Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 3313 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2   Num. 3313  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 06/02/2024
Oggetto
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
AVV_NOTAIO. NOME COGNOME
Presidente
VENDITA
AVV_NOTAIO. NOME COGNOME
Consigliere
AVV_NOTAIO. NOME COGNOME
NOME. Consigliere
Ud. 23/01/2024
AVV_NOTAIO. NOME COGNOME
Consigliere
AVV_NOTAIO. NOME COGNOME
Consigliere
SENTENZA
sul ricorso 25074-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE,  elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati  in  ROMA,  INDIRIZZO,  presso  lo  studio dell’avvocato NOME COGNOME CANTATORE, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato  NOME COGNOME;
– controricorrenti –
Avverso  la  SENTENZA  n.  912/2019  della  CORTE  D’APPELLO  di FIRENZE, depositata il 16/04/2019;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23/01/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
Udito il Sostituto Procuratore  generale  in persona  del  dott. NOME  COGNOME che  ha  concluso  per  l’ accoglimento  del ricorso;
uditi gli avvocati NOME COGNOME per la ricorrente e NOME COGNOME per entrambe le parti controricorrenti che hanno concluso come da rispettivi atti;
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 228/2014, emessa in data 29/04/2014, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE rigettava la domanda avanzata da NOME COGNOME, volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia di un contratto di compravendita a rogito AVV_NOTAIO in data 08/10/2009, con il quale NOME e NOME COGNOME, senza aver notificato la proposta di alienazione ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione agraria, meglio previsto nelle leggi 590/1965 e 811/1971 , vendevano a NOME COGNOME un terreno agricolo sito in Comune di Castellina in Chianti, loc. Pian dei Pescini, censito al nuovo catasto terreni di detto Comune al foglia 68 partt. 147, 148 e 149.
Il primo giudice, espletata attività istruttoria, disposta CTU e riqualificato il rapporto negoziale intercorrente tra i coniugi COGNOME e NOME COGNOME quale “contratto di affitto agrario”, ravvisava l’insussistenza dei presupposti costitutivi del diritto di prelazione in favore dell’attrice, atteso che, ai sensi degli artt. 8 L. n.590/1965 e 7 L. 817/1971, in ipotesi di trasferimento a titolo oneroso di fondo al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con quello offerto in vendita spettava un diritto di prelazione “reale”, assistito dal c.d. retratto, a condizione che sul fondo non vi fosse il contestuale e stabile insediamento di titolari di contratti agrari, quali “mezzadri, coloni; affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti ‘ come doveva invece considerarsi la COGNOME.
 NOME  COGNOME  proponeva  appello  avverso  la suddetta sentenza.
NOME COGNOME, nel costituirsi in giudizio, contestava, perché infondate, le censure mosse da parte appellante nei confronti della sentenza impugnata e, con appello incidentale condizionato all’eventuale accoglimento di quello principale chiedeva l’accertamento del suo diritto a rimanere nel possesso del fondo sino all’anno 2037 e, in difetto, il risarcimento del danno a carico dei terzi cedenti e il rimborso delle migliorie apportate sul terreno.
Si costituivano altresì COGNOME NOME e COGNOME NOME, che proponevano a loro volta appello incidentale condizionato, per la condanna dell’attrice NOME COGNOME alla manleva in loro  favore  per  tutte  la  somme  eventualmente  dovute  in  favore della convenuta NOME COGNOME in ragione del proprio arricchimento
senza causa derivante dalle opere eseguite sul fondo da quest’ultima.
6. La Corte d’ Appello di Firenze rigettava il gravame. In primo luogo la Corte d’Appello riteneva di esaminare come “ragione più liquida” la doglianza espressa dall ‘ appellante nella parte in cui il primo giudice aveva ritenuto la pregressa pendenza, tra le parti della compravendita (COGNOME–COGNOME), di un contratto, stipulato in data 13 luglio 2007, che, in realtà, pur nominalmente titolato quale “contratto di comodato”, di fatto, dissimulava un vero e proprio” contratto di affitto di fondo rustico, a titolo oneroso”.
Il motivo di appello doveva ritenersi infondato, ben potendo il Tribunale provvedere alla riqualificazione giuridica del contratto, nominalmente definito “di comodato”, intervenuto, a suo tempo, tra la RAGIONE_SOCIALE e i signori COGNOME. Invero, in considerazione delle eccezioni avanzate dai convenuti, a buona ragione, il Tribunale aveva ritenuto di dover indagare sulla effettiva natura del contratto intervenuto tra i medesimi, in relazione al contenuto del negozio datato 13 luglio 2007, nella necessità di procedere ad individuare la corretta qualificazione ed identificazione della tipologia contrattuale intervenuta tra le parti al fine di classificarne il tipo e scegliere la normativa correttamente applicabile (Cass 18656/2012). Infatti, la parte appellante non aveva posto alcuna contestazione riguardo al potere del giudice di prime cure di riqualificare il rapporto intercorso tra la COGNOME e gli COGNOME, ma aveva contestato che vi fossero i presupposti per ritenere la sussistenza del contratto di affitto di fondo poiché rimasto non provato l’aspetto del carattere oneroso, con riferimento alla controprestazione dovuta dall’affittuario. Al contrario, il Collegio
condivideva l’impostazione adottata dal Tribunale, secondo cui in atti vi era ampia prova del carattere oneroso del contratto, con particolare riferimento alla effettiva trasformazione a fini produttivi e commerciali del terreno, con pari travisamento degli obblighi derivati dall’ipotesi che si trattasse di un semplice comodato, anche modale. Il corrispettivo della locazione ben poteva essere costituito da obblighi specifici assunti dall’affittuario come, nel caso di specie, quello di migliorare il fondo mediante la realizzazione di una vera e propria attività commerciale derivante dalla realizzazione di vigneti, previo acquisto dei relativi diritti di reimpianto.
Infatti, non era possibile qualificare il contratto come comodato e neanche come comodato modale. La stessa appellante, a fronte di una contestazione del tutto generica, non aveva posto in dubbio le varie attività commerciali avviate dalla affittuaria sul fondo nella qualità di “imprenditore agricolo professionale ‘ , come attestato dalla RAGIONE_SOCIALE“· non assumendo rilievo la circostanza che tale attestazione fosse intervenuta in epoca, di poco, successiva alla stipula del contratto in contestazione. Dette attività, in realtà, certificavano la volontà delle parti di costituire a favore della RAGIONE_SOCIALE la locazione ad uso commerciale del fondo al fine di avviarvi una serie di interventi o migliorie che ne avrebbero chiaramente trasformato la destinazione, non avendo, peraltro, parte attrice dato alcuna prova delle diverse allegazioni, circa il fatto che il terreno sarebbe rimasto del tutto incolto. Del pari irrilevante era il fatto che detta locazione, nel tempo, avesse potuto precostituire la volontà delle parti di stipulare la compravendita del terreno.
Quanto alla opponibilità del contratto dissimulato, ai sensi dell’art. 1415 c.c., nei confronti dell’appellante, terzo in buona fede, occorreva affermarne l’inammissibilità, considerato che, nel primo grado del giudizio, l’ attrice si era limitata ad invocare l’accertamento del proprio diritto ad esercitare il “retratto”, senza far cenno alcuno della presenza dell’accordo simulato. Secondo la giurisprudenza di legittimità nell’ipotesi di retratto agrario, ai fini del suo corretto esercizio, l’azione di simulazione deve essere contemporaneamente instaurata con l’azione di riscatto del bene, atteso che la prima postula un interesse correlato all’esercizio di un proprio diritto, che con riferimento alla vendita di un fondo agrario concesso in affitto a coltivatore diretto, va individuato nel diritto di prelazione o nel succedaneo diritto di riscatto, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 590 del 1965. Ne consegue che l’assenza di espressa domanda sulla simulazione, comporta la semplice analisi del caso in merito alla mera sussistenza del diritto di riscatto.
La Corte rigettava anche il terzo motivo di appello relativo alle spese, confermandone la liquidazione secondo la soccombenza e dichiarava il non luogo a provvedere in ordine agli appelli incidentali condizionati.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza.
NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME hanno resistito con rispettivi controricorsi.
 Il  ricorso  è  stato  assegnato  alla  trattazione  in  camera  di consiglio ex art. 380-bis c.p.c., con proposta di inammissibilità.
 A ll’udienza del  14  ottobre  2020  la  proposta  de ll’allora relatore  non  è  stata  accolta  dal  collegio  che  ha  ritenuto  non
ricorrere le ipotesi di cui all’art. 375, primo comma, nn. 1 e 5 c.p.c., e  ha  affermato  la  necessità  della  rimessione  della  causa  alla pubblica udienza della sezione semplice ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c.
La controricorrente NOME COGNOME ha depositato memoria in prossimità dell’odierna udienza.
Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1367 c.c. e degli artt. 16, 17, 45 e 58 L. 3 maggio 1982, n. 203 e dei principi emergenti .
La ricorrente lamenta come – a fronte di un contratto denominato comodato, che non prevedeva alcun corrispettivo – la Corte d’appello abbia sovvertito l’inequivocabile tenore letterale del medesimo, affermando che il corrispettivo sarebbe stato rappresentato dall’obbligo di migliorare il fondo, mediante la realizzazione di vigneti, previo acquisto dei relativi diritti di reimpianto” obbligo di cui non vi sarebbe traccia nel contratto. L’unica disposizione del contratto riferita ai miglioramenti fondiari ed al reimpianto dei vigneti stabilisce che “la parte comodataria sin d’ora è autorizzata dalla concedente, ad apportare migliorie ed accessioni di qualsiasi tipo senza alcuna autorizzazione scritta ed in particolare di trasferire diritti di reimpianto (di) vigneti sui terreni oggetto del contratto, di realizzare vigneti e di richiedere autorizzazioni per la realizzazione dei miglioramenti fondiari” .
La comodataria, dunque, nella specie non sarebbe obbligata, ma  semplicemente “autorizzata” al  trasferimento  dei  diritti  di
reimpianto ed alla realizzazione dei vigneti. La semplice facoltà di compiere una determinata attività non può certo ritenersi idonea a configurare un corrispettivo quale requisito indefettibile del contratto di affitto di fondo rustico. Tale requisito deve essere in danaro o in utilità di altra natura periodico, certo o almeno determinabile, di norma correlato al valore di godimento del bene per realizzare una tendenziale equivalenza tra le due prestazioni. Ne consegue che il mero, eventuale pagamento di taluni oneri attinenti al fondo e di alcune spese accessorie, non costituendo lo scopo e l’oggetto del contratto, non varrebbero di per sé a qualificare il rapporto giuridico in termini di contratto di affitto, mentre, non assumendo natura sinallagmatica, sarebbe elemento compatibile con il contratto di comodato (modale), che trova la sua causa nel rapporto di conoscenza e di fiducia tra i contraenti (Sez. III, 10 marzo 2016, n. 4682).
L’interpretazione della Corte d’Appello si po rrebbe in contrasto, oltre che con il dato letterale, anche con il principio di conservazione del contratto ex art. 1367 c.c. che impone di privilegiare una interpretazione in base alla quale le clausole contrattuali possano spiegare un effetto rispetto a quella per cui esse non ne avrebbero alcuno. Ed invero, secondo la prospettiva ermeneutica della Corte fiorentina, l’acquisizione dei miglioramenti, addizioni o trasformazioni del terreno da parte dei signori COGNOME, in quanto corrispettivo per il godimento del fondo, avverrebbe senza il pagamento di alcuna somma di denaro e, quindi, senza riconoscimento di indennità: in tal modo tuttavia l’approdo interpretativo sarebbe quello di privare di efficacia la pattuizione contrattuale, che sarebbe sanzionata da nullità ai sensi
del combinato disposto degli artt. 17 e 58 della legge n. 203 del 1982.
Dalla corretta interpretazione e qualificazione di detto contratto come comodato discenderebbe la piena operatività del diritto di prelazione agraria in favore della signora COGNOME ai sensi del combinato disposto dell’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590 e dell’art. 7 della legge agosto 1971, n. 817, con la conseguente inefficacia del contratto di compravendita in data 8 ottobre 2010 attesa la mancata denuntiatio alla ricorrente confinante, coltivatrice diretta, ed il diritto della stessa al riscatto del fondo.
1.2 Il primo motivo di ricorso è fondato.
La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado e ha qualificato il rapporto negoziale intercorrente tra i coniugi COGNOME e NOME COGNOME quale “contratto di affitto agrario” , ricavando l’onerosità del rapporto dalla previsione di realizzare migliorie al fondo da parte della COGNOME, mediante la realizzazione di una vera e propria attività commerciale derivante, come nel caso di specie, dalla realizzazione di vigneti, previo acquisto dei relativi diritti di reimpianto. Secondo la Corte d’Appello, per tale motivo, non era possibile qualificare il contratto come comodato e neanche come comodato modale.
Preliminarmente,  deve  ribadirsi che  la qualificazione del contratto è operazione diversa da quella della interpretazione del contratto  ed  ha  la  funzione  di  stabilire  quale  sia  la  disciplina  in concreto ad esso applicabile, con le relative conseguenze effettuali. Infatti, mentre l’attività di interpretazione è diretta alla ricerca e alla individuazione della comune volontà dei contraenti e costituisce
un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito (normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dall’art. 1362 e ss. cod. civ.), l’attività di qualificazione, affidandosi al metodo della sussunzione, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può formare oggetto di verifica in sede di legittimità sia per ciò che attiene alla descrizione del modello tipico cui si riferisce, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto cosi come accertati, sia, infine, con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma normativo (v. Cass. 14/07/2016, n. 14355; 04/10/2017, n. 23171; Sez. 3, Sentenza n. 15603 del 04/06/2021, Rv. 661741 – 01).
In  altri  termini,  dall’ identificazione  degli  elementi  costitutivi dell’attività negoziale e delle finalità pratiche perseguite dalle parti dipende la conseguente qualificazione del contratto con attribuzione  del  corretto nomen juris ,  previa  interpretazione  sul piano giuridico, degli elementi di fatto precedentemente accertati .
Nel  caso  di  specie la  qualificazione  operata  dalla  Corte d’Appello del negozio in esame quale contratto di affitto agrario è volta  ad  affermare  la  sussistenza  della  qualità di affittuario coltivatore diretto della COGNOME con suo diritto ad acquistare il fondo che già coltivava in virtù del suddetto rapporto negoziale esistente con i precedenti proprietari. In base a tale rapporto la COGNOME, infatti, avrebbe titolo ad esercitare la prelazione prima della ricorrente (nel
caso quest’ultima possegga la qualità di coltivatore diretto proprietaria  di  terreni  confinanti  circostanza  non  accertata  nel giudizio di merito) in applicazione dell’art. 7 della l. n. 817 del 1971 che riconosce il diritto di prelazione al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti purché appunto sugli stessi non siano  insediati  mezzadri,  coloni,  affittuari,  compartecipanti  od enfiteuti coltivatori diretti.
Il  collegio  rileva  che  la  qualificazione  operata  dalla  Corte d’Appello  non  è  correlata  ai  presupposti  come  sopra  specificati, ovvero all’identificazione degli elementi  costitutivi dell’attività negoziale, alle finalità pratiche perseguite dalle parti e agli elementi di fatto emergenti dalla fattispecie.
D’altra parte, anche sotto il profilo più strettamente interpretativo  della  volontà  delle  parti, l’interpretazione  data  in entrambi  i  gradi  dai  giudici  del  merito  è  del  tutto  implausibile rispetto  agli  ordinari  canoni  interpretativi  a  partire  da  quello principale del tenore letterale ex art. 1362 c.c.
In  ogni  caso,  la  indicata  qualificazione  del  negozio  come rientrante nella sfera di applicazione della disciplina dei contratti agrari  non  trova  riscontro  nella  pluralità  dei  fattori  indicati  dalla Corte d’Appello, sia quanto all’onerosità del rapporto, sia quanto all’o ggetto del contratto e agli obblighi delle parti contraenti.
Di  conseguenza  è  errata  l’attribuzione  del nomen  juris di contratto  di  affitto  agrario sulla  base  di  una  ricostruzione  dei suddetti elementi che prescinde del tutto dal tenore letterale del contratto e dai reciproci obblighi delle parti, ponendosi pertanto in violazione della disciplina di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203.
Infatti, la Corte d’Appello ricava l’onerosità del rapporto dalla asserita  sussistenza  dell’obbligazione  di  apportare  migliorie  al fondo ma dal contratto, trascritto nel ricorso in ossequio al principio di specificità, emerge che la COGNOME aveva solo la facoltà di apportare miglioramenti senza alcun obbligo e senza la possibilità di attribuire a  questa  facoltà  la  funzione  di  corrispettivo  per  la  locazione  del fondo al fine della sua coltivazione.
Allo stesso modo non assume rilevanza il fatto che sul fondo la COGNOME eserciti attività imprenditoriale. Deve ribadirsi infatti che: In tema di rapporti agrari, l’art. 27 della l. n. 203 del 1982 secondo cui le norme regolatrici dell’affitto dei fondi rustici si applicano anche a tutti i contratti agrari, stipulati dopo l’entrata in vigore della legge medesima – non trova applicazione nell’ipotesi di concessione in comodato di un fondo rustico, stante l’impossibilità di qualificarla come contratto agrario (la cui causa, estranea al comodato, è quella di costituire un’impresa agraria sul fondo altrui), anche nel caso in cui, trattandosi di comodato modale avente per oggetto una cosa produttiva, il comodatario non si limiti ad una semplice attività di custodia, ma svolga un’attività di gestione (Sez. 2, Sentenza n. 2861 del 12/02/2016, Rv. 638858 01).
Una  volta  qualificato  il  rapporto  negoziale  come  comodato deve darsi continuità al seguente principio di diritto:  In tema di rapporti agrari, la disposizione prevista dall’art. 8 comma 1 della legge 26 maggio 1965, n. 590 – norma di stretta interpretazione in quanto  apportante  speciali  limitazioni  al  diritto  di  proprietà  contempla un numero chiuso di situazioni soggettive protette e non può trovare applicazione oltre i casi ivi previsti; pertanto, il diritto
di prelazione (e riscatto) agrario può essere esercitato solo da chi – coltivatore diretto – possa vantare, per effetto di un contratto concluso con il proprietario del fondo oggetto di trasferimento a titolo oneroso, la qualifica, alternativamente, di “affittuario”, “colono”, “mezzadro” o “compartecipante”, con la conseguenza che esso non spetta a chi detenga il fondo, oggetto di compravendita, in forza di concessione in comodato – stante l’impossibilità di qualificarla come contratto agrario (Sez. 3, Sentenza n. 5072 del 05/03/2007, Rv. 596375 – 01).
 In  conclusione  in  accoglimento  del  motivo  di  ricorso  la sentenza  impugnata  deve  essere  cassata  con  rinvio  alla  Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La  Corte  accoglie  il  ricorso,  cassa  la  sentenza  impugnata  e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione che provvederà  anche  alla  liquidazione  delle  spese  del  giudizio  di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione