Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15057 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15057 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 27358-2020 proposto da:
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA”, in persona del Rettore pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 552/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/04/2020 R.G.N. 2630/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Retribuzione
Prescrizione
R.G.N. 27358/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 07/05/2025
CC
RILEVATO CHE:
con sentenza del 20/4/2020 la Corte d’appello di Roma riformava parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa sede e condannava l’Università degli S tudi di Roma ‘ La Sapienza ‘ al pagamento, in favore di NOME NOME COGNOME quale erede di NOME COGNOME, della somma di euro 25.898,43 a titolo di differenze retributive dovute per il periodo 14/7/2004-31/7/2012;
NOME COGNOME dopo alcune prestazioni di opera intellettuale come lettore di madrelingua francese ex art. 28 d.P.R. n. 382/1980, era stata assunta (a partire dal 31/3/1995) con contratto di lavoro subordinato privato e aveva dedotto di aver svolto mansioni non di mero supporto all’attività didattica ma di docenza , ascrivibili a quelle del professore associato, e per un numero di ore di gran lunga superiori a quanto indicato in contratto, donde la costituzione di un rapporto subordinato a tempo indeterminato;
il Tribunale accoglieva la domanda e condannava l’Università al pagamento della somma di €. 185.993,51 a titolo di differenze retributive per il periodo 31/3/199531/7/2012, con riferimento alle mansioni di ‘ ricercatore confermato ‘ ;
nell’accogliere parzialmente l’appello dell’Ateneo in punto di prescrizione, la Corte territoriale rilevava che la missiva 31/10/2002 non valeva come atto interruttivo, difettando in essa una rivendicazione economica puntuale, e che della missiva 7/2/2005, priva di avviso di ricevimento, l’Ateneo aveva contestato a monte l’avvenuta ricezione, sicché il primo atto interruttivo risultava la missiva del 14/7/2009, con conseguente prescrizione dei crediti anteriori al 13/7/2004, stante la stabilità reale del rapporto (essendo
il numero di dipendenti dell’Università notoriamente superiore a 15);
indi, riformulati i conteggi, secondo il parametro di ‘ ricercatore confermato a tempo pieno ‘ per il periodo di durata ‘dei corsi in affidamento’ e secondo il parametro di ‘ ricercatore confermato a tempo definito ‘ per le ore eccedenti le 400 annue, si perveniva alla somma di €. 25.898,43 di cui alla statuizione di condanna in favore di NOME NOME COGNOME erede di NOME COGNOME (quest’ ultima venuta a morte nel corso del giudizio d’appello );
contro la sentenza propone ricorso per cassazione NOME NOME COGNOME sulla base di nove motivi, illustrati da memoria, cui si oppone con controricorso l’Ateneo.
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 118, comma 1, disp att. c.p.c. nonché dell’art. 111 Cost., anche in relazione agli artt. 2934 e 2943 c.c., per genericità della motivazione in relazione alla valenza interruttiva della prescrizione della lettera del 31/10/2002 (con riferimento all’art. art. 360, n. 3, c.p.c.) e per omesso esame di un fatto decisivo, ossia del rilievo che la sentenza della Corte di Giustizia richiamata riguardava la retribuzione dei c.d. ‘ex lettori’ (con riferimento all’art. art. 360, n. 5, c.p.c.);
1.1 il motivo è inammissibile perché l’interpretazione degli atti processuali rientra nel dominio esclusivo del giudice del merito, la cui attività può essere censurata in cassazione solo per la violazione delle regole ermeneutiche ex art. 1362 e ss. c.c., qui nient’affatto dedotta;
lungi dall’essere generica la motivazione della Corte capitolina si attesta ben al di sopra del c.d. ‘minimo costituzionale’ laddove chiarisce l’assoluta genericità , questa sì, del testo della missiva che non conteneva la rivendicazione dei crediti retributivi poi azionati in giudizio, elemento senz’altro necessario per configurare l’esistenza di un atto interruttivo i cui requisiti si compendiano, secondo la giurisprudenza di legittimità consolidata, nella chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo) e nell’esplicitazione di una pretesa con l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, come tale idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto, con l’effetto sostanziale di cos tituire in mora il soggetto indicato elemento oggettivo(Cass., Sez. 2-, ordinanza n. 15140 del 31/05/2021);
l’inammissibilità della censura si coglie pure sotto il distinto profilo dell’art. 360 n. 5 c.p.c. perché il vizio denunciabile ai sensi di tale norma è da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni giuridiche (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2195 del 2022; Cass. n. 595 del 2022; Cass. n. 395 del 2021; Cass., SU, n. 16303 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), men che meno le valutazioni tecniche contenute in provvedimenti giudiziari;
2. con il secondo motivo di ricorso, l’odierna ricorrente censura la sentenza della Corte di appello di Roma per violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 118, comma 1, disp. att. c.p.c. e dell’art. 111 Cost., anche in relazione agli artt. 2934 e 2943 c.c., nonché in relazione all’art. 115 c.p.c., per genericità della motivazione
in relazione al profilo della ‘ non contestazione ‘ riferita alla mancata ricezione della lettera del 7/2/2005 (con riferimento all’art. art. 360, n. 3, c.p.c.);
2.1 il motivo è inammissibile;
questa Corte ha già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che spetta solo al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680/2019);
quanto poi all’affermazione che la produzione di una raccomandata, pur sprovvista di avviso di ricevimento, costituirebbe prova della spedizione cui conseguirebbe la presunzione dell’arrivo dell’atto al destinatario e della conoscenza ex art. 1335 c.c., trattasi di censura sprovvista dei necessari requisiti di specificità, parlando la sentenza di semplice ‘missiva’ senza fare alcun riferimento alla prova della relativa ‘spedizione’, ed il motivo non ne riproduce né descrive il contenuto in violazione degli oneri di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;
la giurisprudenza di questa Corte è, infatti, consolidata nell’affermare che, ove vengano in rilievo atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 3, di carenze motivazionali, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 5, o anche di un error in procedendo , è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indicata l’esatta allocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte,
rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità, senza che possa attribuirsi rilievo al fatto che nell’indice si indicano come allegati i fascicoli di parte di primo e secondo grado (Cass. n. 24079 del 2021; Cass., S.U., n. 22726 del 2011, Cass., S.U., n. 8077 del 2012);
i requisiti imposti dall’art. 366, comma 1, n. 6, e dall’art. 369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perché solo l’esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure;
con il terzo e il quarto motivo di ricorso, la ricorrente censura la sentenza, rispettivamente, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948 c.c., della L. 20 maggio 1970, n. 300, artt. 18 e 35, dell’art. 2697 c.c., nonché degli artt. 115 e 112 c.p.c., per avere ritenuto un ‘fatto notorio’ il requisito dimensionale dell’Università ‘La Sapienza’ (con riferimento all’art. art. 360, n. 3, c.p.c.), nonché per violazione e falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948 c.c., dell’art. 18 L. 20 magg io 1970, n. 300, come modificato dalla L. 92/2012, con riferimento all’art. art. 360, n. 3, c.p.c., per avere ritenuto maturata la prescrizione del diritto della lavoratrice in costanza di rapporto di lavoro pur dopo l’entrata in vigore della legge Fornero che aveva circoscritto ormai la tutela reale ‘a poche e limitate ipotesi’;
3.1 il terzo motivo è infondato e la sentenza va confermata (sia pure con integrazione ex art. 384 c.p.c. della motivazione della pronuncia gravata) per l’assorbente
ragione che ai datori di lavoro pubblici non si applica la richiamata pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 63 del 10 giugno 1966) da cui è derivata la non decorrenza della prescrizione in difetto di stabilità reale, come peraltro ben chiarito nelle pronunce successive della stessa Consulta (sentenze n. 143 del 20 novembre 1969 e 174 del 12 dicembre 1972): la decorrenza della prescrizione deriva (invero) dalla condizione soggettiva del datore di lavoro per le ragioni anche più di recente ribadite dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U -, Sentenza n. 36197 del 28/12/2023, Rv. 669686-01);
in ordine poi al censurato utilizzo del ‘notorio’ da parte della corte capitolina, è appena il caso di evidenziare che questa Corte ha più volte precisato -e tale indirizzo dev’essere qui ribadito che il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio, a meno che non sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, è sottratto al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 19199/13; Cass. n. 11701/98 n. 22271/07);
sicché non può dirsi aprioristicamente scorretto il riferimento al notorio con riguardo allo stesso requisito dimensionale dell’Università degli Studi ‘La Sapienza’ di Roma (per casi non dissimili cfr.: Cass. n. 19729/18 e Cass. n. 14553/17 secondo cui «…avuto riguardo alle notorie vastissime dimensioni aziendali del Banco di Napoli, già istituto di credito di diritto pubblico, all’epoca diffuso sull’intero territorio nazionale e non solo, con migliaia di dipendenti, è ovvio che sia stata ritenuta la stabilità reale del posto di lavoro, con conseguente possibile decorrenza della prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c. già in costanza di
rapporto, laddove sarebbe invero quasi grottesco ipotizzare il contrario»);
3.2 parimenti infondato è il quarto motivo per le ragioni di cui al punto 3.1 che precede;
con esso, peraltro, si introduce una questione del tutto inedita;
anche a voler prescindere dalla novità della questione, di cui non si fa cenno nella sentenza impugnata, questa Corte ha chiari to che solo per « tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro» (Cass. n. 18008/2024; Cass. n. 26246/2022), mentre, nella specie, si controverte (invero) di crediti maturati fino al 13/7/2004 per i quali il termine quinquennale era già largamente spirato alla data d’entrata in vigore della legge Fornero;
con il quinto, sesto e con il settimo motivo di ricorso, l’odierna ricorrente censura la sentenza della Corte di appello, rispettivamente, per nullità della sentenza stante la violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronuncia sull’ eccezione di acquiescenza dell’allora Università in ordine alla correttezza dei conteggi depositati dalla lavoratrice appellata in primo grado (con riferimento all’art. 360, n. 4, c.p.c.), nonché per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. , in relazione agli artt. 2697 c.c., 115, comma 1, e 421 c.p.c., ed, ancora, per vizio di ultrapetizione e violazione del principio dispositivo, per avere disposto la Corte di merito una c.t.u. contabile in assenza di istanze dell’Università appellante (con riferimento all’art. 360, n. 3, c.p.c.) e, infine, per violazione e falsa applicazione degli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e
118, comma 1, disp att. c.p.c. e 111 Cost., in relazione agli artt. 421 c.p.c. e 2697 c.c. e agli artt. 115, 193 e 195 c.p.c., per avere la Corte di merito recepito acriticamente una c.t.u. inficiata da nullità in quanto essa aveva basato acriticamente l’ elaborato peritale su parametri retributivi indicati dalla Università (con riferimento all’art. art. 360, n. 3, c.p.c.);
4.1 tali motivi sono (da un lato) manifestamente infondati, laddove non tengono conto del fatto che l’acquiescenza si può formare solo su capi della sentenza suscettibili di passare in giudicato (circostanza che qui non viene in considerazione); dall’altro , palesemente inammissibili perché non colgono il decisum dal quale emerge che l’esigenza di riformulare i conteggi era qui insorta, come si legge in sentenza (cfr. punti 2.2 e 2.4 sentenza), per il diverso convincimento espresso dal giudice d’appello sulla prescrizione e sui parametri di calcolo;
va, poi, osservato che, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte: a) il vizio di omessa pronuncia, che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. rilevante ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., si configura esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in relazione a istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (vedi, per tutte: Cass. 13716/2017, Cass. 6715/2013); b) la scelta dei mezzi istruttori utilizzabili per il doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione è rimessa all’apprezzamento discrezionale, da motivarsi, del giudice di merito, ed è censurabile, quindi, in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione e non della violazione di legge ( ex plurimis , Cass. 21603/2013); c) il vizio di omessa pronuncia
si configura solo quando manchi qualsiasi statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, sì da dar luogo alla inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto e non può dipendere, pertanto, dall’omesso esame di un elemento di prova o anche dall’omessa assunzione di una prova ovvero dalla mancata considerazione -di argomentazioni difensive (fra le tante, Cass. 7472/2017);
si è più volte precisato che la «consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego del giudice di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato» (Sez. 6-1, n. 326/00, Sez. L 18299/24);
quanto poi alla (non) correttezza dei parametri adoperati e alla presunta erroneità dei dati che il c.t.u. avrebbe evinto dalle tabelle stipendiali, la censura è chiaramente inammissibile perché impinge nel merito;
5. con l’ ottavo e il nono motivo di ricorso la ricorrente censura la sentenza, rispettivamente, per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 D.L. 2/2004 e dell’art. 112 c.p.c., anche in relazione all’art. 36 Cost., per vizio di ultrapetizione, nonché degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c. e 118, comma 1 disp att. c.p.c. e art. 111 Cost., per genericità della motivazione, per avere ritenuto ‘iniqua’ la conclusione del c.t.p. della lavoratrice (con riferimento all’art. art. 360, n. 3,
c.p.c.) e per nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sui rilievi del c.t.p. in relazione alla necessità di assumere i dati dell’orario di lavoro negli a.a. 2004/2005 e 2005/2006 risultanti dalle deduzioni del ricorso introduttivo (con riferimento all’art. 360, n. 4, c.p.c.) e per violazione e falsa applicazione dell’art. 421 c.p.c. stante il mancato esercizio del potere officioso di acquisizione dei registri mancanti (con riferimento all’art. 360, n. 4, c.p.c.);
5.1 i due motivi sono inammissibili perché sollecitano, nell’ambito dei denunciati vizi di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 3, di carenze motivazionali, ai sensi dell’art. 360, cod. proc. civ., n. 5, o di errores in procedendo , un riesame di atti processuali e segnatamente della c.t.p., ai fini della verifica delle conclusioni poi attinte nella c.t.u. e recepite in sentenza, limitandosi a riprodurre alcuni stralci dei documenti in ricorso, ma senza indicare l’esatta allocazione della c.t.p. nel fascicolo di parte, e non essendo bastevole a riguardo che nell’indice si indichino genericamente come allegati i ‘ fascicoli di primo e secondo grado ‘ (Cass. n. 24079 del 2021; Cass., S.U., n. 22726 del 2011, Cass., S.U., n. 8077 del 2012);
peraltro, anche l’ultima censura, laddove sollecita un riesame del ricorso introduttivo e in particolare delle indicazioni di cui ai ‘presupposti di fatto’ contenute nei numeri da 33 a 36 dell’atto in menzione, da cui si poteva (in tesi) desumere l’orario di lavoro disimpegnato pur in assenza di ‘registri individuali’, non si sottare al vizio di violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. e, per come formulata, impinge nel merito;
parimenti inammissibile è la doglianza sul mancato impulso istruttorio d’ufficio ex art. 437 c.p.c. poiché la
ricorrente non dimostra di averne solle citato l’esercizio che comunque rientra (come noto) nelle prerogative del giudice del merito;
6. in conclusione, il ricorso va nel complesso rigettato, con addebito delle spese alla parte soccombente, come liquidate in dispositivo che segue.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida €. 5.000,00 per compensi ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma-1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio, il 7 maggio