Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 29191 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 29191 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 05/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 15250/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’AVV_NOTAIO, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO , i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e notifiche agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati, elettivamente domiciliata presso lo studio dei primi due in Roma, INDIRIZZO.
-Ricorrentecontroricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difesa dall’Avv ocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è per legge domiciliato in Roma, INDIRIZZO.
– controricorrente-ricorrente incidentale condizionato –
avverso l’ordinanza della Corte di appello di Roma n. 466/2020, depositata in data 22/1/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/10/2025 dal AVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
1. Il RAGIONE_SOCIALE stipulava un appalto con il raggruppamento temporaneo di imprese, guidato dalla capogruppo RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, con riferimento al sistema museale fiorentino, distinto in 4 assegnazioni (primi lavori; nuova centrale tecnologica dei grandi Uffizi; restauro dell’archivio di Stato; impiantistica centrale tecnologica e restauro di alcune sale), con convenzione n. 316 del 16/5/1990 e atto aggiuntivo del 23/5/1996.
I lavori venivano ultimati l’11/8/2000 ed il collaudo non veniva effettuato nel termine di legge (6 mesi + 2 mesi), ma solo in data 14/3/2002, con riferimento alla terza assegnazione.
In data 9/10/2002 veniva sottoscritto il verbale di concordamento, condizionato al mancato espresso diniego dell’amministrazione nei successivi 30 giorni.
La proroga del termine di approvazione del collaudo veniva individuata al 5/2/2003.
Successivamente, la società emetteva diffida nei confronti dell’amministrazione il 18/5/2011.
La società proponeva domanda di arbitrato il 7/11/2012, mentre il RAGIONE_SOCIALE esprimeva la propria declinatoria dell’arbitrato il 21/12/2012, quindi a distanza maggiore di 30 giorni rispetto al termine previsto per legge.
Il RAGIONE_SOCIALE comunque provvedeva alla nomina del proprio arbitro il 31/10/2013, nella persona dell’AVV_NOTAIO.
A seguito della declinatoria tardiva da parte del RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE proseguiva nel giudizio arbitrale chiedendo: la rata di saldo per effetto della mancata conclusione RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo; l’esatta determinazione del computo del «prezzo chiuso» pari a euro 2.859.886,08; il corrispettivo forfettario del 10% sull’importo complessivo dei lavori, pari ad euro 285.988,61; il danno per il ritardato compimento RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo dei lavori, pari ad euro 1.996.494,92; la tardiva corresponsione dei corrispettivi pattuiti e quindi il credito per interessi.
Il collegio arbitrale, all’esito dell’espletamento di due CTU, con lodo n. 43 del 20/10/2015, riconosceva in favore dell’impresa il complessivo importo di euro 9.842.498,00, di cui euro 317.215,48 a titolo di rata di saldo; euro 6.950.036, a titolo di «prezzo chiuso»; euro 2.442.113,27 a titolo di danno da ritardato collaudo; euro 113.134,18 a titolo di interessi moratori.
Con atto di citazione del 12/2/2016 il RAGIONE_SOCIALE impugnava per nullità il lodo dinanzi alla Corte d’appello di Roma, proponendo 10 motivi di gravame: 1) nullità del lodo per incompetenza del collegio arbitrale, a seguito di declinatoria formulata RAGIONE_SOCIALE; 2) nullità del dolo per aver deciso il merito della controversia nonostante la sussistenza di una transazione tra le parti, di cui al verbale di concordamento; 3) nullità del lodo per violazione dell’art. 2935 c.c., per aver fatto decorrere il termine di prescrizione dall’approvazione del collaudo anziché dall’ultimazione dei lavori; 4) nullità del lodo per violazione dell’art. 2697 c.c., per avere fatto ricorso a CTU esplorativa in difetto di prova dei crediti vantati da RAGIONE_SOCIALE; 5) nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., dell’art. 33, comma 4, della legge n. 41 del 1986, per avere quantificato il «prezzo chiuso» secondo il metodo globale, benché le parti avessero pattiziamente convenuto l’applicazione del metodo a
scalare; 6) nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 5, comma 1, legge 741 del 1981, per aver riconosciuto a titolo di risarcimento del danno da ritardato collaudo le maggiori spese generali, in assenza di prova; 7) nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., per aver accolto le riserve iscritte benché le stesse fossero state oggetto di transazione; 8) nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c. per aver accordato sulle somme illegittimamente riconosciute anche gli accessori di legge; 9) nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., stante l’intervenuta transazione in ordine a tutti gli importi liquidati; 10) nullità del lodo per violazione degli articoli 814 e 91 c.p.c. per avere posto a carico del RAGIONE_SOCIALE due terzi RAGIONE_SOCIALE spese di lite.
La Corte d’appello di Roma con sentenza n. 466/2020, depositata il 22/1/2020, annullava il lodo, rigettando tutte le domande di RAGIONE_SOCIALE.
5.1. In particolare, per quel che ancora qui rileva, la Corte territoriale riteneva infondato il primo motivo, in quanto la declinatoria dell’arbitrato da parte del RAGIONE_SOCIALE, formulata il 21/12/2012, era tardiva.
L’art. 24 della convenzione stipulata tra le parti nel 1990 prevedeva che ogni controversa tra le parti dovesse essere risolta facendo applicazione della disciplina di cui al d.P.R. n. 1063 del 1962.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 152 del 1996, aveva poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981, che aveva sostituito il precedente testo dell’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962), sul presupposto che non è consentita alcuna forma di arbitrato obbligatorio.
Pertanto ciascuna RAGIONE_SOCIALE parti poteva declinare la competenza arbitrale entro 30 giorni dalla notifica della domanda di arbitrato, in base al vecchio testo dell’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962 per la
Corte d’appello, dunque, a seguito della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981, doveva intendersi ripristinato il testo dell’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962, prima della modifica ad opera dell’art. 16 citato, che prevedeva il termine di 30 giorni, dalla notifica della domanda di arbitrato, ai fini dell’esercizio della facoltà di declinatoria.
Non poteva essere condivisa la tesi dell’amministrazione che propendeva per l’applicazione dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006.
5.2. La Corte d’appello reputava infondato anche il secondo motivo.
In particolare, in estrema sintesi, non era condivisibile la tesi del RAGIONE_SOCIALE per cui le pretese di RAGIONE_SOCIALE erano state tutte oggetto di transazione, con l’atto di concordamento dell’8/10/2002, per cui le domande della società sarebbero state precluse proprio dall’accordo intervenuto tra le parti.
Era dirimente l’osservazione per cui la transazione era stata stipulata dal responsabile del procedimento, nonché direttore dei lavori, «del tutto sprovvisto del potere di impegnare l’amministrazione, con conseguente radicale inefficacia dell’atto».
Né poteva farsi riferimento ad una sorta di approvazione tacita, trattandosi di un contratto stipulato dalla pubblica amministrazione, che doveva necessariamente rivestire la forma scritta.
Tra l’altro, il documento richiamato dal RAGIONE_SOCIALE non risultava prodotto nell’indice dei fascicoli di parte, mentre dalla memoria difensiva del RAGIONE_SOCIALE dinanzi al collegio arbitrale si ricavava la mancata produzione dello stesso, che il RAGIONE_SOCIALE intendeva «esibire».
5.3. Risultava invece parzialmente fondato il motivo relativo al mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione.
Effettivamente, con riguardo alle pretese patrimoniali della società il termine di prescrizione doveva decorrere, non dall’approvazione del collaudo (come richiesto da RAGIONE_SOCIALE e come ritenuto dal collegio arbitrale), ma dall’ultimazione dei lavori, con conseguente decorso della prescrizione decennale.
Tra l’altro, per nessuna RAGIONE_SOCIALE opere «risultava emesso il provvedimento di approvazione del collaudo».
La Corte territoriale reputava che con riferimento ad alcune domande la prescrizione norma era maturata (pagamento del saldo, del prezzo chiuso, del compenso forfettario, RAGIONE_SOCIALE riserve, nonché degli interessi), dovendosi tener conto della ultimazione dei lavori, in data 11/8/2000, e quindi il collaudo doveva intervenire entro il termine di sei mesi dall’ultimazione dei lavori nel termine di ulteriori due mesi doveva intervenire l’approvazione del collaudo.
Il termine per la procedura di collaudo andava a scadere l’11/4/2001.
Il termine di dieci anni era maturato l’11/4/2011, ben prima che venisse introdotto giudizio arbitrale, con la domanda del 7/11/2012, nonché prima della diffida del 18/5/2011.
Tra l’altro la messa in mora del 15/5/2011, invocata da RAGIONE_SOCIALE, era intervenuta dopo la maturazione della prescrizione.
Alcuna efficacia spiegava il verbale di concordamento dell’8/10/2002, attesa la sua radicale inefficacia.
Discorso diverso riguardava i danni da ritardato collaudo, consistenti negli oneri connessi alle risorse umane e materiali, ai fini della manutenzione, RAGIONE_SOCIALE, custodia dell’opera pubblica, ultimata, ma non ancora collaudata.
Ove, infatti, la RAGIONE_SOCIALE e la custodia venivano esercitate dopo la scadenza dei termini di collaudo, l’appaltatore aveva diritto ad
essere ristorato dei maggiori oneri sostenuti e tale credito assumeva natura risarcitoria.
Trattavasi, però, per la Corte d’appello, di un illecito a carattere permanente, consistente nella violazione ininterrotta dell’altrui diritto.
Le pretese di RAGIONE_SOCIALE, relative ad obblighi di RAGIONE_SOCIALE e custodia, non erano prescritte al momento del lodo, se non per il limitato periodo non coperto nel decennio antecedente il 18/5/2011, data della messa in mora.
5.4. Il quarto motivo era fondato.
Con riguardo alle pretese non risarcitorie, stante la prescrizione RAGIONE_SOCIALE stesse, il motivo era assorbito, in relazione all’ammissione da parte del collegio arbitrale di una CTU del tutto esplorativa in violazione dei principi sull’onere della prova.
Con riguardo, invece, alla pretesa risarcitoria, derivante dal ritardo nel collaudo, che non era prescritta, il quarto motivo, che doveva essere affrontato unitamente al sesto motivo, con il quale il RAGIONE_SOCIALE lamentava che il danno da ritardato collaudo era stato liquidato in difetto di una qualunque prova, la Corte territoriale reputava il motivo era fondato.
Il riconoscimento di oneri derivanti da ritardo nelle procedure di collaudo doveva essere dimostrato da RAGIONE_SOCIALE, non essendo possibile una liquidazione in via equitativa.
RAGIONE_SOCIALE, però, non aveva invocato alcun elemento probatorio a sostegno della propria pretesa risarcitoria, mentre il CTU aveva calcolato i danni parametrati, con talune decurtazioni, alle astratte percentuali RAGIONE_SOCIALE spese generali.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso principale per cassazione il RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso il RAGIONE_SOCIALE, proponendo anche ricorso incidentale condizionato.
Ha resistito al ricorso incidentale RAGIONE_SOCIALE.
CONSIDERATO CHE:
Si premette che gli avvisi relativi all’adunanza sono stati recapitati tardivamente, ma la ricorrente principale ha, comunque, depositato la memoria scritta, sicché non v’è stata alcuna violazione del diritto di difesa.
1.1. Con il primo motivo di ricorso principale la ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 legge n. 741/1981 e degli articoli 2935 e 2944 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
In particolare, la Corte d’appello sarebbe incorsa in errore nell’applicazione dell’art. 5 della legge n. 741 del 1981, laddove ha ritenuto che il termine di prescrizione RAGIONE_SOCIALE domande relative al saldo, al prezzo chiuso, al compenso forfettario, alle riserve e agli interessi moratori, decorreva dall’11/4/2001, ossia 8 mesi dopo l’ultimazione dei lavori, avvenuta l’11/8/2000.
La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della circostanza che il RAGIONE_SOCIALE «aveva effettivamente proceduto all’emissione del certificato di collaudo dei lavori, interrompendo così il termine di prescrizione».
La giurisprudenza di legittimità citata dalla Corte d’appello, in realtà, si riferiva a casi diversi, nei quali vi era stato il definitivo rifiuto della PA al collaudo.
Per la ricorrente doveva invece distinguersi l’ipotesi di omissione completa del compimento RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo (rifiuto di
collaudo) da quella dell’esecuzione RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo oltre il termine di legge (ritardato collaudo).
Solo nel primo caso sarebbe legittimo desumere dalla inerzia della stazione appaltante un vero e proprio rifiuto al collaudo, tale da determinare l’inadempimento della PA e consentire il recupero dei crediti da parte dell’appaltatore, mentre nella diversa ipotesi di mero ritardo nel collaudo, non si potrebbe fa riferimento ad un rifiuto dello stesso, «essendo venuta meno l’inerzia cui la norma attribuisce valore legale tipico di rifiuto».
L’art. 5 della legge n. 741 del 1981 non poteva togliere efficacia al collaudo tardivamente eseguito.
Per la ricorrente, dunque, il termine di prescrizione «ricomincia a decorrere – necessariamente – dall’effettivo compimento dell’atto di collaudo».
L’effettiva esecuzione del collaudo oltre il termine di legge costituirebbe una chiara manifestazione della volontà della PA di ritrattare il rifiuto al collaudo, caratterizzandosi in una vera e propria ricognizione dei diritti dell’appaltatore connessi a tale momento contrattuale, «con annessa interruzione della prescrizione».
Nella specie, tra la data di emissione del certificato di collaudo (14/3/2002) e la diffida inoltrata da RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE (18/5/2011) il termine decennale di prescrizione non sarebbe ancora decorso.
Con il secondo motivo di ricorso principale si deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1398, 1399, 2697 e 2935 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.; omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
La sentenza della Corte d’appello sarebbe viziata anche per aver ritenuto che «non può avere rilievo alcuno, nella valutazione del decorso della prescrizione, il ‘verbale di concordamento’, cui può volte si è fatto cenno, e la proroga della convenzione al 5/2/2003 in essa disposta, attesa la sua radicale inefficacia».
La Corte territoriale ha ritenuto necessaria la produzione del contratto scritto o, comunque, della ratifica del comportamento del responsabile del procedimento, nonché del direttore dei lavori.
Per la ricorrente, invece, il negozio concluso dal falsus procurator costituisce una fattispecie complessa a formazione successiva che si perfeziona con la ratifica del dominus . Si tratterebbe di contratto solo inefficace sino, appunto, alla ratifica del dominus .
Inoltre, ad avviso della ricorrente, la ratifica di un contratto soggetto alla forma scritta ad substantiam , stipulato dal falsus procurator , non richiederebbe che il dominus manifesti per iscritto espressamente la volontà di far proprio quel contratto.
La Corte d’appello, poi, d’ufficio – e quindi erroneamente avrebbe rilevato la carenza «del potere di rappresentanza», mentre entrambe le parti avevano convenuto sulla validità dell’atto e sulla chiara e univoca volontà del RAGIONE_SOCIALE di far proprio il negozio stipulato dal responsabile del procedimento.
Vi sarebbe stata dunque violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la Corte d’appello dichiarato ultra petita l’inefficacia del verbale di concordamento; inoltre, non si sarebbe tenuto conto della circostanza che gli importi riconosciuti a tacitazione RAGIONE_SOCIALE riserve nel verbale di concordamento, rappresenterebbero ulteriore definitiva conferma della validità dell’atto.
Sarebbero state violate le norme in tema di ratifica del contratto oltre che quelle in tema di onere della prova, con ulteriore violazione anche del principio di non contestazione ex art. 115 c.p.c.
Tra l’altro, l’art. 6 del verbale conteneva la proroga di 120 giorni del termine per la approvazione del collaudo, quindi sino al 5/2/2003.
Con il terzo motivo di ricorso principale si lamenta la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 741/1981, dell’art. 33, comma 4, della legge n. 41/1986 e dell’art. 2935 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; violazione dell’art. 111, comma 6, Costituzione e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
In via ulteriormente subordinata la ricorrente deduce che la Corte d’appello avrebbe ingiustificatamente accomunato tra loro tutte le domande attoree di adempimento (rata di saldo, prezzo chiuso, compenso forfettario, riserve e interessi moratori) omettendo di rilevare, nell’ambito RAGIONE_SOCIALE stesse, il diverso regime di prescrizione vigente per la richiesta del «prezzo chiuso».
Si dovrebbe distinguere il conto finale dei lavori, che non esaurisce i complessivi rapporti di dare-avere tra appaltatore e stazione appaltante, dalla contabilità RAGIONE_SOCIALE altre voci di corrispettivo, tra cui la revisione prezzi.
Gli acconti e le detrazioni della revisione prezzi dovrebbero distinguersi dagli acconti per lavori, dovendosi ritenere attribuzioni meramente provvisorie, come tali inidonee a determinare la decorrenza del termine di prescrizione, da individuarsi necessariamente nel provvedimento di determinazione finale del compenso revisionale.
Nel caso della revisione dei prezzi solo dalla adozione del provvedimento di determinazione finale del compenso revisionale dell’ente appaltante, l’appaltatore può agire per ottenere l’intero ulteriore credito dovuto a titolo di compenso revisionale.
Le medesime considerazioni sarebbero valide anche con riferimento al «prezzo chiuso».
Tanto per la revisione prezzi, quanto per il prezzo chiuso, dalla data del collaudo effettivo dovrebbe essere calcolato il termine di eventuale prescrizione del diritto al pagamento RAGIONE_SOCIALE somme dovute all’impresa.
Inoltre, la motivazione della Corte d’appello sarebbe inficiata dall’assenza di un percorso argomentativo, integrando una vera e propria mancanza grafica della motivazione.
Con il quarto motivo di ricorso principale la ricorrente lamenta la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, numeri 3 e 4, c.p.c.».
La sentenza sarebbe illegittima anche nella parte in cui, decidendo il merito, ha implicitamente rigettato l’eccezione di inammissibilità e/o di improcedibilità del quarto e del sesto motivo di nullità del lodo.
Tali doglianze, ad avviso della ricorrente, atterrebbero a questioni «di stretto merito».
Il RAGIONE_SOCIALE con tali motivi aveva denunciato la violazione degli articoli 1965 e 2697 c.c., in relazione all’art. 829, comma 3, c.p.c., deducendo che il collegio arbitrale era incorso nella violazione RAGIONE_SOCIALE regole che disciplinano l’onere della prova, sicché gli arbitri non avrebbero potuto demandare al CTU il compito di accertare l’importo dovuto a titolo di maggiori oneri indebitamente sostenuti per il ritardo nell’approvazione degli atti di collaudo.
Sarebbe stato evidente l’intento dell’amministrazione di ricostruire, diversamente da come accertato nel lodo, la volontà RAGIONE_SOCIALE parti.
Tuttavia, anche l’impugnazione del lodo per violazione di regole di diritto, di cui all’art. 241, comma 15bis , del d.lgs. n. 163 del 2006 e l’art. 829, terzo comma, c.p.c., non sarebbe consentita per questioni «che attengano alla valutazione RAGIONE_SOCIALE risultanze probatorie e così al merito della controversia».
Il lodo sarebbe certamente «sottratto a qualsiasi impugnativa per errori concernenti la c.d. quaestio facti ».
A fronte della decisione del collegio arbitrale che, quanto ai danni da ritardato collaudo, ha reputato condivisibile l’impostazione del CTU di «parametrare detti danni con i soli coefficienti (opportunamente ridotti) relativi alle Spese Generali e agli Oneri di Concessione sostenuti dall’ATI concessionaria a causa dei ritardi dell’amministratore concedente», la Corte d’appello ha proceduto ad un riesame RAGIONE_SOCIALE questioni di merito; di qui l’inammissibilità e/o l’improcedibilità del quarto e del sesto motivo di nullità dedotti dal RAGIONE_SOCIALE.
Con il quinto motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1226, 2727 e 2697 c.c. e degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In via subordinata rispetto al precedente motivo, si reputa l’illegittimità della sentenza nella parte in cui, decidendo il merito dei motivi quarto e sesto di nullità, la Corte territoriale li ha accolti, reputando la necessità della dimostrazione concreta RAGIONE_SOCIALE spese generali affrontate nel periodo di ritardo RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo.
Da un lato, la decisione di disporre CTU costituisce espressione del potere discrezionale e officioso del giudice, insindacabile in sede di legittimità, se motivata dalla necessità di risolvere questioni implicanti valutazioni tecniche.
Non si tratterebbe di indagine esplorativa.
Dall’altro, sussisterebbero gli elementi probatori a sostegno della domanda.
In caso di ritardo nell’emissione del certificato di collaudo rientrerebbero sicuramente le maggiori spese generali, indebitamente sostenuti a causa dell’indebito protrarsi del vincolo contrattuale, in attesa del definitivo perfezionamento del collaudo.
Sarebbero necessarie una serie di spese, distinte da quelle di mantenimento dell’area di cantiere.
Troverebbe applicazione l’art. 20 del D.M. 29/5/1895, come modificato dall’art. 14 della legge n. 741 del 1981, applicandosi una percentuale variabile dal 13 al 15% a seconda della natura dell’importanza dei lavori.
In sostanza, l’ontologica materialità RAGIONE_SOCIALE maggiori spese generali sarebbe «in re ipsa».
Tra l’altro, il CTU aveva ridotto anche l’importo RAGIONE_SOCIALE spese generali, computate nella percentuale del 20% RAGIONE_SOCIALE spese variabili, a loro volta pari ai 2/3 RAGIONE_SOCIALE spese generali nella loro percentuale minima del 16%, il tutto equitativa mente abbattuta del 50%.
Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato il RAGIONE_SOCIALE deduce la «nullità della sentenza per violazione degli articoli 829, primo comma, numeri 1 e 4, c.p.c., e art. 817 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per non aver dichiarato l’incompetenza del collegio arbitrale a decidere la controversia in presenza di una clausola compromissoria nulla».
La Corte d’appello ha ritenuto tardiva la declinatoria notificata dall’amministrazione in data 21/12/2012, quindi oltre il termine di 30 giorni dalla domanda di arbitrato, notificata l’8/11/2012, ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
La clausola compromissoria, infatti, all’art. 24 della Convenzione rinviava all’arbitrato amministrativo ex art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
Inoltre, la Corte territoriale ha ritenuto, quanto alla disciplina transitoria di cui all’art. 253, comma 34, del d.lgs. n. 163 2006, che il richiamo all’art. 241 del medesimo d.lgs. doveva intendersi limitato alle modalità di nomina del collegio arbitrale ed alle regole di giudizio da seguire, ma non anche «alla precedente fase della declinatoria» che invece era disciplinata, per i vecchi RAGIONE_SOCIALE dell’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
Per il RAGIONE_SOCIALE la competenza del collegio arbitrale era stata declinata ai sensi dell’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, con atto notificato in data 21/12/2012.
In particolare per la ricorrente doveva farsi applicazione dell’art. 241 citato, ma nella versione modificata dalla legge n. 190 del 2012, che prevedeva la preventiva autorizzazione da parte dell’amministrazione per l’inclusione della clausola compromissoria nel bando o nell’avviso con cui era indetta la gara.
La declinatoria era tempestiva ed efficace alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 152 del 1996, sopravvenuta rispetto alla convenzione stipulata il 16/5/1990.
La Corte costituzionale, infatti, ha ritenuto che la competenza arbitrale può essere derogata anche con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti.
Del resto, l’RAGIONE_SOCIALE, con nota del 14/4/2011, aveva fornito il parere richiesto dal RAGIONE_SOCIALE con nota del 9/3/2011, evidenziando che, in forza della norma transitoria posta dall’art. 253, comma 34, del d.lgs. n. 163 del 2006 «il richiamo ai collegi arbitrali da costituire ai sensi della normativa previgente di cui al d.P.R. 1063 del 1962 contenuto nelle clausole dei
RAGIONE_SOCIALE di appalto già stipulati, deve intendersi riferito ai collegi da nominare con le nuove procedure secondo le modalità previste dal Codice».
La possibilità di derogare poteva essere esercitata dalle parti «in ogni momento».
Tra l’altro, l’art. 24 della convenzione del 16/5/1990 prevedeva un rinvio mobile, non solo alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 1063 del 1962, ma anche alle «successive modifiche ed integrazioni».
Di qui la validità dell’atto di declinatoria e l’incompetenza del collegio arbitrale.
Si sarebbe in presenza di una radicale nullità della clausola compromissoria.
L’art. 24 della convenzione richiamerebbe unicamente la previsione del capitolato senza contemplare alcuna diversa manifestazione autonoma di volontà da parte dei contraenti in punto di derogabilità.
Tuttavia, alla data della stipula della convenzione l’art. 47 del d.P.R. n. 1063 del 1962, come modificato dall’art. 16 della legge n. 741 del 1981, poneva di fatto il ricorso all’arbitrato come obbligatorio.
La disposizione era stata dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 152 del 1997 della Corte costituzionale nella parte in cui non consentiva la possibilità di derogare alla competenza arbitrale con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti.
La clausola compromissoria, dunque, era nulla e non poteva produrre effetti.
Nella specie, ad avviso della ricorrente, alla convenzione stipulata nel 1990, non poteva applicarsi l’art. 241 del d.lgs. n. 163 del 2006, ma esclusivamente i d.P.R. n. 1063 del 1962.
Doveva ritenersi nulla, allora, una clausola compromissoria che non consentiva di declinare la competenza degli arbitri.
Si era dunque in presenza di una convenzione d’arbitrato nulla.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale condizionato si deduce la «nullità della sentenza per violazione dell’art. 829, primo comma, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., per non aver dichiarato che il collegio arbitrale ha deciso il merito della controversia in un caso in cui il merito non poteva essere deciso. Violazione e falsa applicazione degli articoli 1398 e 1399 c.c., dell’art. 1965 c.c. e degli articoli 2697 c.c. e 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Avrebbe errato la Corte d’appello nell’affermare che la ratifica dell’atto di concordamento dell’8/10/2002 doveva avvenire per iscritto.
In realtà, la presente controversia non avrebbe potuto instaurarsi proprio in ragione dell’accordo transattivo intervenuto, che aveva definito tutte le riserve iscritte fino alla data di sottoscrizione dell’atto.
Tuttavia, nell’art. 9 dell’accordo dell’8/10/2002 si prevedeva la sottoscrizione da parte del direttore dei lavori con la previsione, però, che qualora l’amministrazione entro 30 giorni avesse espresso il proprio diniego motivato l’atto sarebbe stato considerato nullo, mentre «il decorso del medesimo termine senza diniego espresso si intenderà come approvazione a tutti gli effetti».
Si trattava di un meccanismo di silenzio-assenso, per cui l’amministrazione avrebbe implicitamente ratificato l’accordo sottoscritto dal direttore lavori.
Con il terzo motivo di ricorso incidentale condizionato il RAGIONE_SOCIALE lamenta la «infondatezza del primo motivo di ricorso per cassazione e, in via incidentale, violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c., in tema di decorrenza del termine di prescrizione».
Ad avviso del ricorrente incidentale condizionato, infatti, la data da prendere in considerazione per il computo della prescrizione era quella di ultimazione dei lavori in data 11/8/2000.
Ciò doveva valere, però, non solo per le domande relative al saldo, al prezzo chiuso, alle riserve e agli interessi, ma anche per la domanda di risarcimento dei danni dal ritardo per l’effettuazione del collaudo.
Non si tratterebbe, come affermato dalla Corte d’appello, di illecito permanente, dovendosi applicare i medesimi principi relativi alle altre voci di danno.
Sarebbe unica la condotta omissiva contestata, non potendosi distinguere tra le varie voci di danno.
Tutti i danni si sarebbero dunque prescritti in cinque anni.
Peraltro, il 14/3/2002 vi sarebbe stato solo un collaudo parziale, mai approvato.
Anzitutto, deve procedersi dall’esame del ricorso principale, in quanto sui tre motivi di ricorso incidentale condizionato si è già pronunciata la Corte d’appello, rigettandoli.
Ed infatti, quanto all’ordine di esame RAGIONE_SOCIALE questioni oggetto rispettivamente dei motivi di ricorso principale ed incidentale, deve essere seguito l’indirizzo indicato dalle sezioni unite di questa Corte (Cass., sez. un., 25 marzo 2013, n. 7381), richiamato anche da recenti pronunce (per tutte vedi Cass., sez. 5, ord. 5 giugno 2020, n. 10696).
Si è affermato il principio secondo il quale il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni
pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito (si vedano Cass. Sez. U., 6 marzo 2009, n. 5456; Cass. Sez. U. 25 marzo 2013, n. 7381; Cass. sez. 1, 6 marzo 2015, n. 4619; Cass. sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6138).
Nella specie, invece, come detto, la Corte d’appello ha respinto le doglianze del RAGIONE_SOCIALE, reputando tardiva la declinatoria dell’amministrazione in data 21/12/2012, ed affermando l’inefficacia dell’atto di concordamento dell’8/10/2002, in quanto il responsabile del procedimento era sprovvisto del potere di impegnare l’amministrazione, mentre la ratifica avrebbe dovuto assumere la forma scritta, non essendo sufficiente una qualche condotta concludente della PA.
Il primo motivo di ricorso principale è infondato.
10.1. Risulta pacifico tra le parti che i lavori sono stati ultimati l’11/8/2000, mentre il collaudo – tra l’altro parziale – è stato redatto il 14/3/2002, senza successiva approvazione dello stesso.
Per tale ragione, la Corte d’appello ha ritenuto fondato il terzo motivo di impugnazione del lodo relativo al mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione da parte del collegio arbitrale.
Correttamente, la Corte territoriale ha ritenuto che il termine di prescrizione decennale decorresse dall’11/4/2001, ossia dalla data di ultimazione dei lavori, avvenuta l’11/8/2000, dovendosi aggiungere ai 6 mesi dall’ultimazione dei lavori, il periodo di 2 mesi per l’approvazione del collaudo.
La diffida ad adempiere era stata inviata solo il 18/5/2011 e il giudizio arbitrale era stato introdotto il 7/11/2012.
Il termine di prescrizione inizia a decorrere dopo otto mesi dalla ultimazione dei lavori, quindi dall’11/8/2000 (il termine di maturazione della prescrizione è l’11/4/2001); sicché sia la diffida
stragiudiziale del 18/5/2011, sia l’avvio del procedimento arbitrale del 7/11/2012, sono tardivi ai fini della interruzione della prescrizione, ormai maturata a quelle date.
Deve evidenziarsi, con riferimento alla disciplina precedente all’art. 5 della legge n. 741 del 1981, che, pur in assenza di un termine preciso per l’effettuazione del collaudo, tuttavia questa Corte, con giurisprudenza consolidata, aveva ritenuto che la stazione appaltante dovesse comunque procedere al collaudo entro un termine ragionevole.
Si riteneva che l’appaltatore, in base alla regola posta già dall’art. 44 del capitolato generale approvato con D.M. 28/5/1895 e successivamente ripetuta nell’art. 44 del nuovo capitolato approvato con d.P.R. 16/7/1962, n. 1063, poteva agire per far valere il suo diritto al saldo finale, allo svincolo della cauzione e ad «eventuali compensi aggiuntivi», «o comunque a tutela RAGIONE_SOCIALE proprie ragioni», solo dopo che l’amministrazione, a norma dell’art. 109 del regio decreto 25/5/1895, n. 350, avesse deliberato sull’approvazione del collaudo e sulle domande dell’appaltatore con provvedimento che doveva essere posta in essere «in un arco temporale compreso nei limiti della tollerabilità e RAGIONE_SOCIALE normali esigenze di sperimentare l’opera successivamente al suo compimento, nonché di definire il rapporto: perciò senza ritardi ingiustificati» (Cass., 18/12/2008, n. 29530).
Tale disciplina, non prevedendo un termine per l’esecuzione del collaudo, aveva tuttavia consentito nella prassi alla stazione appaltante di ritardare ingiustificatamente ovvero di non compierlo affatto, perciò paralizzando sine die i diritti dell’appaltatore e le sue ragioni creditorie.
Si è dunque ritenuto che ove la stazione appaltante abbia omesso di adottare e comunicare le sue determinazioni in congruo periodo di
tempo (normalmente ricavato dall’art. 38 del d.P.R. n. 1063 del 1962), tale comportamento omissivo denunciava di per sé «il rifiuto dell’amministrazione di provvedervi, nonché il suo inadempimento», cosicché l’appaltatore poteva far valere direttamente i diritti, in via giudiziaria o arbitrale, «senza necessità di dover mettere preliminarmente in mora l’amministrazione o di assegnarle un termine, e tanto meno di sperimentare il procedimento di cui all’art. 1180 c.c.».
La mancata adozione del collaudo, nonostante il decorso del tempo normalmente e ragionevolmente necessario in relazione alle effettive esigenze dell’esame valutativo, denotava, di per se stesso, il rifiuto del collaudo da parte dell’amministrazione committente e il suo correlativo inadempimento rispetto a questo aumento contrattuale, legittimando l’appaltatore ad agire in sede giurisdizionale per far valere i propri diritti (Cass., Sez.U., 28/10/1995, n. 11312; Cass., sez. 1, 8/1/2009, n. 132).
12. È poi intervenuto l’art. 5 della legge n. 741 del 1981, a mente del quale, «la collaudazione dei lavori RAGIONE_SOCIALE deve essere conclusa entro 6 mesi dalla data di ultimazione dei lavori», con la successiva previsione per cui «e il certificato di collaudo o quello di regolare esecuzione non sono approvati entro due mesi dalla scadenza dei termini di cui ai precedenti commi e salvo che ciò non dipenda da fatto imputabile all’impresa, l’appaltatore, ferme restando le eventuali responsabilità a suo carico accertate in sede di collaudo, ha diritto alla restituzione della somma costituente la cauzione definitiva».
Con l’ulteriore previsione, al comma 5, per cui «rascorsi i termini di cui ai commi precedenti, l’impresa può proporre, ai sensi RAGIONE_SOCIALE norme vigenti, giudizio arbitrale o ordinario per le controversie
nascenti dal contratto di appalto, anche se non è stato ancora approvato il collaudo o il certificato di regolare esecuzione».
Per questa Corte, dunque, l’intervento del legislatore, teso ad accelerare le procedure per l’esecuzione del collaudo, ha attribuito «valore legale tipico di rifiuto, e quindi di inadempimento, al protrarsi di tale inerzia per un segmento temporale la cui congruità ha prestabilito in linea generale ed astratta; il cui inutile decorso, senza che l’amministrazione abbia fornito la prova che la relativa omissione o il relativo ritardo siano dipesi da fatto imputabile all’impresa, determina, per ciò solo, l’insorgere del diritto dell’appaltatore al pagamento del saldo o RAGIONE_SOCIALE altre poste legate all’ultimazione dei lavori; nonché di quelli ulteriori correlati alla scadenza del termine suddetto, quale, il pagamento degli interessi sulla rata di saldo o l’automatica estinzione RAGIONE_SOCIALE polizze fideiussorie » (Cass. n. 29530 del 2008; anche Cass., sez. 1, 16/8/2011, n. 17314).
Insomma, con la scadenza del termine massimo introdotto dall’art. 5 citato dalla data di ultimazione dei lavori, si individua «con certezza il momento iniziale di esercizio del complesso bagaglio dei diritti dell’appaltatore di cui alla norma, al quale, legittimandolo ‘alle controversie nascenti dal contratto’, attribuisce la possibilità legale di richiedere in giudizio la prestazione che gli compete » (Cass., n. 29530 del 2008).
L’inutile scadenza del termine per l’esecuzione del collaudo fa sorgere il diritto dell’appaltatore al pagamento del saldo, e segna il momento in cui inizia a decorrere la prescrizione del credito (Cass., sez. 1, 13/11/2024, n. 29262; Cass., sez. 1, 13/3/2019, n 7194; Cass., sez. 1, 29/1/2019, n. 2477).
Pertanto, non v’è dubbio che, come correttamente affermato dalla Corte d’appello, il termine iniziale di decorso della prescrizione decennale deve essere individuato nella data dell’11/4/2001, ossia 8
mesi dopo la data di ultimazione dei lavori, avvenuta l’11/8/2000, mentre non esplica alcuna efficacia il collaudo parziale avvenuto il 14/3/2002, che non risulta neppure approvato.
Non v’è dunque alcuna ragione per distinguere tra omesso collaudo e ritardato collaudo, una volta che sono decorsi gli 8 mesi dalla data di ultimazione dei lavori.
Del resto, con ulteriori pronunce di questa Corte si è ritenuto che in tema di appalto di opere pubbliche, l’Amministrazione appaltante, anche con riferimento alle operazioni di collaudo, non può ritardare ” sine die ” le proprie determinazioni, paralizzando per un tempo indefinito i diritti della controparte, essendo tenuta ad eseguire il contratto nel rispetto degli artt. 1374 e 1375 cod. civ.; pertanto, se sia fissato espressamente nell’atto un termine per il compimento RAGIONE_SOCIALE indicate operazioni, e lo stesso trascorra senza che sia adottato alcun provvedimento, tale situazione assume il significato di rifiuto del collaudo e di inadempimento da parte del committente. Ne consegue che, da tale momento, non solo l’appaltatore può agire in sede giurisdizionale per far valere i suoi diritti, senza necessità di costituire preliminarmente in mora la debitrice, né di assegnarle o chiedere che le sia assegnato un termine, ma inizia anche a decorrere il termine di prescrizione (Cass., sez. 1, 21/6/2012, n. 10377).
12.1. Il collaudo – peraltro solo parziale – intervenuto il 14/3/2002 risulta inidoneo ad interrompere il termine di prescrizione, in quanto i termini di cui all’art. 5 della legge n. 741 del 1981 non sono disponibili da parte della P.A., con conseguente irrilevanza ai fini del computo della prescrizione di un successivo collaudo.
Il ritardo nell’effettuazione del collaudo costituisce, allora, rifiuto del collaudo o, comunque, mancanza di collaudo, con conseguente decadenza della P.A., con consumazione del relativo potere (ed
irrilevanza del collaudo effettuato fuori dal perimetro temporale suindicato), ai fini della interruzione della prescrizione.
Va redatto il seguente principio di diritto: «In tema di appalti RAGIONE_SOCIALE, una volta scaduto il termine di otto mesi per l’esecuzione del collaudo da parte della P.A., ai sensi dell’art. 5 della legge n. 741 del 1981, il dies a quo – decennale – per la maturazione della prescrizione in ordine al diritto dell’appaltatore al saldo del compenso pattuito decorre dalla data di ultimazione dei lavori, restando irrilevante, ai fini della interruzione della prescrizione, il successivo collaudo tardivo, perché i termini di cui alla norma suindicata non sono disponibili da parte della RAGIONE_SOCIALE, che risulta così avere consumato – sempre limitatamente a tali fini – il relativo potere RAGIONE_SOCIALEstico, dovendosi equiparare il tardivo collaudo a rifiuto di collaudo o a mancato collaudo».
Il secondo motivo di ricorso principale è infondato.
13.1. Deve muoversi, allora, dalla necessità della forma scritta per i RAGIONE_SOCIALE stipulati dalle pubbliche amministrazioni.
In tal senso va richiamato l’art. 16 del regio decreto 18/11/1923, n. 2440, a mente del quale «i RAGIONE_SOCIALE sono stipulati da un pubblico ufficiale delegato a rappresentare l’amministrazione e ricevuti da un funzionario designato quale ufficiale rogante, con le norme stabilite dal regolamento. I processi verbali, di aggiudicazione nelle aste e nelle licitazioni private sono parimenti formati da quest’ultimo funzionario. I RAGIONE_SOCIALE ed i verbali anzidetti hanno forza di titolo autentico».
Analogamente, l’art. 17 del medesimo regio decreto n. 2440 del 1923 sancisce che «i RAGIONE_SOCIALE a trattativa privata, oltre che in forma pubblica amministrativa nel modo indicato al precedente art. 16, possono anche stipularsi: per mezzo di scrittura privata firmata
dall’offerente e dal funzionario rappresentante l’amministrazione; per mezzo di obbligazione stesa appiedi del capitolato».
13.2. Costituisce principio consolidato di questa Corte quello per cui i RAGIONE_SOCIALE con la pubblica amministrazione devono essere stipulati per iscritto a pena di nullità (Cass., 4 giugno 1999, n. 5448), non essendo consentita alcuna eventuale convalida o ratifica successiva (Cass., 3 gennaio 2001, n. 59; di recente Cass. n. 8753 del 2024, cit.).
Si è ritenuto, dunque, che, soprattutto in presenza di accordi specifici complessi con la pubblica amministrazione, la forma scritta sia assolutamente necessaria, «soprattutto al fine di rendere possibili i controlli istituzionali dell’RAGIONE_SOCIALE tutoria» (Cass., 3 gennaio 2001, n. 59, in tema di appalto pubblico; Cass., sez. 2, 30 maggio 2002, n. 7913, in tema di conferimento di incarichi a professionisti; di recente Cass., sez. 2, 27 marzo 2023, n. 8574; Cass., 3/4/2024, n. 8753).
Si è precisato che «il contratto nullo non può essere nemmeno ritenuto suscettibile di convalida, perché attraverso la ratifica o sanatoria, può essere corretto il vizio di un atto annullabile» (Cass. n. 59 del 2001; anche Cass. n. 1615 del 1981). Il contratto privo della forma scritta ad substantiam è nullo ed insuscettibile di qualsiasi forma di sanatoria, dovendosi, quindi, escludere l’attribuzione di rilevanza ad eventuali convalida o ratifica successive e non potendosi neppure ammettere la validità di manifestazioni di volontà implicita o desumibile da comportamenti puramente attuativi (Cass., sez. 3, 15 marzo 2004, n. 5234; Cass., sez. 1, 3/4/2024, n. 8753).
Solo nell’ipotesi in cui le parti abbiano previsto la continuazione del rapporto contrattuale in mancanza di disdetta, la protrazione del negozio avviene non già in virtù della manifestazione di un nuovo consenso, ma in forza dello stesso contratto originario, cui afferisce
la condizione risolutiva della disdetta, ed è da tale contratto disciplinata (Cass., sez. 3, 14/5/1981, n. 3187; Cass., sez. 3, 10/9/1999, n. 9614; Cass., sez. 1, 24/11/1999, n. 13039; Cass., sez. 3, 9/5/2017, n. 11231).
Inoltre, il difetto di potere rappresentativo è rilevabile ex officio (Cass., Sez. U., 3/6/2015, n. 11377).
Nella specie, da un lato, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto che il responsabile del procedimento, nonché direttore dei lavori, non avesse la legittimazione attiva alla stipulazione del verbale di concordamento dell’8/10/2002 e, dall’altro, che non fosse possibile la ratifica di tale contratto, se non in forma scritta.
Non era dunque neppure possibile che, a fronte di un negozio giuridico inefficace, la PA potesse provvedere alla ratifica dello stesso a mezzo di comportamenti concludenti oppure semplicemente per mezzo dello strumento del silenzio-assenso, come previsto nell’accordo dell’8/10/2002.
Al contrario, per questa Corte la disciplina del negozio concluso da un rappresentante senza poteri si applica anche alla rappresentanza organica degli enti RAGIONE_SOCIALE, poiché l’organo competente ad esprimere la volontà dell’ente può procedere alla ratifica del contratto sottoscritto dal ” falsus procurator “, per la quale è richiesta la forma scritta ” ad substantiam “, trattandosi di un contratto della PRAGIONE_SOCIALE. Detta ratifica non deve necessariamente risultare da un atto che manifesti espressamente la volontà del ” dominus “, potendo questa pure desumersi implicitamente da altro atto, comunque redatto per iscritto, che, formato per fini consequenziali alla stipula del contratto ratificato, esprima in modo inequivoco una volontà incompatibile con quella di rifiutare l’operato del rappresentante senza potere, da valutarsi in base ad un
apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da idonea motivazione (Cass., sez. 2, 9/11/2018, n. 28753).
È vero che la ratifica opera anche per gli enti RAGIONE_SOCIALE (Cass. n. 28753 del 2018), ma deve pervenire dall’organo abilitato a manifestare la volontà dell’ente, non essendo sufficiente, a tali fini, l’ordinativo di pagamento.
Peraltro, la verifica in ordine alla intervenuta ratifica, da parte dell’organo che sarebbe stato competente, involge un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici (Cass., sez. 1, 5/3/1993, n. 2681).
13.3. Tra l’altro, non è stata impugnata la ratio decidendi della Corte territoriale, ove ha ritenuto che il documento decisivo deve essere indicato con esattezza dal giudice d’appello con riferimento al numero dell’indice del proprio fascicolo.
Il terzo motivo di ricorso principale per cassazione è anch’esso infondato.
Esso muove dalla premessa interpretativa per cui il termine di prescrizione, che pure poteva applicarsi a talune voci di danno richieste dall’appaltatore, quali il saldo, il compenso forfettario, le riserve e gli interessi moratori, con espresso riferimento alla data di ultimazione dei lavori dell’11/8/2000, comprensiva degli 8 mesi successivi per l’approvazione, e quindi alla data dell’11/4/2001, non poteva però disciplinare la richiesta di compenso relativa al «prezzo chiuso », per il quale, proprio come in ipotesi di revisione dei prezzi, doveva aversi riguardo ad una diversa data di inizio della prescrizione, ossia quella relativa al momento autoritativo della PA che deliberava in ordine alla revisione dei prezzi, come pure in relazione al «prezzo chiuso».
Orbene, pur ammettendo che per questa Corte le ipotesi del compenso revisionale e del prezzo chiuso sono accomunate, in quanto in entrambi i casi per il riconoscimento RAGIONE_SOCIALE spettanze è necessaria l’adozione di un provvedimento autoritativo da parte della PA (Cass., 26/2/2020, n. 5135), tuttavia non è consentito differenziare il termine di prescrizione, in caso di ritardo nel collaudo, in base alle tipologie di richieste avanzate dall’appaltatore.
È vero dunque, che il termine di prescrizione con riferimento al compenso revisionale, in generale decorre dalla unilaterale determinazione della PA (Cass., sez. 1, 27/6/2002, n. 9403), ma, nella specie, trattandosi della peculiare ipotesi in cui la PA committente non ha provveduto nei termini alla effettuazione RAGIONE_SOCIALE operazioni di collaudo, tutte le pretese economiche dell’appaltatrice hanno in comune il dies a quo della maturazione della prescrizione, individuato nella data di ultimazione dei lavori, con l’aggiunta di 8 mesi.
La medesima conclusione vale anche per le somme richieste a titolo di prezzo chiuso.
Ed infatti, il divieto della ‘revisione dei prezzi” e l’obbligatorietà del “prezzo chiuso”, da considerarsi principi regolatori degli appalti RAGIONE_SOCIALE, sono ispirati a parametri di contemperamento tra diritti dell’appaltatore ed esigenze del committente affatto diversi rispetto a quelli della revisione prezzi, atteso che mentre quest’ultimo istituto tende a mantenere fermo l’originario rapporto sinallagmatico tra prestazione dell’appaltatore e controprestazione dell’Amministrazione, adeguando il corrispettivo alle variazioni dei prezzi di mercato, ove questi superino la soglia della normale alea contrattuale, i primi, invece, mirano ad assicurare alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e prestazioni alle migliori condizioni, nonché a soddisfare l’esigenza della certezza dell’impegno finanziario e di risanamento della finanza
pubblica, e ciò mediante un’alea convenzionale forfetizzata per entrambi i contraenti attraverso un sistema di automatico computo degli aumenti sganciato da un preciso collegamento con l’inflazione reale (Cass., sez. 1, 21 luglio 2016, n. 15029).
Per questa Corte, poi, in tema di appalti RAGIONE_SOCIALE, qualora sia stata prevista l’applicabilità del “prezzo chiuso”, ai sensi dell’art. 33, quarto comma, legge n. 41 del 1986 (applicabile ” ratione temporis “), il corrispettivo dovuto all’appaltatore viene determinato “ex ante ” sulla base del duplice presupposto dell’importo netto dei lavori e della durata contrattualmente prevista, cosicché lo stesso risulta composto dal prezzo base d’asta aumentato tante volte del 5 per cento per quanti sono gli anni contrattualmente previsti per l’esecuzione dei lavori, dovendo la maggiorazione del 5 per cento applicarsi includendo nel calcolo l’intera durata contrattualmente prevista per l’esecuzione dei lavori, ivi compreso il primo anno, senza quindi applicare il metodo a scalare – consistente nel calcolare l’aumento del 5 per cento per il primo anno, sul valore complessivo del contratto e, per gli anni successivi, sul valore residuo dei lavori da eseguire e senza computare le somme già corrisposte all’appaltatore per i lavori effettuati – (Cass., 18/5/2012, n. 7917).
Conseguentemente, qualora il contratto di appalto preveda l’applicabilità del “prezzo chiuso”, allo stesso non è applicabile la disciplina in materia di revisione dei prezzi (Cass. n. 7917 del 2012, cit.).
In caso di ritardo del collaudo, però, sia il credito da revisione dei prezzi che quello da prezzo chiuso osservano il medesimo termine di prescrizione, che inizia a decorrere una volta computati otto mesi dalla ultimazione dei lavori.
Il quarto e il quinto motivo di impugnazione, che vanno affrontati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono anch’essi infondati.
15.1. Risulta incontestata nella specie l’applicazione dell’art. 829, terzo comma, c.p.c., nella versione anteriore alle modifiche di cui al 2006, in quanto la clausola compromissoria era contenuta nella convenzione n. 316 del 16/5/1990.
Ed infatti, per questa Corte, a sezioni unite, in tema di arbitrato, l’art. 829, comma 3, c.p.c., come riformulato dall’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006, si applica, ai sensi della disposizione transitoria di cui all’art. 27 del d.lgs. n. 40 cit., a tutti i giudizi arbitrali promossi dopo l’entrata in vigore della novella, ma, per stabilire se sia ammissibile l’impugnazione per violazione RAGIONE_SOCIALE regole di diritto sul merito della controversia, la legge – cui l’art. 829, comma 3, c.p.c., rinvia – va identificata in quella vigente al momento della stipulazione della convenzione di arbitrato, sicché, in caso di convenzione cd. di diritto comune stipulata anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, nel silenzio RAGIONE_SOCIALE parti deve intendersi ammissibile l’impugnazione del lodo, così disponendo l’art. 829, comma 2, c.p.c., nel testo previgente, salvo che le parti stesse avessero autorizzato gli arbitri a giudicare secondo equità o avessero dichiarato il lodo non impugnabile (Cass., Sez. U., 9/5/2016, n. 9284; Cass., sez. 1, 13/7/2017, n. 17339).
Pertanto, in tali ipotesi – clausola compromissoria anteriore all’art. 24 del d.lgs. n. 40 del 2006 – è ammissibile l’impugnazione del lodo per errores in iudicando (Cass., Sez. U., n. 9285 del 2016).
La stessa ricorrente per cassazione richiama il «novellato art. 241, comma 15bis d.lgs. n. 163 del 2006» e l’art. 829, comma 3, c.p.c. (cfr. pagina 23 del ricorso per cassazione).
Inoltre, ai sensi dell’art. 48 del d.l. n. 83 del 2012 «1. Nei giudizi arbitrali per la risoluzione di controversie inerenti o comunque connesse ai lavori RAGIONE_SOCIALE, forniture e servizi il lodo è impugnabile davanti alla Corte di appello, oltre che per motivi di nullità, anche per violazione RAGIONE_SOCIALE regole di diritto relative al merito della controversia. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche ai giudizi arbitrali per i quali non sia scaduto il termine per l’impugnazione davanti alla Corte d’appello alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Nella specie, il lodo è stato pronunciato il 20/10/2013, sicchè la novella era applicabile ratione temporis ».
Ciò vuol dire che era consentita l’impugnazione del lodo per violazione RAGIONE_SOCIALE regole di diritto relative al merito della controversia.
15.1.1. Tuttavia, il controllo consentito alla Corte d’appello in ordine alla denuncia di vizi di nullità del lodo risulta limitato, non essendo possibile contestare a mezzo dell’impugnazione la valutazione dei fatti dedotti e RAGIONE_SOCIALE prove acquisite nel corso del procedimento arbitrale, in quanto tale valutazione è negozialmente rimesse alla competenza istituzionale degli arbitri (Cass., sez. 1, 28/2/2006, n. 4397; Cass., sez. 1, 31/7/2020, n. 16553; Cass., sez. 1, 8/6/2007, n. 13511).
Neppure è possibile il riesame di questioni di merito sottoposte agli arbitri, sicché l’accertamento in fatto da essi compiuto non è censurabile nel giudizio di impugnazione del lodo, salvo che la motivazione sul punto sia completamente mancante o assolutamente carente (Cass., sez. 1, 18/9/2020, n. 19602).
Si è infatti affermato che la denuncia di nullità del lodo arbitrale, ai sensi dell’art. 829, secondo comma, c.p.c., – nella vecchia formulazione – per inosservanza RAGIONE_SOCIALE regole di diritto in iudicando è ammissibile solo se circoscritta entro i medesimi confini della
violazione di legge opponibile con il ricorso per cassazione ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. (Cass., sez. 1, 31/7/2020, n 16559; Cass., sez. 2, 16/5/2024, n. 13604).
15.2. Deve allora valutarsi se la Corte d’appello, accogliendo il quarto e il sesto motivo di nullità del lodo, abbia deragliato rispetto ai confini segnati dall’impugnativa ex art. 329, secondo comma, c.p.c., nella vecchia stesura.
In realtà, il collegio arbitrale è giunto a riconoscere l’entità del danno subito dall’appaltatrice per il ritardo nel collaudo, facendo riferimento a quanto stabilito dal CTU, in base al quale occorreva «parametrare detti danni con i soli coefficienti (opportunamente ridotti) relativi alle Spese Generali e agli Oneri di Concessione sostenuti dall’ATI concessionaria a causa dei ritardi dell’Amministrazione concedente», in quanto, avendo natura di oneri contrattuali assunti con la sottoscrizione della Convenzione, «detti oneri, anche se non documentati dall’attrice, devono essere riconosciute all’ATI concessionaria; mentre qualsiasi altra voce di danno deve essere opportunamente documentata e dimostrata da parte attrice».
15.3. La Corte d’appello, invece, ha ritenuto che fosse necessaria la prova in ordine ai danni subiti dalla società appaltatrice per il ritardo della committente nell’effettuare il collaudo, non essendo idonea, a tale riguardo, la CTU.
La Corte territoriale ha ritenuto, richiamando l’orientamento di questa Corte, che il riconoscimento dei maggiori oneri derivanti da ritardo nelle procedure di collaudo doveva «ritenersi precluso dalla mancata dimostrazione RAGIONE_SOCIALE spese sopportate, che ne impedisce la liquidazione in via equitativa, legittima, invece, solo quando sia impossibile o comunque difficoltoso dimostrare il danno nel suo preciso ammontare e il danno si è nondimeno dimostrato nella sua
sussistenza ed entità materiale, non essendo la parte dispensata dall’onere di dar prova degli elementi di fatto di cui possa disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia ricondotto alla funzione di colmare soltanto le lacune insuperabili nella determinazione dell’equivalente pecuniario (Cass. 11889/14)».
La Corte d’appello ha proseguito, aggiungendo che questa Corte ha anche precisato, nella medesima vicenda processuale sopra descritta, «che la CTU non costituisce mezzo istruttorio in senso proprio, ma strumento utilizzabile ai fini di una più adeguata valutazione degli elementi acquisiti in base a particolari cognizioni tecniche e non può quindi essere disposta per supplire alle deficienze RAGIONE_SOCIALE allegazioni e deduzioni della parte per compiere indagini esplorative alla ricerca di elementi, fatti o circostanze rimasti in dimostrati».
Il giudice di secondo grado ha anche chiarito che la società RAGIONE_SOCIALE «non ha invocato, né nella domanda di arbitrato, né nella prima né nella seconda memoria, un qualche elemento probatorio che sostenersi la domanda risarcitoria; e nello stesso elaborato peritale si trova asserito che maggiori oneri non risultavano documentalmente dimostrati (il CTU ha calcolato tuttavia i danni, parametrati, con talune decurtazioni, alle astratte percentuali RAGIONE_SOCIALE spese generali)».
Mancava insomma «una specifica dimostrazione della effettiva sussistenza dei maggiori oneri lamentati, in base alla richiamata giurisprudenza della Corte di legittimità, ed ha violato i principi sull’onere della prova, incorrendo quindi in errore di diritto».
Pertanto, «una volta venuta meno la possibilità di avvalersi della CTU, siccome illegittimamente disposta», la Corte d’appello ha ritenuto «in sede rescissoria, che il difetto di un qualche specifico elemento probatorio in ordine ai maggiori oneri sostenuti, non solo
non consente di ritenere provati tali oneri nella loro ontologica materialità, prova questa che incombeva su RAGIONE_SOCIALE, ma nemmeno consente di procedere ad una loro liquidazione equitativa, giusta il richiamato indirizzo della Corte di legittimità, tantomeno facendo riferimento ad astratte percentuali relative alle spese generali».
Deve osservarsi, dunque, che la Corte d’appello non è giunta ad una nuova valutazione dei fatti dedotti RAGIONE_SOCIALE prove acquisite, che è rimessa alla competenza istituzionale degli arbitri, ma ha accolto i motivi di impugnazione del lodo quarto e sesto, sotto il profilo della violazione di legge.
Con il quarto motivo si deduceva la «nullità del lodo per violazione dell’art. 2697 c.c., per avere fatto ricorso a CTU esplorativa in difetto di prova dei crediti vantati dai RAGIONE_SOCIALE».
Con il sesto motivo si censurava la «nullità del lodo per violazione dell’art. 1965 c.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 5, comma 1, legge n. 741/81, per avere riconosciuto a titolo di risarcimento del danno da ritardato collaudo RAGIONE_SOCIALE maggiori spese generali, in assenza di prova».
16.1. Tra l’altro, per questa Corte le spese generali attengono alle specifiche ipotesi di sospensione illegittima dei lavori, parziale o totale (Cass., sez. 1, n. 4391 del 2014).
Del resto, per questa Corte, le prestazioni svolte prima della scadenza del termine per l’effettuazione del collaudo restano a carico dell’impresa, formando oggetto di un obbligo generale la cui remunerazione è compresa nel corrispettivo dell’appalto (Cass., n. 11889 del 28/5/2014).
Al contrario, per il periodo successivo alla scadenza del termine per l’effettuazione del collaudo, «si configurano come prestazioni non contemplate dal contratto, il cui compenso è posto a carico dell’Amministrazione, subordinatamente alla prova dell’imputabilità
del ritardo» (Cass. n. 11889 del 2014; Cass. n. 11188 del 2001; Cass. n. 113 del 1985).
Pertanto, ricorrendo tale seconda ipotesi, la società avrebbe dovuto fornire la prova dei danni asseritamente maturati per il periodo successivo alla scadenza del termine per l’effettuazione del collaudo.
Questa Corte ha poi confermato l’orientamento giurisprudenziale per cui «incensurabile, in tale contesto, appare poi la scelta di non procedere a CTU, la quale non costituisce un mezzo istruttorio in senso proprio, ma uno strumento utilizzabile ai fini di una più adeguata valutazione di elementi acquisiti o della soluzione di questioni che implichino il possesso di particolari conoscenze tecniche, e non può quindi essere disposta al fine di dispensare le parti dall’adempimento dei rispettivi oneri probatori o di supplire alla deficienza RAGIONE_SOCIALE loro allegazioni o deduzioni, o ancora di compiere un’indagine esplorativa la ricerca di elementi, fatti o circostanze rimasti in dimostrati» (Cass. n. 11889 del 2014).
Con l’ulteriore precisazione per cui «risulta infine l’osservazione della Corte di merito, secondo cui il riconoscimento degli oneri in questione doveva ritenersi precluso dalla mancata dimostrazione RAGIONE_SOCIALE spese sopportate dalla ricorrente, che ne impediva la liquidazione anche in via equitativa: come noto, infatti, tale liquidazione costituisce espressione di un potere discrezionale del giudice, previsto dall’art. 1226 c.c., il cui esercizio non dà luogo ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità correttiva o integrativa, il quale presuppone da un lato che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro che ne siano state dimostrate la sussistenza e l’entità materiale, non essendo la parte dispensata dall’onere di fornire gli elementi di dati di fatto dei quali
possa ragionevolmente disporre, finché l’apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare soltanto le lacune insuperabili nella determinazione dell’equivalente pecuniario» (Cass. n. 11889 del 2014; vedi anche Cass., sez. 2, 1873/2022, n. 8941, per cui la liquidazione equitativa non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza del danno e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale).
La Corte d’appello, dunque, nel decidere i motivi quarto e sesto di impugnazione del lodo arbitrale, ha fatto applicazione dei principi giurisprudenziali di legittimità in materia; sicché il perimetro del controllo della Corte d’appello si è svolto nell’ambito della violazione di legge di cui all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
Il ricorso incidentale condizionato, a seguito del rigetto del ricorso principale, resta assorbito.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico della ricorrente si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale.
Dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato.
Condanna la ricorrente principale a rimborsare in favore del controricorrente le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 20.000,00, oltre spese prenotate a debito, rimborso forfettario RAGIONE_SOCIALE spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 ottobre 2025
Il Presidente NOME COGNOME