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Premio alla nascita: no a discriminazione stranieri

La Corte di Cassazione ha stabilito che escludere dal ‘premio alla nascita’ le cittadine straniere non in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo costituisce una discriminazione illegittima. La sentenza ha confermato che un ente previdenziale non può introdurre, tramite proprie circolari, requisiti più restrittivi rispetto a quelli previsti dalla legge. È stata inoltre ribadita la piena legittimazione delle associazioni a tutela dei diritti degli immigrati a intentare azioni legali contro discriminazioni collettive basate sulla nazionalità.

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Pubblicato il 21 settembre 2025 in Diritto Civile, Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Premio alla nascita: la Cassazione ribadisce il no alla discriminazione degli stranieri

Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione ha posto un punto fermo sulla questione del premio alla nascita, stabilendo che escludere le cittadine straniere non munite di permesso di soggiorno UE di lungo periodo è una condotta discriminatoria. Questa decisione chiarisce che i requisiti per accedere alle prestazioni sociali devono essere stabiliti dalla legge e non possono essere ristretti da atti amministrativi di enti previdenziali. Analizziamo insieme i dettagli di questa importante pronuncia.

I fatti del caso: il beneficio e i limiti contestati

La vicenda trae origine da una misura di sostegno alla famiglia, il cosiddetto “premio alla nascita”, introdotto per legge nel 2017. Un importante ente previdenziale nazionale, incaricato di erogare il beneficio, aveva emanato delle circolari interne con cui limitava la platea delle beneficiarie. Nello specifico, per le cittadine extracomunitarie, veniva richiesto il possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, escludendo di fatto tutte le altre donne straniere regolarmente presenti sul territorio.

Alcune associazioni attive nella tutela dei diritti degli immigrati hanno impugnato tali circolari, ritenendole discriminatorie. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato loro ragione, qualificando la condotta dell’ente come illegittima perché introduceva requisiti non previsti dalla legge primaria.

La questione davanti alla Cassazione: due motivi di ricorso

L’ente previdenziale ha portato il caso davanti alla Corte di Cassazione, basando il proprio ricorso su due argomenti principali:
1. La legittimazione delle associazioni: L’ente sosteneva che le associazioni non avessero il diritto di intentare un’azione legale (la cosiddetta “legittimazione ad agire”) per questo tipo di discriminazione, ritenendo che l’azione collettiva fosse ammessa solo per motivi razziali o etnici, o in ambito lavorativo.
2. La natura non discriminatoria della condotta: Secondo l’ente, la sua scelta era giustificata dalla volontà di indirizzare il beneficio a chi avesse un legame più stabile con il territorio e che, in ogni caso, un eventuale errore nell’interpretazione della norma dovesse essere considerato scusabile.

Le motivazioni della Corte Suprema

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo motivazioni chiare e approfondite su entrambi i punti.

Sulla legittimazione ad agire: un diritto confermato

I giudici hanno innanzitutto confermato che le associazioni che tutelano i diritti dei migranti hanno pieno diritto di agire in giudizio per contrastare le discriminazioni collettive basate sulla nazionalità. La Corte ha spiegato che sarebbe illogico e contrario ai principi costituzionali e comunitari consentire azioni collettive per discriminazioni basate sulla razza o sul genere e negarle per quelle, altrettanto gravi, basate sulla nazionalità. La tutela contro la discriminazione deve essere piena e accessibile, e le associazioni svolgono un ruolo fondamentale in questo senso.

Sul merito: perché l’esclusione dal premio alla nascita è discriminatoria

La Corte ha smontato la difesa dell’ente, affermando che la condotta è palesemente discriminatoria. Il punto centrale della motivazione risiede nel principio di gerarchia delle fonti del diritto. La legge che ha istituito il premio alla nascita non prevedeva alcun requisito specifico legato al tipo di permesso di soggiorno. L’ente previdenziale, attraverso semplici circolari amministrative (fonti di rango secondario), ha introdotto un requisito restrittivo, modificando di fatto la volontà del legislatore. Un atto amministrativo non può mai derogare o modificare una legge dello Stato.

Questo comportamento, definito contra legem (contro la legge), ha creato un’ingiustificata disparità di trattamento basata esclusivamente sulla nazionalità, o meglio, sul tipo di status giuridico dello straniero. La Corte ha inoltre specificato che, ai fini dell’accertamento della discriminazione, non rileva l’intenzione o la “colpa” dell’ente. Ciò che conta è il risultato oggettivo: l’introduzione di un trattamento deteriore per un gruppo di persone senza una giustificazione ragionevole.

Le conclusioni: implicazioni della sentenza

Questa sentenza ha importanti implicazioni pratiche e di principio. In primo luogo, riafferma che l’accesso alle prestazioni sociali non può essere subordinato a requisiti arbitrari introdotti dalla pubblica amministrazione. Le regole devono essere chiare, basate sulla legge e uguali per tutti coloro che si trovano nella stessa situazione sostanziale. In secondo luogo, valorizza il ruolo del contenzioso strategico portato avanti dalle associazioni, riconoscendole come attori essenziali per la tutela dei diritti fondamentali e la lotta contro le discriminazioni sistemiche. Infine, la decisione serve da monito per tutte le amministrazioni pubbliche: l’interpretazione delle leggi deve sempre avvenire nel rispetto dei principi di uguaglianza e non discriminazione.

Un ente pubblico può limitare l’accesso al premio alla nascita per le cittadine straniere?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che un ente pubblico non può, tramite atti amministrativi come le circolari, introdurre requisiti più restrittivi (come il possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo) rispetto a quelli previsti dalla legge che istituisce il beneficio. Farlo costituisce una discriminazione illegittima.

Le associazioni per i diritti degli immigrati possono fare causa a un ente pubblico per discriminazione?
Sì. La sentenza ha confermato pienamente la legittimazione ad agire delle associazioni per contrastare discriminazioni collettive basate sulla nazionalità. Il loro ruolo è considerato fondamentale per garantire una tutela effettiva contro le violazioni dei diritti.

Se un ente pubblico commette un atto discriminatorio per un errore interpretativo, è giustificato?
No. Secondo la Corte, per accertare l’esistenza di una discriminazione non è necessario indagare sull’intenzione o sulla colpa di chi ha agito. Ciò che rileva è il risultato oggettivo, ovvero l’esistenza di un trattamento differenziato e ingiustificato che crea una disparità. L’errore non è considerato una scusante.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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