Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 15020 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 15020 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 30717/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, da ll’ AVV_NOTAIO, presso il cui studio elettivamente domiciliano in Agropoli (SA), alla INDIRIZZO.
-ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE (quale mandataria di RAGIONE_SOCIALE), con sede in Roma, alla INDIRIZZO, in persona del procuratore AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata al controricorso, da ll’ AVV_NOTAIO, presso il cui studio elettivamente domicilia in Alassio (SV), alla INDIRIZZO.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 851/2020 della CORTE DI APPELLO DI GENOVA, pubblicata il giorno 25/09/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 21/05/2024 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALE (di seguito RAGIONE_SOCIALE), agendo quale incorporante per fusione di Banca RAGIONE_SOCIALE, chiese ed ottenne dal Tribunale di Savona il decreto ingiuntivo n. 110/2015, nei confronti di NOME COGNOME, titolare della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME (debitore), e NOME COGNOME (fideiussore), per la somma € 41.249,34, oltre interessi convenzionali e spese della procedura monitoria, affermandosene creditrice del primo in base a due distinte aperture di credito.
1.1. Le opposizioni autonomamente proposte dagli ingiunti, ex art. 645 cod. proc. civ., in cui si costituì la banca suddetta, furono respinte, previa loro riunione, dal medesimo tribunale, con sentenza del 19 maggio 2016, n. 626.
Analogo esito negativo ebbe pure il gravame promosso dall’COGNOME e dalla COGNOME avverso la suddetta decisione, definito dall’adita Corte di appello di Genova con sentenza del 25 settembre 2020, n. 851, resa nel contraddittorio RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) rappresentata da RAGIONE_SOCIALE.
2.1. Per quanto qui di residuo interesse, quella corte, dopo aver rimarcato che « all’udienza del 27 febbraio 2020, le parti hanno precisato le proprie conclusioni, che gli appellanti, nel frattempo muniti di nuovo difensore, hanno rassegnato in modo difforme dal proprio atto di appello e per questo motivo vanno disattese e ricondotte a quelle inziali », ritenne: i ) valida la fideiussione prestata dalla COGNOME, escludendo che la clausola relativa alla preventiva rinuncia del termine di cui all’art. 1957 cod. civ. fosse vessatoria, così venendo meno il riferimento al fatto che il fideiussore fosse da considerarsi come un soggetto consumatore; ii ) negò l’applicazione, nel corso dei rapporti predetti, di interessi usurari, tanto argomentando dalla relazione del c.t.u. da essa nominato.
Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso NOME COGNOME ed NOME COGNOME, affidandosi a sette motivi, il terzo dei quali
recante plurime censure. Ha resistito, con controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 380bis .1 cod. proc. civ., RAGIONE_SOCIALE BPM s.p.a. tramite la mandataria RAGIONE_SOCIALE.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso, rubricato « Violazione degli artt. 132, secondo comma. n. 4, 156 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 112 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. », prospetta la nullità della sentenza impugnata, asseritamente inficiata da error in procedendo , per avere omesso ogni motivazione sulla dichiarazione di inammissibilità delle conclusioni precisate dagli appellanti all’udienza del 27 febbraio 2020 (e di quelle consequenziali addotte nella comparsa conclusionale depositata telematicamente il 29 giugno 2020 e nella memoria di replica del 19 luglio 2020) e perché, anzi, « siffatta decisione, concernente la risoluzione di importanti questioni di diritto, viene sbrigativamente sbrogliata in appena tre righe anonimamente ricomprese nell’ambito della parte narrativa del provvedimento senza, poi, che di essa si faccia alcuna menzione nella sua sede appropriata, quella della parte motiva e del dispositivo ». Assumono i ricorrenti che il giudice di appello avrebbe dovuto « motivare specificamente -nel dichiarare inammissibile una difesa perché nuova -quali fatti nuovi od estranei alla materia oggetto del contraddittorio tra le parti tale difesa richieda di esaminare rispetto a quelli inizialmente prospettati e discussi nel corso del giudizio. . La sentenza è nulla, ai sensi dell’art. 132, comma 2, n. 4, c. p.c., ove risulti del tutto priva dell’esposizione dei motivi sui quali la decisione si fonda ovvero la motivazione sia solo apparente, estrinsecandosi in argomentazioni non idonee a rivelare la ratio decidendi».
1.1. Una tale doglianza si rivela inammissibile, atteso che, come costantemente sancito dalla qui condivisa giurisprudenza di legittimità, « in materia di vizi in procedendo non è consentito alla parte interessata di formulare, in sede di legittimità, la censura di omessa motivazione, in quanto spetta alla Corte di cassazione accertare se vi sia stato, o meno, il denunciato vizio di attività, attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del
giudice di merito sul punto » ( cfr . Cass. n. 21944 del 2019; Cass. n. 7620 del 2001).
Il secondo motivo di ricorso, rubricato « Violazione degli artt. 359, 276, comma 1, 158 e 161 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. », deduce, « In continuità con la contestazione dell’ error in procedendo dovuto allo scambio delle conclusioni di parte appellante in atti, constatabile in sentenza ed avvenuto con le modalità descritte da primo motivo di ricorso da intendersi qui riportate », la nullità della sentenza impugnata per divergenza tra la composizione del collegio d’appello che trattenne la causa in decisione all’udienza dell’11 aprile 2019, rimettendola poi in istruttoria, e quello dinanzi al quale furono precisate le conclusioni in data 27 febbraio 2020. Si assume, in sintesi, che, una volta mutata la composizione di quel Collegio nel predetto intervallo temporale, « in data 27 aprile 2020 è stata solo apparentemente rinnovata l’udienza di precisazione delle conclusioni mentre, nella sostanza, il Giudice ha denegato ogni diritto di difesa per il tramite della menzionata dichiarazione di inammissibilità di cui alla pagina 5 della sentenza. Tuttavia, deve ritenersi che il rinnovamento dell’udienza di precisazione delle conclusioni logicamente implichi che la parte abbia la possibilità, rispetto al passato, di adeguare la propria strategia difensiva valorizzando fatti ed acquisizioni processuali già agli atti e svolgendo mere difese nei limiti di quanto le regole processuali gli consentano e ciò, se non altro, anche al fine di rendere meglio edotto il Giudice subentrante delle problematiche inerenti la materia del contendere nonché, se non altro, anche al fine di prendere posizione sull’espletata c.t.u. ».
2.1. Una tale censura risulta infondata, perché il mutamento di cui si discute è pacificamente avvenuto prima dell’ultima attività processuale -precisazione delle conclusioni all’udienza del 27 febbraio 2020 – svolta dalle parti ed il Collegio che ha poi deciso la causa è (circostanza parimenti incontroversa) lo stesso di quello innanzi al quale era stata celebrata la menzionata udienza.
3. Il terzo motivo di ricorso, recante « Violazione degli artt. 132, secondo comma, n. 3, 345, comma 2, 190 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. », consta di tre differenti profili: i ) quello intitolato ‘ III.A. Premessa ‘, che, in sintesi, censura la sentenza impugnata « in quanto fornisce una rappresentazione ingiustificatamente ed inaccettabilmente alterata dell’ iter processuale, mentre, al contrario, la doverosa condotta esigibile dal Giudice di seconde cure, in conformità alla prescrizione dettata dall’art. 132, co. 2, n. 3, c.p.c., era quella di riportare in sentenza le conclusioni rassegnate da parte appellante all’udienza del 27 febbraio 2020 e, successivamente, spiegare le ragioni dell’eventuale inammissibilità. Il descritto vizio porta all’immediata declaratoria di nullità per due ordini di motivi: in primo luogo, perché, come risulta dal testo della sentenza, l’omessa trascrizione delle conclusioni deriva da un atto volitivo, mentre la casistica giurisprudenziale riscontrabile sul tema ha esaminato fattispecie in cui siffatto vizio era ascrivibile a mere sviste o errori qualificandolo, per questo motivo, come mera irregolarità: appare evidente che i poteri decisionali del giudice si espandano sulle finali richieste della parti ma non certamente fino al punto di sottacerle e sostituirle. In secondo luogo, va riscontrata la nullità della sentenza perché la devianza di cui al presente motivo va letta in combinato disposto con le devianze contemplate dai precedenti due motivi di ricorso » ( cfr . pag. 3-4 del ricorso); ii ) quello intitolato ‘ III.B. Omessa pronuncia in relazione alla posizione del sig. NOME COGNOME ‘, in cui si deduce, in sintesi, che « enunciati i principi stabiliti dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione in tema di ‘questio nullitatis’ sollevabile in ogni stato e grado del giudizio anche d’ufficio, le doglianze riguardano l’omessa trattazione riguardante la nullità della clausola di massimo scoperto nonché la nullità dovuta all’anomala indicazione dell’indi catore sintetico di costo che costituisce elemento strutturale del contratto » ( cfr . pag. 4 del ricorso); iii ) quello intitolato ‘ III.C. Omessa pronuncia in relazione alla posizione della sig.ra NOME COGNOME, nella cui sintesi si legge: « La prima omissione: riguarda la mancata trattazione in sentenza della questione inerente la fideiussione prestata ad
esclusiva garanzia delle obbligazioni scaturite dal conto corrente n. 21119 mentre la banca pretende il pagamento del debito maturato sul diverso c/c n. 21071. Manca la titolarità del diritto in capo alla Banca. I contratti bancari devono avere la forma scritta ad substantiam. Anzi, nella fattispecie, la fideiussione deve ritenersi inesistente e la contraria statuizione deriva da un errore di percezione. Tali questioni sono sollevabili in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, come statuito dalle sentenze delle Corte di Cassazione anche a Sezioni Unite . La seconda omissione: il contratto di fideiussione risulta affetto da nullità rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche d’ufficio, perché le clausole sub artt. 2, 6 e 9 del contratto di fideiussione del 09/06/2010, sottoscritte dalla sig.ra NOME COGNOME, sono identiche a quelle sub artt. 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’RAGIONE_SOCIALE già dichiarate contrarie all’art. 2, co. 2, lett. a, della L. n. 287/1990, perché oggetto di un’intesa restrittiva della concorrenza, secondo quanto accertato dalia Banca D’Italia nel provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005. Terza omissione: alla garante spettava il riconoscimento della qualità di consumatrice con applicazione delle nullità di protezione previste dal codice del consumo secondo i principi recentemente enunciati dalla Corte di Cassazione, conformi a quelli della Corte di Giustizia U.E., secondo i quali il fideiussore può essere consumatore pure se il garantito è imprenditore ».
3.1. Il primo dei tre appena descritti profili è insuscettibile di accoglimento, rivelandosi essere, sostanzialmente, una riproposizione delle medesime censure svolte con i due precedenti motivi di ricorso già respinti. Quanto si è già detto in relazione a questi ultimi, dunque, consente di disattendere, affatto agevolmente, anche questa doglianza.
3.1.1. Resta solo da aggiungere che, secondo la qui condivisa giurisprudenza di questa Corte, « L’omessa od erronea trascrizione delle conclusioni delle parti nella intestazione della sentenza importa la sua nullità solo quando le conclusioni formulate non siano state prese in esame, mancando in concreto una decisione sulle domande o eccezioni ritualmente proposte. Quando, invece, dalla motivazione della sentenza risulti che le
conclusioni delle parti, nonostante l’omessa o erronea trascrizione, siano state esaminate e decise, il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante ai fini della validità della sentenza » ( cfr . Cass. n. 10465 del 2024. In senso sostanzialmente conforme, si vedano anche Cass. n. 11150 del 2018; Cass. n. 12864 del 2015; Cass. n. 3979 del 2012; Cass. n. 4208 del 2007).
3.1.2. Nel caso di specie, la corte distrettuale ha motivato la ragione per cui ha riportato nell’epigrafe della sua sentenza l’indicazione delle conclusioni degli appellanti come formulate con l’atto di appello, anziché quelle precisate all’udienza del 27 febbraio 2020 (e la censura mossa, sul punto, con il primo motivo di ricorso è già stata disattesa), né è stata lamentata la omissione di pronuncia, da parte della medesima corte, sulle domande contenute nelle richiamate conclusioni rinvenibili nell’epigr afe predetta.
3.2. Il secondo dei tre descritti profili in cui si articola il motivo in esame è infondato.
3.2.1. Invero, le asserite omissioni di pronuncia ivi lamentate (riguardanti la invocata nullità, rispettivamente, della clausola di massimo scoperto e dell’anomala indicazione dell’indicatore sintetico di costo che costituisce elemento strutturale del contratto. Di entrambe, peraltro, giova immediatamente rimarcarlo, non si rinviene specifica menzione nelle conclusioni riportate nell’epigrafe della sentenza impugnata, né in quelle che gli appellanti assumono di aver rassegnato all’udienza del 27 febbraio 2 020, come trascritte nelle pagine 13-16 del loro ricorso) investono domande che gli stessi ricorrenti assumono ( cfr . pag. 27-28 del ricorso) essere state formulate solo « a pagina 23 e 24 della comparsa conclusionale del 29 giugno 2020 » (quella afferente la nullità della clausola relativa alla commissione di massimo scoperto) e « a pagina 25 e a pagina 27 della memoria conclusionale del 29 giugno 2020 » nella memoria di replica (quella concernente la nullità per l’anomalia relativa all’indicatore sintetico di costo).
3.2.2. Orbene, costituisce consolidato, e qui condiviso, orientamento di questa Corte quello secondo cui « la comparsa conclusionale di cui all’art. 190 cod. proc. civ. ha la sola funzione di illustrare le domande e le eccezioni
già ritualmente proposte, sicché, ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova con tale atto nel procedimento d’appello, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo, potendo limitarsi ad ignorarla, senza con ciò incorrere nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. » ( cfr . in termini, Cass. n. 20232 del 2022. In senso analogo, si vedano pure Cass. n. 16582 del 2005; Cass. n. 11175 del 2002). In altri termini, l’art 190, comma 2, cod. proc. civ., prescrivendo che le comparse conclusionali devono contenere le sole conclusioni già precisate dinanzi al giudice istruttore ed il compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto su cui si fondano, mira ad assicurare che non sia alterato, nella fase decisionale del procedimento, in pregiudizio dei diritti di difesa della controparte, l’ambito obiettivo della controversia, quale precisato nella fase istruttoria. Affatto opportunamente, dunque, Cass. n. 11547 del 2019 ha puntualizzato che « Tale norma non impedisce, perciò, che l’attore, senza apportare alcuna aggiunta o modifica alle conclusioni precisate in precedenza, e, soprattutto, senza addurre nuovi fatti, esponga, nella comparsa conclusionale, una nuova ragione giustificativa della domanda rivolta al giudice adito, basata su fatti in precedenza accertati o su acquisizioni processuali mai oggetto di contestazione tra le parti ».
3.2.3. Alla stregua di tali principi, pertanto, certamente non sussiste, nella specie, la duplice omissione di pronuncia lamentata dai ricorrenti nel profilo di doglianza in esame, atteso che, per loro stessa ammissione, essa avrebbe riguardato domande formulate, per la prima volta, solo negli scritti conclusionali di appello (e non ragione giustificative diverse di domande già tempestivamente introdotte in giudizio).
3.2.4. Va rimarcato, poi, -stante la specifica deduzione, sul punto, dell’COGNOME e della COGNOME che le Sezioni Unite di questa Corte si sono occupate ampiamente del problema della rilevabilità d’ufficio delle nullità contrattuali (sentenza 12 dicembre 2014, n. 26242, i cui princìpi sono stati peraltro successivamente ribaditi, tra le altre, da Cass. n. 19251 del 2018, Cass. n. 26495 del 2019, Cass. n. 20170 del 2022 e Cass. n. 28377 del 2022).
3.2.4.1. In quella sentenza è stato affermato, tra l’altro, che nel giudizio di appello ed in quello di cassazione, il giudice, in caso di mancata rilevazione officiosa in primo grado di una nullità contrattuale, ha sempre facoltà di procedere ad un siffatto rilievo.
3.2.4.2. Questo principio, però, deve essere applicato tenendo presenti le regole generali del processo civile e la relativa tempistica, onde evitare che l’esercizio di un potere officioso consenta alle parti di rimettersi in pista -per così dire -quando i fatti costitutivi del lamentato vizio negoziale da esaminare ex officio avrebbero potuto e dovuto essere tempestivamente allegati, onde consentire al giudice la necessaria valutazione in diritto. Qualora i fatti costitutivi della dedotta nullità negoziale non risultino già allegati in toto dalla parte che la invoca successivamente, difatti, non è consentito al giudice, in qualsiasi stato e grado del processo, procedere d’ufficio a tali accertamenti, la rilevabilità officiosa della nullità essendo circoscritta alla sola valutazione in iure dei fatti già allegati ( cfr. , anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 20713 del 2023 e Cass. nn. 2607, 5038, §5478 e 10712 del 2024).
3.2.4.3. Nel caso in esame, l’accertamento sulla fondatezza, o meno, delle eccezioni di nullità di cui qui si discute (riguardanti, come si ricorderà, la commissione di massimo scoperto applicata ed l’asserita anomalia relativa all’indicatore sintetico di costo) -che, quando pure proposte, per la prima volta, in appello in via principale, erano destinate a convertirsi in eccezione in senso lato anche al di là dei limiti e delle preclusioni processuali ormai maturate -poggiano su circostanze fattuali (riguardanti pure il contenuto delle clausole contrattuali di cui si invoca la nullità o la concreta determinazione dell’usurarietà del tasso di interessi passivo applicato dalla banca) che gli odierni ricorrente avrebbero dovuto tempestivamente introdurre già in primo grado. Alteris verbis , il COGNOME e la COGNOME avrebbero dovuto tempestivamente allegare, già innanzi al tribunale (ma di tanto non vi adeguata indicazione nella doglianza in esame, che non riporta se, e come, eventualmente le corrispondenti questioni fossero state ivi concretamente prospettate), i fatti costitutivi funzionali a fondare la
legittimità di una successiva rilevazione officiosa delle pretese nullità predette dagli stessi oggi invocate pur non essendo stata documentata una tempestiva domanda formulata in tal senso. La quaestiones nullitatis ove da loro sollevate in appello, pur astrattamente proponibili al di là delle preclusioni ormai maturatesi, avrebbero, sì, obbligato il giudice a rilevarne l’eventuale fondatezza, o meno (con conseguente applicazione del disposto dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.), ma sempre che, ed a condizione che, i fatti costitutivi dei vizi denunciati fossero stati già tempestivamente allegati, onde legittimare una decisione fondata su quegli stessi fatti e soltanto su quelli, non essendo più consentito al giudice di appello alcun accertamento fattuale se non in violazione del principio del contraddittorio.
3.3. Venendo, poi, al terzo dei tre descritti profili in cui si articola il motivo in esame, la prima omissione di pronuncia in esso lamentata dalla COGNOME (difetto della propria titolarità passiva dell’obbligazione di garanzia dedotta dalla banca creditrice, riferendosi la fideiussione prestata dalla prima esclusivamente all’apertura di credito sul conto n. 21119, intestato a DGL di COGNOME COGNOME, mentre, nel presente procedimento si discute del debito maturato da quest’ultima sul diverso conto corre nte n. 21071) è insuscettibile di accoglimento per le stesse ragioni già esposte, ed i principi giurisprudenziali ivi richiamati, nei precedenti §§ da 3.2.2. a 3.2.4.3. con riferimento alle omissioni di pronuncia lamentate dall’COGNOME. Anche in questo cas o, infatti, l’accertamento della fondatezza, o non, dell’eccezione di difetto di titolarità passiva formulata dalla COGNOME, per sua stessa ammissione ( cfr . pag. 29 e 30 del ricorso), solo nei suoi scritti conclusionali del 29 giugno e 19 luglio 2020, poggia su circostanze fattuali (riguardanti l’effettivo contenuto dei conti correnti nn. 21070 e 21119, entrambi riconducibili alla DGL di AVV_NOTAIO COGNOME, e della fideiussione rilasciata, in favore di quest’ultima, dalla COGNOME solo con riferimento ad uno di detti conti) che la menzionata ricorrente avrebbe dovuto tempestivamente introdurre già in primo grado, mentre di tanto non vi è traccia nella doglianza in esame, né nella sentenza oggi impugnata. Il tutto non senza rimarcare, peraltro, che, come si le gge alle pagine 47 e 48 dell’odierno ricorso, sul conto
corrente n. 21070 confluivano, tempo per tempo, secondo la periodicità convenuta, le competenze del conto n. 21119. Tanto, dunque, basta per rendere irrilevante ogni altro approfondimento circa l’asserito errore di percezione dalla COGNOME ascritto alla corte territoriale.
3.3.1. Insuscettibile di accoglimento si rivela pure la seconda omissione di pronuncia lamentata nel profilo di doglianza in esame.
3.3.1.1. Invero, l’« eccezione di nullità della fideiussione omnibus sottoscritta su schema ABI », pacificamente formulata, per la prima volta, dalla COGNOME nel giudizio di appello, segnatamente in sede di comparsa di costituzione dei nuovi difensori del 24 febbraio 2020, non risulta essere stata supportata da adeguata prova tempestivamente fornita dalla menzionata appellante, posto che quest’ultima ha prodotto il provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 ed il modulo di fideiussione omnibus predisposto dall’RAGIONE_SOCIALE nel 2003, soltanto in quella sede (contestualmente alla suddetta comparsa di costituzione dei nuovi difensori).
3.3.1.2. Orbene, deve osservarsi che, nella specie, il giudizio di appello ha investito una decisione di prime cure depositata in data 19 maggio 2016 e che, pertanto, trova applicazione l’attuale versione dell’art. 345 cod. proc. civ., come modificata dall’art. 54, del d.l. n. 83 del 2012 -convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012 -avendo questa Corte già stabilito che la modifica, in senso restrittivo rispetto alla produzione documentale in appello, di cui all’art. 345, comma 3, cod. pro c. civ., operata dal citato d.l. trova applicazione -mancando una disciplina transitoria e dovendosi ricorrere al principio tempus regit actum -solo se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge n. 134/2012, di conversione del d.l. n. 83/2012, e cioè dal giorno 11 settembre 2012 ( cfr . Cass. n. 6590 del 2017 e Cass. n. 21606 del 2021, entrambe ribadite, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 29506 del 2023).
3.3.1.3. Questa Corte ha chiarito, altresì, che la formulazione dell’art. 345, comma 3, cod. proc. civ. applicabile al caso in esame -a mente della quale ‘ Non sono ammessi i nuovi mezzi di prova e non possono essere
prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile ‘ -pone un divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza la ” indispensabilità ” degli stessi, e ferma restando per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile ( cfr . Cass. n. 26522 del 2017, anch’essa ribadita, in moti vazione, dalla menzionata, più recente, Cass. n. 29506 del 2023).
3.3.1.4. Nell’odierna vicenda, quindi, l’avvenuta produzione solo in appello della documentazione giustificativa della ivi sollevata, per la prima volta, « eccezione di nullità della fideiussione omnibus sottoscritta su schema ABI » risulta tardiva (nemmeno avendo gli appellanti, in quella sede o nell’odierno ricorso, argomentato circa la loro impossibilità, ad essi non imputabile, di produrla in precedenza).
3.3.1.5. Né la produzione predetta potrebbe considerarsi legittima unicamente valorizzando il fatto che l’eccezione di nullità della fideiussione suddetta era stata sollevata dall’odierna ricorrente solo in appello, come, peraltro, sarebbe stato pienamente possibile, trattandosi di eccezione in senso lato. Così opinando, infatti, oltre a sovrapporsi non correttamente il profilo della proponibilità dell’eccezione con quello dell’ammissibilità della produzione documentale, si verrebbe ad ammettere detta produzione in modo del tutto svincolato dalla verifica della impossibilità per la parte di operarla tempestivamente nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, in tal modo facendo ricorso, in sostanza, -latamente ed immotivatamente -ad un criterio di indispensabilità che, invece, non assume più rilievo nella vigente disciplina dell’ammissibilità di nuovi mezzi istruttori in appello.
3.3.2. Quanto, infine, alla terza omissione di pronuncia lamentata nel profilo di doglianza in esame, la corrispondente censura si rivela infondata.
3.3.2.1. Sicuramente non sussiste alcuna omissione di pronuncia sul punto, leggendosi nella sentenza impugnata che « una volta escluso che la clausola relativa ad una preventiva rinuncia del termine di cui all’art. 1957
c.c. sia una clausola vessatoria per un fideiussore, viene meno il riferimento al fatto che costui sia da considerarsi un soggetto consumatore» e che «la relativa eccezione risultava altresì pretestuosa in virtù del fatto che la COGNOME è la moglie del debitore principale ».
3.3.2.2. Per il resto, basta osservare che le circostanze fattuali invocate dai nuovi difensori degli appellanti nella loro comparsa di costituzione depositata nel corso del giudizio di appello, e ribadite in sede di precisazione delle conclusioni il 27 febbraio 2020 (e poi nei successivi scritti c onclusionali), al fine di insistere sull’attribuzione alla COGNOME della qualifica di consumatore, siano tardive, con conseguente impossibilità di fondare su esse un’eventuale pronuncia in tal senso .
Il quarto motivo di ricorso, rubricato « Violazione degli artt. 1936, 1957, 1418, 1419, degli artt. 2697 e 2729 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e della legge 10 ottobre 1990, n. 287, art. 2, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. », censura l’impugnata sentenza anche sotto il profilo indicato in rubrica, « ove sia meglio così individuabile il vizio dedotto nel motivo indicato al paragrafo III.C. con riguardo alla seconda omissione relativa al tema della fideiussione omnibus in quanto il Giudice di seconde cura applica la deroga di cui all’art. 1957 cod. civ. anche se la clausola contrattuale che la prevede risulta nulla in quanto applicativa dello schema concorrenziale ABI » ( cfr. pag. 5 del ricorso).
4.1. La doglianza costituisce, per stessa ammissione dei ricorrenti, riproposizione dello stesso tema già oggetto del secondo punto del terzo profilo del terzo motivo di ricorso, inquadrato, questa volta, alla luce dell’asserita violazione delle menzionate disposizioni di legge.
4.1.1. Possono essere qui richiamate, dunque, come ragioni fondanti il rigetto anche di questa censura, le medesime argomentazioni già esposte nei precedenti §§ da 3.3.1. a 3.3.1.5. per disattendere il suddetto precedente profilo.
Il quinto motivo di ricorso, rubricato « Violazione degli artt. 1936, 1957, 1175, 1375, 1341 cod. civ., del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, artt. 33, lett. b) e t), 34, commi 1 e 5, 36, in relazione all’art. 360, primo comma,
3, c.p.c. », contesta l’impugnata sentenza anche sotto il profilo indicato in rubrica, « ove sia meglio così individuabile il vizio dedotto nel motivo indicato al paragrafo III.C. con riguardo alla terza omissione relativa al tema della deroga all’art. 1957 cod. civ. ed alla qualità di consumatrice da attribuire alla sig.ra NOME COGNOME. Muovendo dalla critica al tradizionale orientamento per cui la deroga all’art. 1957 cod. civ. non costituirebbe clausola vessatoria, si giunge a censurare la mancata applicazione della nullità comminate dal codice del consumo all’art. 6 della fideiussione, da dichiarare nullo con reviviscenza della disciplina legale e decadenza del creditore » ( cfr . pag. 5 del ricorso).
5.1. La doglianza costituisce, per stessa ammissione dei ricorrenti, riproposizione dello stesso tema già oggetto del terzo punto del terzo profilo del terzo motivo di ricorso, inquadrato, questa volta, alla luce dell’asserita violazione delle menzionate disposizioni di legge.
5.1.1. Può essere qui richiamata, dunque, come ragione fondante il rigetto anche di questa censura, la medesima argomentazione già esposta nel precedente § 3.3.2., -circa la tardività delle circostanze fattuali invocate dai nuovi difensori degli appellanti nella loro comparsa di costituzione depositata nel corso del giudizio di appello, e ribadite in sede di precisazione delle conclusioni il 27 febbraio 2020 (e poi nei successivi scritti conclusionali), al fine di insistere sull’attribuzione alla COGNOME d ella qualifica di consumatore -per disattendere il suddetto precedente profilo.
Il sesto ed il settimo motivo di ricorso, infine, denunciano, rispettivamente:
VI) « Violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. ». Si assume, in sintesi, che, « Dalla lettura analitica degli estratti conto depositati dalla controparte, si evince che la Banca effettuava ben tre addebiti di interessi e competenze alla fine di ogni trimestre, sebbene nella sezione riepilogo competenze venisse contemplato il solo secondo addebito, mentre gli altri due cadevano nel dimenticatoio. Tratto in errore, il c.t.u. ha preso in considerazione i soli dati incompleti ricavabili dalla sezione riepilogo competenze e, inserendoli nelle formule
matematiche adoperate secondo le istruzioni della Banca d’Italia, ha affermato la legittimità dei tassi praticati. Se, invece, avesse tenuto conto degli altri due addebiti posticci, la cui presenza risulta verificabile ad ogni fine trimestre, inserendoli nei suoi calcoli secondo le regole tecniche che lui stesso enuncia, i tassi sarebbero risultati usurari e l’esito del giudizio sarebbe stato certamente capovolto poiché il ragionamento svolto dalla Corte di Appello di Genova, pur resa edotta, sul punto, da parte appellante, si fonda su un’acritica adesione alla c.t.u. che, tuttavia, conduce a risultati vanificati ed illogici a causa dell’utilizzazione dell’informazione travisata » ( cfr . pag. 56 del ricorso);
VII) « Violazione dell’art. 644 c.p., dell’art. 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108 e relativi decreti ministeriali, nonché degli artt. 1419, 1421, 1815, secondo comma, cod. civ., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c.1322, 1373, 1374, 1833, 1845 e 1855 del c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. ». Si deduce, in sintesi, che, « Nel caso in esame, la Banca si è fatta promettere interessi moratori al 19,50% (riconosciuti dal decreto ingiuntivo opposto che ha condannato i ricorrenti al pagamento degli interessi al tasso convenzionale poi confermato in 1° e 2°erado) percentuale che porta al dimostrato sforamento del tasso soglia e, per l’effetto, alla nullità dell’operazione creditizia come comminata dalla legge per usura originaria. D unque, la sentenza della Corte d’Appello appare ictu oculi erronea ed illegittima perché, basandosi acriticamente sulla relazione peritale redatta dal dottAVV_NOTAIO COGNOME, omette di rilevare che, secondo la legge vigente all’epoca della sottoscrizione di ognuno de i contratti (anni 2009/2010), il tasso di mora convenzionalmente pattuito al 19,50% era usurario ab origine».
6.1. Tali doglianze, scrutinabili congiuntamente perché chiaramente connesse, entrambe contestando la conclusione della corte distrettuale che ha negato l’applicazione, nel corso dei rapporti de quibus , di interessi usurari, tanto argomentando dalla relazione del c.t.u. da essa nominato, si rivelano complessivamente inammissibili.
6.2. Invero, la corte distrettuale ha esaustivamente esposto le ragioni del proprio convincimento ( cfr . pag. 9-10 della sentenza impugnata), spiegando pure la metodologia utilizzata dal c.t.u. per eseguire l’accertamento, chiaramente di natura fattuale, dalla prima, poi, condiviso.
6.2.1. A fronte di tali significative risultanze, le doglianze in esame, -peraltro nemmeno esenti da carenza di autosufficienza nella misura in cui richiamano stralci della c.t.u. espletata in appello omettendo di trascriverne almeno i passaggi maggiormente significativi -mostrano di non tenere in alcun conto che rappresenta ormai un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità ( cfr ., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 21504 del 2018; Cass. n. 16368 del 2014; Cass. n. 13845 del 2007; Cass. n. 19475 del 2005) quello secondo cui, ove il giudice di merito riconosca convincenti le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, poiché l’obbligo della motivazione è assolto già con l’indicazione delle fonti dell’apprezzamento espresso, dalle quali possa desumersi che le contrarie deduzioni delle parti siano state implicitamente rigettate ( cfr . Cass. n. 5229 del 2011; Cass. n. 19475 del 2005).
6.3. Quanto, poi, al lamentato vizio di travisamento della prova così come concretamente argomentato nel sesto motivo di ricorso, va rimarcato che la recente Cass., SU, n. 5792 del 2024, ha sancito che il travisamento del contenuto oggettivo della prova ricorre solamente in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio. Esso trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., mentre, se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, o n. 5, cod. proc. civ., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale.
6.3.1. Le Sezioni Unite hanno ritenuto non condivisibile la tesi proposta dall’ordinanza resa da Cass. n. n. 11111 del 2023 secondo la quale il cd. travisamento della prova andrebbe a collocarsi in uno spazio logico che non è quello dell’errore percetti vo destinato ad essere intercettato dalla revocazione, né quello dell’errore valutativo sottratto al giudizio di legittimità. Si ipotizzava, in quella sede, trattarsi di un errore percettivo (un « errore di percezione del contenuto oggettivo della prova ») denunciabile in Cassazione ai sensi dell’articolo 115 cod. proc. civ., per il tramite dell’articolo 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., giacché il giudice incorrerebbe in violazione della norma sulla disponibilità delle prove (non solo nei casi espressamente contemplati dalla disposizione, ma anche) quando pone a fondamento della decisione non « prove proposte dalle parti », ma prove che nel processo non hanno riscontro, non esistono affatto. Si tratterebbe, insomma, giusta l’ordinanza predetta, assumendo di mutuare l’affermazione dal settore penale, di un « errore revocatorio che però consente il ricorso al giudice di legittimità »: un errore revocatorio che non ricadrebbe entro l’ambito di applicazione dell’articolo 395, n. 4, c.p.c., bensì dell’articolo 360, comma 1, n. 4, in relazione all’articolo 115 dello stesso codice non potendo ricondursi il travisamento della prova ad un mero ‘ errore di percezione del contenuto oggettivo della prova ‘ giacché esso ricomprende in sé sia il momento dell’errore percettivo del dato probatorio, sia il momento dell’errore, collocato sul piano dell’inferenza logica, nell’identificazione del contenuto informativo desumibile dal dato probatorio.
6.3.2. Esse, inoltre, hanno chiarito, tra l’altro, che, « se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, inteso nel senso bifronte di cui si è detto, rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (si tratta di indirizzo scontato, sicché basterà citare Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle ‘carte’ processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di
più, consentendo appunto l’ingresso a censure concernenti il menzionato vizio extratestuale. Insomma, per dirla con chiarezza, la ricorribilità per cassazione per travisamento della prova assegnerebbe alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito ».
6.3.3. E dunque, « un travisamento della prova, nel suo ‘contenuto oggettivo’, non denunciabile per revocazione, che occorrerebbe spendere nel giudizio di legittimità, non esiste: il travisamento della prova in senso proprio, come si è detto, è difatti un travisamento bifronte, al quale possono ricondursi sia il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività, sia il momento dell’individuazione delle informazioni probatorie che dal dato probatorio, considerato nella sua oggettività, possono per inferenza logica desumersi. Ebbene, per un verso, il momento percettivo del dato probatorio nella sua oggettività è per sua natura destinato ad essere controllato attraverso lo strumento della revocazione; per altro verso, il momento dell’individuazione de lle informazioni probatorie che dal dato probatorio possono desumersi è, come è sempre stato, affare del giudice di merito, ed è per questo sottratto al giudizio di legittimità, a condizione, beninteso, non dissimilmente dal passato, che il giudice di merito si sia in proposito speso in una motivazione eccedente la soglia del ‘minimo costituzionale ‘».
6.4. Fermo quanto precede, nel caso in esame, la suddetta soglia risulta rispettata, alla luce delle plurime argomentazioni addotte dalla corte territoriale, che il ricorrente censura in modo così analitico da finire per puntare surrettiziamente ad una diversa lettura della c.t.u., attraverso un’autonoma rielaborazione dei dati istruttori.
6.4.1. Ricorre allora, in questo caso, proprio quel « tentativo di una verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio », avendo i giudici di merito fatto riferimento agli specifici indici di rilevazione degli interessi usurari spiegati dal c.t.u. attraverso il rinvio alla tipologia ed alla durata di ciascuno dei rapporti intercorsi tra la DGL di NOME COGNOME e la Banca RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE da lui esaminati, e dovendosi escludere, alla stregua dei riportati principi sanciti dalle descritta Cass., SU, n. 5972 del 2024, che l’eventuale errata lettura del
dato probatorio possa essere fatta valere ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ..
6.5. Non resta, dunque, che prendere atto degli accertamenti di merito effettuati dalla corte distrettuale quanto alla insussistenza di tassi usurari applicati nei rapporti in questione, rispetto ai quali le argomentazioni delle odierne censure di cui al sesto e settimo motivo di ricorso, sui rispettivi punti, appaiono sostanzialmente volte ad ottenerne un riesame, così dimenticando che: i ) il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, cod. proc. civ., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione ( cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 13408, 10033 e 9014 del 2023; Cass. n. 31071 del 2022; Cass. nn. 28462 e 25343 del 2021; Cass. n. 16700 del 2020. Si veda pure Cass., SU, n. 23745 del 2020, a tenore della quale, « in tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni -la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa »); ii ) nella specie, i ricorrenti incorrono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di
norme di legge processuale (tali essendo gli art. 115 e 116 cod. proc. civ. richiamati nella rubrica del sesto motivo) dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, -come chiarito, ancora recentemente da Cass. n. 5375 del 2024 (cfr. in motivazione, dove si richiamano, in senso analogo, Cass. nn. 35782, 16303, 11299 e 28385 del 2023. Nello stesso senso vedasi anche la più recente Cass. n. 11069 del 2024) -un’autonoma questione di malgoverno dell’art. 115 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge ( cfr . Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pure precisato che « è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. »). La violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., invece, è configurabile esclusivamente allorquando il giudice di merito abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione ( cfr . Cass., SU, n. 20867 del 2020, che ha pur puntualizzato che, « ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione »; Cass. n. 11069 del 2024; Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinché sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132, n. 4, e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse ( cfr . Cass. 24434 del 2016). In definitiva, la valutazione degli elementi istruttori
costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione ( cfr . Cass. n. 11176 del 2017, in motivazione); iii ) il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative ( cfr . Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043, 6257, 9429 e 10712 del 2024).
7. In definitiva, il ricorso di NOME COGNOME ed NOME COGNOME deve essere respinto, restando a loro carico, in via solidale, le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente, altresì dandosi atto, -in assenza di ogni discrezionalità al riguardo ( cfr . Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento ».
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso promosso da NOME COGNOME ed NOME COGNOME e li condanna, in solido tra loro, al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi parte controricorrente,
liquidate in € 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile