applicazione dell’art. 653 c.p.p. (vedi Cass. sez. un. nn. 4893/2006 e 2223/2010), con la conseguenza che l’illecito disciplinare deve ritenersi ormai prescritto per effetto del decorso del quinquennio dalla consumazione, il che rende superflua la cassazione con rinvio alla Corte d’Appello di Bologna,
che altrimenti dovrebbe essere disposta per il vizio processuale preliminare rilevato.
L’orientamento contrastante in ordine alla qualificazione della partecipazione al giudizio del Pubblico Ministero ai procedimenti d’impugnazione delle sanzione disciplinari degli psicologi, originato dalla contraddittoria formulazione della L.n.56/1989, ed il rilievo officioso della prescrizione dell’illecito disciplinare giustificano la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, pronunciando sul ricorso, cassa senza rinvio l’impugnata sentenza e dichiara compensate le spese processuali.
Così deciso nella camera di consiglio del 3.4.2025