Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 33758 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 33758 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7554/2020 R.G. proposto da:
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE COGNOME , in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO, presso la sede dell’azienda, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 4563/2019 depositata il 03/01/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale che aveva rigettato integralmente il ricorso, ha parzialmente accolto le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini e, accertata la natura subordinata del rapporto, intercorso fra le parti dal 1° giugno 2008 all’8 marzo 2012 e formalmente qualificato di collaborazione coordinata e continuativa, ha condannato la appellata al pagamento della somma di € 145.139,11, oltre agli interessi legali dalla data della decisione al saldo;
il giudice d’appello ha premesso in punto di fatto che l’ appellante, medico specializzato in radiodiagnostica, nel periodo sopra indicato avrebbe dovuto rendere, sulla base dei contratti di collaborazione stipulati, attività autonoma finalizzata alla «ottimizzazione delle biopsie ECO-TAC-RMN guidate»;
in realtà dalle risultanze istruttorie, ed in particolare dalla prova testimoniale nonché dalla documentazione in atti, emergeva che la COGNOME era stata stabilmente inserita nell ‘ organizzazione del reparto, rispettando i turni di lavoro e osservando uno specifico orario, e, pertanto, lo svolgimento di fatto del rapporto si era discostato dal progetto indicato nel contratto;
richiamata giurisprudenza di questa Corte sugli indici della subordinazione e sugli elementi sussidiari che, in caso di prestazioni di natura intellettuale, devono essere individuati ai fini della qualificazione del rapporto come subordinato o autonomo, ha ritenuto che le circostanze sopra indicate fossero idonee a provare la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato, di mero fatto e disciplinato dall’art. 2126 cod. civ., perché affetto da nullità in quanto instaurato in assenza di concorso pubblico ed in violazione delle disposizioni di legge;
la Corte distrettuale ha respinto l’eccezione di prescrizione quinquennale del credito, rilevando che il rapporto di mero fatto non può essere assistito da stabilità e quindi il termine prescrizionale decorre necessariamente dalla cessazione dello stesso;
ha ritenuto, inoltre, che le differenze retributive potessero essere quantificate sulla base dei conteggi depositati dalla appellante, sviluppati tenendo conto del trattamento retributivo dovuto, secondo la
contrattazione collettiva applicabile alla dirigenza medica del servizio sanitario nazionale, al dirigente medico di 1º livello, con esclusione della indennità di esclusività e delle indennità sostitutive di ferie e festività non godute;
ha precisato al riguardo che dovevano essere disattese le contestazioni sollevate nella memoria difensiva dell’Azienda , perché gli importi ricevuti sulla base dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa andavano detratti, dall’ammontare complessivo del trattamento retributivo spettante, al netto e non al lordo delle ritenute di legge;
5. per la cassazione della sentenza l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini ha proposto ricorso sulla base di quattro motivi ai quali ha opposto difese con controricorso NOME COGNOME;
6. entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo, formulato ai sensi dei nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2956 cod. civ. o, in alternativa, dell’art. 2948 cod. civ. nonché omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio;
premesso che l’unico atto interruttivo era intervenuto il 30 settembre 2014 con la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la ricorrente sostiene che la Corte distrettuale avrebbe dovuto applicare il termine triennale di prescrizione previsto dall’art. 2956 cod. civ., perché la domanda era volta a rivendicare maggiori compensi richiesti per l’opera prestata dal professionista;
in subordine la difesa dell’Azienda rileva che la prescrizione quinquennale era comunque maturata in relazione alle differenze retributive rivendicate per il periodo giugno 2008/settembre 2009 perché fra le parti era intercorso un valido rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, del quale non era mai stata accertata e dichiarata la nullità ed inoltre, poiché si erano succeduti rapporti a tempo determinato, il giudice d’appello avrebbe dovuto applicare l’orientamento, formatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui i crediti che derivano da ciascun contratto sono autonomi e distinti da quelli derivanti dagli altri, con la
conseguenza che il termine prescrizionale del credito retributivo decorre dalla data della sua insorgenza;
deduce, inoltre, che il metus che giustifica la sospensione della prescrizione in pendenza del rapporto non è configurabile allorquando di quest’ultimo sia parte una Pubblica Amministrazione, il cui agire è disciplinato da rigide norme procedimentali e deve essere finalizzato al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento;
la seconda critica, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., denuncia la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. nonché «errata ed inammissibile valutazione delle prove -omessa motivazioneinsussistenza della natura subordinata del rapporto di lavoro -insussistenza delle pretese economiche avanzate avendo l’interessata svolto attività di lavoro libero professionale»;
la ricorrente addebita alla Corte distrettuale di avere erroneamente ritenuto ammissibili e rilevanti le testimonianze rese dai testi COGNOME e COGNOME che, invece, non potevano essere ritenute decisive, perché generiche, per lo più de relato e, quanto alla posizione di COGNOME, da persona per la quale sussisteva l’incapacità a testimoniare ex art. 246 cod. proc. civ., avendo promosso nei confronti della Azienda analogo giudizio;
deduce che, come riferito dai testi addotti dalla resistente, la COGNOME non era stata utilizzata nella ordinaria attività diagnostica né aveva svolto i medesimi compiti assegnati ai medici del reparto e il rispetto di determinati orari derivava unicamente dalla necessità di coordinare l’attività del collaboratore con quella dell’unità operativa di radiologia; aggiunge che l’originaria ricorrente non era mai stata inserita nei turni di servizio e contesta al giudice d’appello di avere erroneamente valorizzato i documenti prodotti dall’appellante, che non potevano neppure essere acquisiti in quanto non decisivi e non indispensabili ai fini della decisione; asserisce, inoltre, che la natura subordinata del rapporto non poteva essere desunta dall’inosservanza del contenuto dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, tra l’altro non dimostrata, e che la copiosa allegazione documentale effettuata dalla Azienda dimostrava la
natura autonoma delle prestazioni, riconducibili alla previsione dell’art. 7 d.lgs. n. 165/2001;
3. con il terzo motivo, testualmente rubricato «violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. -omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo ed art. 360 n. 5 c.p.c. inammissibilità e/o l’infondatezza della domanda di differenze retributive», si addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente applicato l’art. 2126 cod. civ. perché non era mai stata avanzata domanda di nullità del rapporto di collaborazione, del quale, tra l’altro, ricorrevano tutte le condizioni di legge;
4. infine la quarta critica denuncia «violazione ed errata applicazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360, primo comma n. 3) c.p.c. -omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. – errata quantificazione delle differenze retributive» perché il giudice d’appello non poteva acriticamente fare propri i conteggi elaborati dalla appellante, senza tener conto delle contestazioni mosse dalla Azienda la quale, oltre ad evidenziare che non erano dovuti il TFR e l’indennità di ferie non godute, aveva aggiunto che le somme percepite dovevano essere detratte al lordo e non al netto e che, accertata l’illegittimità del contratto di co.co.co., il lavoratore avrebbe avuto titolo , al più, al risarcimento del danno nel limite massimo di 10 mensilità dell’ultimo compenso percepito;
l’o rdine logico e giuridico delle questioni poste nel ricorso, che anche nel primo motivo inerente alla prescrizione fa riferimento alla qualificazione del rapporto ed all’oggetto della domanda, impone di esaminare con priorità le censure con le quali l’Azienda ricorrente ha contestato l’accertamento della subordinazione e l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2126 cod. civ.;
i motivi sono inammissibili;
5.1. si è già detto nello storico di lite che la Corte distrettuale, per giungere ad affermare la natura subordinata del rapporto, ha valorizzato una pluralità di dati, singolarmente esaminati e poi apprezzati nel loro complesso, e, richiamato il principio di carattere generale secondo cui in tema di rapporto di lavoro rilevano le modalità effettive di svolgimento della prestazione e non può il giudice arrestarsi alla qualificazione
giuridica data allo stesso dalle parti, ha ritenuto che dal complesso delle risultanze istruttorie e documentali emergesse, oltre alla difformità della utilizzazione rispetto al progetto indicato nei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, il pieno inserimento nell’organizzazione della struttura aziendale, senza significative diversità rispetto agli altri dirigenti medici assegnati al medesimo reparto;
così ragionando la Corte distrettuale non si è discostata dall’orientamento, consolidato nella giurisprudenza di legittimità ed affermato anche in relazione ai rapporti di impiego pubblico intercorrenti con le aziende del Servizio Sanitario Nazionale, secondo cui «ai fini della qualificabilità come rapporto di pubblico impiego di un rapporto di lavoro prestato alle dipendenze di un ente pubblico non economico, rileva che il dipendente risulti effettivamente inserito nella organizzazione pubblicistica ed adibito ad un servizio rientrante nei fini istituzionali dell’ente pubblico, non rilevando in senso contrario l’assenza di un atto formale di nomina, né che si tratti di un rapporto a termine, e neppure che il rapporto sia affetto da nullità per violazione delle norme imperative sul divieto di nuove assunzioni» ( Cass. n. 10551/2003; negli stessi termini fra le tante Cass. 30297/ 2022 e Cass. 24446/2024 con richiami a precedenti conformi);
le pronunce citate hanno aggiunto che anche in relazione ai contratti che intercorrono con le pubbliche amministrazioni, formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa, la sussistenza dell’elemento della subordinazione nell’ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità ( ex plurimis Cass. n. 18/2019 e Cass. n. 28459/2018);
5.2. il secondo motivo, nel denunciare la violazione degli artt. 115 e 166 cod. proc., nella sostanza sollecita una diversa valutazione delle risultanze di causa, riservata al giudice del merito e preclusa nel giudizio di legittimità;
è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui una censura relativa all’errata applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice d’appello, perché la violazione può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18092/2020; Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016);
è stato anche affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare una “trasformazione” in error in procedendo del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017) e ciò perché, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal d.l. n. 83/2012, «il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante» (Cass. n. 11892/2016 e negli stessi termini, fra le tante più recenti, Cass. n. 31610/2024 e Cass. n. 27301/2024 che rinviano a precedenti conformi);
quanto, poi, alla valutazione delle deposizioni testimoniali, escluso che l’incapacità del teste possa discendere dall’essere lo stesso parte di analogo giudizio avente il medesimo oggetto ( ex plurimis Cass. n. 26044/2023), va detto che sono riservati al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il
contro
llo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la selezione delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto a un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice ( in tal senso Cass. n. 21187/2019);
6. parimenti inammissibile è il terzo motivo perché tutti gli argomenti sviluppati non colgono il decisum e muovono dal presupposto, smentito dalla Corte territoriale, della insussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata, rapporto che, invece, il giudice d’appello ha accertato valutando le effettive modalità che avevano caratterizzato lo stesso, al di là della qualificazione contrattuale;
accertata la subordinazione, correttamente la sentenza impugnata ha ritenuto applicabile l’art. 2126 cod. civ., non discostandosi dall’orientamento consolidato espresso da questa Corte secondo cui il rapporto di lavoro subordinato instaurato di fatto da un ente pubblico non economico, affetto da nullità perché non assistito da regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra nella sfera di applicazione dell’art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui il rapporto stesso ha avuto materiale esecuzione (Cass. nn. 9592, 9591, 7491, 7335 del 2018), trattamento che è quello proprio di un rapporto di impiego pubblico regolare e, quindi, quello previsto, ex art. 2 d.lgs. n. 165/2001, dal contratto collettivo di comparto (cfr. fra le tante Cass. n. 14246/2022);
7. quanto al quarto motivo va detto che la Corte distrettuale non ha acriticamente recepito i conteggi sviluppati dall’appellante ma li ha valutati, escludendo voci ritenute non dovute ( ferie non godute, festività, indennità di esclusività) e considerando anche le contestazioni mosse dall’Azienda ( pag. 7 della pronuncia), ritenendole infondate;
il motivo, che denuncia il vizio motivazionale e l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, è dunque inammissibile al pari delle altre censure perché: non coglie il decisum della pronuncia gravata (si insiste ad esempio sulla non spettanza di emolumenti che la Corte ha escluso);
ravvisa il vizio di omesso esame di fatto decisivo per il giudizio nella mancata considerazione non di un fatto bensì di argomentazioni giuridiche ( modalità di quantificazione del differenziale e legittimazione passiva quanto al TFR); non individua le disposizioni di legge o di contratto che la Corte territoriale avrebbe violato nel quantificare, nei termini riportati in sentenza, le differenze retributive;
non si ravvisa, poi, il vizio motivazionale perché, all’esito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili», nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (Cass. S.U. n. 8053/2014 e successive conformi), evenienze, queste, che non ricorrono nella fattispecie;
è, invece, parzialmente fondato il primo motivo;
in premessa va detto che la censura non può trovare accoglimento nella parte in cui assume che, venendo in rilievo prestazioni rese da professionista, nell’ambito di un rapporto di collaborazione autonoma, la Corte avrebbe dovuto applicare il termine triennale previsto dall’art. 2956 cod. civ.;
ancora una volta la censura muove da un presupposto diverso da quello accertato dal giudice del merito, ossia dall’essere intercorso fra le parti un valido rapporto di collaborazione coordinata e continuativa e non un rapporto subordinato instauratosi in via di mero fatto fra le parti;
inoltre l’Azienda ricorrente confonde la prescrizione estintiva con quella presuntiva, che è incompatibile con qualsiasi comportamento del debitore che importi, anche implicitamente, l’ammissione in giudizio che l’obbligazione non è stata estinta ( art. 2959 cod. civ.);
8.1. il motivo è, invece, ammissibile e fondato nella parte in cui addebita alla Corte territoriale di avere erroneamente fatto decorrere la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 cod. civ. dalla cessazione del rapporto, anziché dal momento di maturazione del credito, valorizzando, erroneamente, l’assenza di stabilità;
la sentenza impugnata contrasta con il principio di diritto enunciato da Cass. 35676/2021 e ribadito da successive pronunce conformi ( Cass. n. 24446/2014; Cass. n. 1701/2023; Cass. nn. 20696, 24389, 20696 del 2022) secondo cui «in tema di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di contratto di lavoro formalmente autonomo, del quale sia successivamente accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre in costanza di rapporto, attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell’impiego e la conseguente inconfigurabilità di un metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto suscettibile di tutela»;
i precedenti citati, nel porsi in continuità con l’analogo principio affermato, a partire da Cass. n. 10219/2020, in relazione alle pretese derivanti da contratti di lavoro a tempo determinato, hanno escluso che la sentenza n. 63/1966 della Corte Costituzionale (che aveva dichiarato la «illegittimità costituzionale degli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2, e 2956, n. 1, del Codice civile limitatamente alla parte in cui consentono che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro») possa essere estesa oltre l’ambito del rapporto di lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati ed hanno a tal fine valorizzato la successiva pronuncia n. 143 del 1969 con la quale la stessa Corte Costituzionale aveva precisato che «la dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dei menzionati articoli del Codice civile, contenuta nella sentenza n. 69 del 1966 di questa Corte, riguarda i rapporti di lavoro regolati dal diritto privato e non si estende ai rapporti di pubblico impiego, sia che si tratti di rapporti con lo Stato, sia che si tratti di rapporti con altri enti pubblici»;
nella motivazione di Cass. n. 10219/2020 (alla quale Cass. n. 35676/2021 rinvia) per escludere l’applicabilità ai datori di lavoro pubblici della sentenza additiva del 1966 si richiama anche Corte Cost. n. 115/1975 che, pur pronunciando in fattispecie nella quale veniva in rilievo un rapporto di lavoro intercorso con ente pubblico economico, come tale assoggettato alla disciplina civilistica ex art. 2093 cod. civ., ribadì che la pronuncia di incostituzionalità doveva restare circoscritta al lavoro alle dipendenze di privati e che la stessa « non si estende ai rapporti d’impiego sia dei dipendenti dello Stato, sia dei dipendenti di altri
enti pubblici, anche di carattere economico. Infatti l’assimilazione del rapporto di lavoro con questi ultimi enti a quello di diritto privato è possibile solo al fine di identificare il giudice munito di potere giurisdizionale per dirimere le relative controversie, ma non vale a mutare il carattere pubblicistico di tale rapporto e le connesse garanzie di stabilità assicurate, nella regolamentazione organica o nella disciplina collettiva, dalla fine del rapporto soltanto per cause precise e determinate»;
le pronunce della Corte Costituzionale, dunque, seppure rese in un contesto in cui il rapporto di impiego alle dipendenze dello Stato e degli enti pubblici non era ‘contrattualizzato’, hanno escluso che il metus che nell’impiego privato può derivare dall’essere il lavoratore esposto al licenziamento senza adeguate garanzie di ripristino del rapporto, possa essere ravvisato anche per il lavoro alle dipendenze di enti pubblici, non solo perché quel rapporto, se a tempo indeterminato, è caratterizzato da una ‘particolare forza di resistenza’ ma anche , con specifico riferimento ai rapporti temporanei e precari, perché nell’ ordinamento del pubblico impiego, «le assunzioni temporanee (che, in linea di principio, sono escluse) hanno carattere precario, e la rinnovazione del relativo rapporto non presenta carattere di normalità. La non rinnovazione costituisce, invece, un evento inerente alla natura del rapporto stesso. La previsione di essa non pone, pertanto, il lavoratore in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli sia esposto durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto privato.» ( Corte Cost. n. 143/1969);
8.2. alle medesime conclusioni sono pervenute le Sezioni Unite di questa Corte con la recente pronuncia n. 31697/2023 con la quale, dopo avere osservato che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale la stabilità o meno del lavoro costituisce un mero parametro, per rilevare l’esistenza o l’inesistenza del timore, si è escluso che detto timore possa essere ravvisato «nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in quanto vincolate al rispetto dei principi costituzionali e della legge», in un assetto ordinamentale in cui il sistema dei controlli e delle garanzie «assicura pienamente il lavoratore pubblico negli eventuali comprovati casi di patologia del sistema (che, in quanto tale, costituisce deviazione
eccezionale dall’ordinario andamento fisiologico), attraverso la responsabilità diretta de’i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici … secondo le leggi penali, civili e amministrative’ per gli ‘atti compiuti in violazione di diritti’ (con estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato e agli enti pubblici), prevista dal già citato art. 28 Cost.»;
8.3. una volta escluso che la pronuncia di parziale incostituzionalità dell’art. 2948 cod. civ. possa estendersi anche al rapporto alle dipendenze di enti pubblici, torna ad espandersi il principio di carattere generale secondo cui, in assenza di cause di sospensione, il termine di prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, e quest ‘ultimo principio opera anche nei casi in cui venga in rilievo un rapporto nullo, perché instaurato in via di mero fatto senza il rispetto delle condizioni richieste dalla legge, atteso che detto rapporto, diversamente da quanto si verifica nell’impiego privato, in nessun caso può proseguire ed essere convertito in un valido rapporto a tempo indeterminato;
il timore valorizzato dalla Corte Costituzionale non può essere ravvisato rispetto a mere aspettative del lavoratore pubblico, quali sono quelle inerenti alla stabilizzazione del rapporto medesimo o al rinnovo di quello precario, che per essere soddisfatte richiedono il rispetto delle regole, procedimentali e sostanziali, che disciplinano le assunzioni, temporanee o a tempo indeterminato, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, regole la cui violazione può essere sempre fatta valere dal lavoratore, perché l’ordinamento garantisce, nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato e non, non solo la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, ma anche l’accertamento del diritto all’assunzione e la costituzione del rapporto, ove ne ricorrano i presupposti;
8.4. in via conclusiva il primo motivo deve essere accolto in parte qua , con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, da condurre nel rispetto del principio enunciato al punto 8.1., ed al regolamento delle spese del giudizio di cassazione;
9. in ragione della fondatezza, sia pure parziale, del ricorso non ricorrono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, nei limiti indicati in motivazione, e dichiara inammissibili gli ulteriori motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro della