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Prassi aziendale: la tolleranza non giustifica sempre

Un lavoratore, licenziato per aver sottratto beni aziendali, si è difeso invocando una prassi aziendale tollerata. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo decisivo l’avvertimento con cui l’azienda aveva precedentemente comunicato la fine di tale tolleranza. La sentenza sottolinea l’importanza del principio di non contestazione: i fatti affermati da una parte e non contestati dall’altra si considerano provati.

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Pubblicato il 26 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Prassi Aziendale: Quando la Tolleranza del Datore di Lavoro Ha un Limite

Nel mondo del diritto del lavoro, la cosiddetta prassi aziendale rappresenta un concetto tanto diffuso quanto delicato. Si tratta di quei comportamenti ripetuti e tollerati dal datore di lavoro che possono ingenerare nei dipendenti la convinzione che siano permessi. Ma cosa succede quando l’azienda decide di porre fine a questa tolleranza? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo punto, chiarendo che un avvertimento esplicito può annullare qualsiasi precedente consuetudine, legittimando un successivo licenziamento disciplinare.

Il Caso: Dal Magazzino alla Corte di Cassazione

La vicenda riguarda un dipendente di un’azienda di commercio all’ingrosso di prodotti farmaceutici, licenziato per aver prelevato merci senza autorizzazione per uso personale.

L’Addebito Disciplinare e la Difesa del Lavoratore

L’azienda ha contestato al lavoratore di aver sottratto prodotti farmaceutici non commissionati. Il dipendente non ha negato i fatti nella loro materialità, ma si è difeso sostenendo che tale comportamento rientrava in una prassi aziendale da tempo esistente e tollerata dalla direzione. In sostanza, secondo il lavoratore, si trattava di una consuetudine che rendeva la sua condotta non punibile.

La Svolta: L’Avvertimento del Datore di Lavoro

L’azienda ha replicato in giudizio fornendo una versione differente. Pur ammettendo di essere venuta a conoscenza di questa prassi, ha precisato di averla scoperta solo in un momento specifico (settembre 2017) e di essere intervenuta immediatamente. Attraverso un responsabile di magazzino, la società aveva comunicato in modo chiaro a tutti i lavoratori coinvolti, incluso il dipendente poi licenziato, che tale consuetudine non era condivisa e doveva cessare immediatamente, minacciando reazioni disciplinari in caso di persistenza. Le 76 condotte addebitate al lavoratore si erano verificate tutte dopo questo avvertimento.

La Legittimità del Licenziamento e la prassi aziendale

La Corte d’Appello aveva già dato ragione all’azienda, respingendo il reclamo del lavoratore. La decisione si fondava su un elemento processuale cruciale: il principio di non contestazione.

Il Principio di Non Contestazione come Prova

Secondo i giudici di merito, il lavoratore non aveva mai contestato, nel corso del processo, la circostanza dell’avvertimento ricevuto nel settembre 2017. Questa mancata contestazione ha fatto sì che il fatto storico dell’avvertimento venisse considerato come provato. Di conseguenza, la prassi aziendale non poteva più essere invocata come scusante per i comportamenti tenuti dopo quella data. La tolleranza era ufficialmente finita.

L’Onere della Prova e la Valutazione del Giudice

Il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che l’azienda avesse l’onere di provare l’avvenuto avvertimento e che tale prova non potesse derivare dalla semplice condotta processuale (la non contestazione). La Suprema Corte, tuttavia, ha respinto questa argomentazione.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha chiarito che il suo ruolo non è quello di rivalutare le prove, ma di verificare la corretta applicazione delle norme di diritto. Spetta al giudice di merito apprezzare l’esistenza e il valore di una condotta di non contestazione. In questo caso, la Corte d’Appello aveva legittimamente considerato provato l’avvertimento, non solo per la mancata contestazione del lavoratore, ma anche sulla base di altri elementi, come il contenuto della stessa lettera di licenziamento. La Corte ha inoltre sottolineato che il ricorso del lavoratore era generico, in quanto non specificava nemmeno quali circostanze decisive avrebbe voluto dimostrare con le prove testimoniali non ammesse in appello.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per Lavoratori e Aziende

Questa ordinanza offre importanti spunti di riflessione. Per le aziende, evidenzia l’importanza di intervenire tempestivamente e in modo documentabile per interrompere prassi interne non gradite. Una comunicazione chiara, magari scritta, può essere decisiva per porre fine a qualsiasi legittimo affidamento da parte dei dipendenti. Per i lavoratori, la sentenza ribadisce che la tolleranza passata non è una garanzia per il futuro. Se l’azienda comunica un cambio di rotta, ignorare l’avvertimento espone al rischio concreto di sanzioni disciplinari, incluso il licenziamento. Infine, sul piano processuale, viene confermato il valore probatorio del principio di non contestazione: nel processo, anche i silenzi e le omissioni hanno un peso.

Una “prassi aziendale” tollerata in passato giustifica sempre un comportamento illecito del lavoratore?
No, la sentenza chiarisce che se il datore di lavoro dimostra di aver comunicato chiaramente la cessazione di tale tolleranza, la prassi non può più essere invocata come giustificazione per condotte successive a tale comunicazione.

Cosa succede se un lavoratore non contesta un fatto specifico affermato dall’azienda durante il processo?
In base al principio di non contestazione, il fatto non specificamente contestato può essere considerato provato dal giudice, senza bisogno di ulteriori prove. Nel caso di specie, la mancata contestazione dell’avvertimento ricevuto è stata decisiva per la decisione.

Può un lavoratore appellarsi alla Corte di Cassazione per una valutazione delle prove che ritiene sbagliata?
No, la Corte di Cassazione non riesamina nel merito i fatti o le prove. Il suo compito è verificare la corretta applicazione delle leggi. Pertanto, non può sindacare la valutazione del giudice su elementi come la non contestazione di un fatto o la rilevanza di una testimonianza, se tale valutazione è logicamente motivata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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