Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 19411 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 19411 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/07/2025
SENTENZA
R.G.N. 12944/22 U.P. 27/6/2025
Appalto -Autorizzazione -Difetto -Inefficacia -Restituzione degli importi corrisposti sul ricorso (iscritto al N.R.G. 12944/2022) proposto da:
COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE, DI COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE), in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE (C.F.: NUMERO_DOCUMENTO), quale incorporante per fusione della RAGIONE_SOCIALE, della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, in persona del suo titolare COGNOME NOME (C.F.: CODICE_FISCALE), rappresentati e difesi, giusta procura in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio digitale eletto presso l’indirizzo PEC del difensore;
-ricorrenti –
contro
Ente ecclesiastico ‘Provincia di MARIA SS.MA della RAGIONE_SOCIALE (C.F.: P_IVA), in persona del suo legale rappresentante pro -tempore , rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso con ricorso incidentale, dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME con domicilio digitale eletto presso gli indirizzi PEC dei difensori;
-controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila n. 1632/2021, pubblicata il 4 novembre 2021;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 giugno 2025 dal Consigliere relatore NOME COGNOME;
viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M. ex art. 378, primo comma, c.p.c., in persona del Sostituto Procuratore generale dott.ssa NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso principale e l’accoglimento del secondo motivo del ricorso incidentale; conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica;
lette le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.;
sentiti , in sede di discussione orale all’udienza pubblica, l’Avv. NOME COGNOME per i ricorrenti principali nonché gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per il controricorrente e ricorrente incidentale.
FATTI DI CAUSA
1. -Previa concessione dei provvedimenti cautelari di sequestro conservativo e giudiziario, con atto di citazione notificato il 2 agosto 2004, l’Ente ecclesiastico ‘Provincia di Maria SS.ma della Pietà’ dei Padri Passionisti conveniva, davanti al Tribunale di Chieti (Sezione distaccata di Ortona), COGNOME NOME, COGNOME NOME, la RAGIONE_SOCIALE Di Biase RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME, quale titolare della Sicur 2000, al fine di sentire: A) confermare il sequestro conservativo autorizzato ante causam ; B) dichiarare la nullità o inefficacia di tutti i rapporti contrattuali e degli incarichi intercorsi con i convenuti dal 1997 al 2000 e, in particolare, dei mandati del 13 gennaio 1997, del 7 aprile 1997 e del 19 dicembre 1997 nonché degli incarichi inerenti ai 13 immobili di proprietà dell’Ente; C) dichiarare la nullità degli 8 contratti di appalto conclusi con la RAGIONE_SOCIALE; D) condannare COGNOME NOME alla restituzione, in favore dell’Ente, della somma di euro 5.944.423,57 o la diversa somma accertata in corso di causa, oltre rivalutazione monetaria, interessi e risarcimento del maggior danno; E) in subordine, condannare COGNOME NOME al pagamento della medesima somma a titolo di risarcimento danni per responsabilità contrattuale o extracontrattuale nonché al risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di euro 250.000,00 per la truffa perpetrata ai danni dell’Ente; F) condannare gli altri convenuti, in solido con COGNOME NOME o in via esclusiva, a versare, in favore dell’Ente, le somme indebitamente ricevute, pari per la RAGIONE_SOCIALE ad euro 1.578.615,80, per COGNOME NOME, in qualità di
titolare della RAGIONE_SOCIALE, ad euro 191.058,07, per la RAGIONE_SOCIALE ad euro 86.839,13, per COGNOME NOME ad euro 117.745,98, per la RAGIONE_SOCIALE ad euro 241.062,97 e per la RAGIONE_SOCIALE ad euro 4.389,88, oltre rivalutazione monetaria e interessi; G) in subordine, condannare i convenuti a titolo di risarcimento danni extracontrattuale per gli importi sopra indicati ovvero a titolo di arricchimento senza giusta causa.
Si costituivano in giudizio COGNOME NOME, COGNOME NOME, la RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME, quale titolare della RAGIONE_SOCIALE, i quali contestavano la fondatezza, in fatto e in diritto, delle domande avversarie e concludevano chiedendo: – la revoca del sequestro conservativo e del sequestro giudiziario disposti ante causam ; – la dichiarazione della tardività dei disconoscimenti effettuati nell’atto di citazione con riguardo ai mandati e ai contratti di appalto, proponendo, in subordine, istanza di verificazione; – il rigetto nel merito delle domande avanzate; – in via riconvenzionale, l’accertamento del loro credito nei confronti dell’Ente per euro 4.905.909,65, a titolo di prestazioni professionali rese, disinfestazione attuata e lavori edilizi eseguiti; -in subordine, l’accertamento e la dichiarazione di inadempimento dell’Ente agli obblighi di cui ai contratti emarginati, co n la condanna al risarcimento dei danni nella misura di euro 3.314.917,20 o della diversa somma ritenuta di giustizia; – in ulteriore subordine, la dichiarazione di recesso dai contratti senza giusta causa da parte dell’Ente, con la condanna dello stesso alla congrua indennità dovuta; – in ulteriore subordine, in caso di
dichiarazione di nullità dei contratti conclusi dalle parti, la condanna dell’Ente al pagamento dell’indennizzo di cui all’art. 2041 c.c. nonché l’accertamento della grave responsabilità dell’Ente per aver colposamente determinato una situazione di apparenza in ordine ai poteri dei soggetti con cui i convenuti avevano contrattato e con la conseguente validità dei contratti, con la condanna dell’Ente medesimo al risarcimento dei danni quantificati in euro 8.801.500,36 o della diversa somma ritenuta di giustizia.
Nel corso del giudizio era assunta la prova orale ammessa ed era espletata consulenza tecnica d’ufficio in materia grafologica.
Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 77/2016, depositata l’11 marzo 2016: 1) dichiarava l’inefficacia dei mandati rilasciati in favore di COGNOME NOME il 13 gennaio 1997, il 7 aprile 1997 e il 19 dicembre 1997 nonché dei contratti di appalto conclusi relativamente agli immobili di San Giovanni in Venere di Fossacesia, di Madonna della Stella di Montefalco, della Chiesa San Filippo di Macerata, del Montescosso di Perugia, del Ritiro di Moricone, della Santa Maria della Pietà di Recanati, del Convento di San Gabriele di Isola del Gran Sasso, della INDIRIZZO di Morrovalle, poiché conclusi oltre i limiti del potere di rappresentanza di COGNOME NOME; 2) condannava i convenuti alla restituzione, in favore dell’Ente, delle somme indebitamente ricevute, di cui euro 2.074.774,92 a carico di COGNOME NOME, euro 1.600.176,73 a carico della RAGIONE_SOCIALE, euro 91.937,59 a carico di COGNOME NOME, euro 59.004,17 a carico di COGNOME NOME, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo; 3)
dichiarava l’inammissibilità delle domande riconvenzionali spiegate dai convenuti, perché propose tardivamente; 4) rigettava le richieste formulate dalla RAGIONE_SOCIALE e da COGNOME Fernando nei confronti dell’Ente; 5) rigettava la domanda di condanna dei convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale.
2. -Con atto di citazione notificato l’11 aprile 2017, COGNOME NOME, COGNOME NOME, la RAGIONE_SOCIALE, quale incorporante per fusione della RAGIONE_SOCIALE, della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, in persona del suo omonimo titolare, proponevano appello avverso la pronuncia di primo grado, lamentando: 1) la mancanza di prova della corrispondenza dello stralcio dello Statuto prodotto all’originale dello Statuto medesimo, all’esito dell’eccezione di non conformità delle pagine prodotte rispetto al testo integrale dell’atto; 2) la violazione delle norme di diritto canonico e del diritto civile italiano, in ordine alla qualificazione degli atti di straordinaria amministrazione e all’errore di interpretazione del documento denominato ‘Attestato’, emesso dalla Santa Sede il 21 novembre 1997; 3) l’erronea esclusione dell’applicabilità del principio di apparenza del diritto, in relazione all’elevato numero degli incarichi conferiti e all’assenza di qualsiasi contestazione a cura degli altri organi dell’Ente; 4) l’erroneo riferimento all’inefficacia degli atti conclusi dal rappresentante dell’Ente ecclesiastico senza autorizzazione, anziché alla mera annullabilità (con la conseguente prescrizione dell’azione); 5) la violazione del canone 1281, terzo comma, del codice di diritto canonico, secondo
cui la persona giuridica avrebbe dovuto comunque rispondere dell’atto nella misura in cui ne avesse tratto beneficio, con la conseguente spettanza delle somme relative alle attività svolte dai convenuti di cui l’Ente aveva beneficiato; 6) l’erronea dichiarazione di inammissibilità delle domande riconvenzionali spiegate dai convenuti.
Proponeva appello anche l’Ente ecclesiastico ‘Provincia di Maria SS.ma della Pietà’ dei Padri Passionisti, il quale contestava: A) l’erronea negazione della restituzione, nei confronti di COGNOME NOME, non solo con riferimento alle somme incassate direttamente, ma anche con riferimento a quelle utilizzate o mal gestite; B) la spettanza del risarcimento del danno nei confronti di COGNOME NOME anche per le somme incassate dai suoi parenti e collaboratori per attività illegittime e quindi nulle; C) la mancata considerazione degli assegni depositati dall’Ente, i cui importi erano stati riconosciuti dal COGNOME nel conteggio da questi redatto.
Resistevano alle impugnazioni le rispettive controparti.
Previa riunione dei giudizi, decidendo sui gravami interposti, la Corte d’appello di L’Aquila, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava l’appello principale e l’appello incidentale e, per l’effetto, confermava integralmente la sentenza impugnata.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a ) che la contestazione della difformità dello stralcio dello Statuto prodotto dall’originale doveva essere compiuta in modo chiaro e circostanziato attraverso l’indicazione specifica sia del documento che si intendeva contestare, sia degli aspetti per i quali si assumeva che lo stesso differisse dall’originale; b ) che, nella
fattispecie, la predetta specificità della contestazione non ricorreva, essendo stato affermato dai convenuti, odierni appellanti, soltanto che il documento era stato prodotto in parte e, comunque, il contenuto del documento, quanto alle norme statutarie, era conforme all’attestazione proveniente dall’Ufficio Riconoscimenti giuridici del 19 maggio 1987, depositata presso la Prefettura di Macerata; c ) che, in base alla valutazione degli atti di amministrazione, da compiersi necessariamente ex ante , emergeva la loro natura di atti di straordinaria amministrazione secondo il diritto canonico e le disposizioni statutarie dell’Ente efficaci nell’ordinamento italiano per effetto del riconoscimento dell’Ente medesimo come persona giuridica di diritto privato -, alla stregua del notevole impegno economico e finanziario che essi avevano richiesto, idoneo, in quanto tale, a comportare un potenziale pregiudizio per il patrimonio dell’Ente, indipendentemente dall’esito che gli stessi atti avessero effettivamente avuto, considerata la loro idoneità a determinare il citato pregiudizio, il che avrebbe richiesto l’autorizzazione al compimento dei richiamati atti da parte della Santa Sede, del Superiore generale o del Superiore provinciale; d ) che, in ordine alla natura dell’attestato del 21 novembre 1997, doveva essere ribadita la genericità di tale atto e, quindi, la sua inidoneità a costituire l’autorizzazione richiesta dal diritto canonico e dalle disposizioni statutarie per il compimento degli atti in esame; e ) che i limiti oltre i quali gli atti dovevano essere autorizzati, secondo quanto stabilito dall’art. 18 della legge n. 222/1985, erano opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di conoscenza di quest’ultimi; f ) che il riconoscimento dell’Ente
ecclesiastico comportava, ai sensi dell’art. 1 della citata legge n. 222/1985, l’applicazione a tale Ente della disciplina delle persone giuridiche private, cosicché la carenza del potere di rappresentanza della persona giuridica, da parte di colui che aveva agito in nome e per conto della medesima, non comportava l’annullamento ai sensi dell’art. 1425 c.c., ma l’inefficacia degli atti; g ) che la deduzione secondo cui la persona giuridica avrebbe dovuto rispondere dell’atto nella misura in cui ne avesse tra tto beneficio, ai sensi del canone 1281, terzo comma, del codice di diritto canonico, evocava la domanda di arricchimento senza causa, proposta in via riconvenzionale dai convenuti tardivamente e, dunque, inammissibile; h ) che, quanto alle censure proposte dall’Ente, la legittimazione a domandare la restituzione di un indebito pagamento eseguito dal mandatario spettava al mandante, sicché correttamente il Tribunale aveva ritenuto che fosse necessaria la proposizione di una specifica domanda, da parte dell’E nte, in ordine alla restituzione, nei confronti dei beneficiari, dei pagamenti da essi indebitamente ricevuti; i ) che all’inefficacia per carenza di autorizzazione dei mandati e degli appalti seguiva, sotto il profilo patrimoniale, la restituzione delle somme corrisposte, maggiorate degli interessi, in quanto il pagamento era rimasto privo di ogni giustificazione economicosociale; l ) che il consulente tecnico d’ufficio aveva esaminato 805 assegni mentre solo nella comparsa conclusionale l’Ente aveva dato atto del rinvenimento di ulteriori 50 assegni compresi nel prospetto allegato dal COGNOME; m ) che, in ordine a tale prospetto, si doveva però considerare, come pure il Tribunale aveva rilevato, che i rendiconti resi dal COGNOME erano diversi tra loro e quindi
inattendibili, sicché non erano idonei a provare gli ulteriori crediti dell’Ente, né potevano essere considerati, sotto questo profilo, gli importi relativi agli assegni dei quali le copie non erano state prodotte, non potendo assumere valore probatorio, neppure sul piano presuntivo, gli elementi di fatto dedotti dall’Ente per la dimostrazione della gestione o dell’incasso, da parte del COGNOME, degli assegni emessi a favore di terzi.
-Avverso la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi, COGNOME NOME, COGNOME NOME, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Fernando.
Ha resistito, con controricorso, l’intimato Ente ecclesiastico ‘Provincia di Maria SS.ma della Pietà’ dei Padri Passionisti, che a sua volta -ha proposto ricorso incidentale, articolato in tre motivi.
COGNOME NOME, COGNOME NOME, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME hanno depositato controricorso per resistere al ricorso incidentale.
Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe.
All’esito, le parti hanno depositato memorie illustrative, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -In primis , deve essere esaminata l’eccezione sollevata dalla controricorrente in ordine all’inammissibilità del ricorso principale per violazione dei principi di sinteticità e chiarezza.
1.1. -L’eccezione è infondata.
Dalla lettura di tale ricorso è infatti possibile evincere le ragioni di ogni singola doglianza, a fronte dei passi della motivazione debitamente contestati della sentenza impugnata.
1.2. -Ancora, deve rilevarsi che la memoria illustrativa depositata dai ricorrenti principali può essere esaminata solo con riferimento alle argomentazioni che sviluppano le censure già esposte nel corpo dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità e non già per i rilievi -come corroborati dai documenti allegati -che introducono profili nuovi.
Infatti, la memoria ex art. 378 c.p.c. non può integrare i motivi del ricorso per cassazione, poiché assolve all’esclusiva funzione di chiarire ed illustrare i motivi di impugnazione che siano già stati ritualmente -cioè in maniera completa, compiuta e definitiva -enunciati nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, con il quale si esaurisce il relativo diritto di impugnazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8949 del 30/03/2023; Sez. 1, Sentenza n. 26332 del 20/12/2016; Sez. L, Sentenza n. 5000 del 08/08/1986).
-Tanto premesso, con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2719 e 2697 c.c., per avere la Corte di merito utilizzato lo stralcio dello Statuto di cui era stata contestata la conformità all’originale, sebbene la
contestazione fosse stata specifica, avendo gli appellanti indicato con precisione di quale documento si intendeva contestare tale conformità e i motivi per cui era stata formulata la contestazione, ossia la mancata produzione del testo integrale dello Statuto.
Obiettano gli istanti che non sarebbe ricaduto sui convenuti appellanti l’onere di provare la suddetta mancanza di conformità, bensì sull’attrice appellata l’onere di depositare in giudizio l’originale del documento.
Né sarebbe stato dimostrato che gli atti in cui erano riportate le limitazioni ai poteri di rappresentanza iscritti nel registro delle persone giuridiche, fra i quali l’attestazione dell’Ufficio Riconoscimenti giuridici della Congregatio Pro Religiosis Et Institutis Secularibus in data 19 maggio 1987, i regolamenti generali, i regolamenti delle Province italiane, la circolare della Curia generalizia, la recognitio della Santa Sede del 22 febbraio 1999, la promulgazione della delibera della Conferenza Episcopale Italiana del 27 marzo 1999, la comunicazione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana del 27 aprile 1999, la modifica della misura della somma minima e massima per l’alienazione dei beni fossero stati realmente allegati allo Statuto.
Sicché -ad avviso dei ricorrenti principali -sarebbe spettato all’Ente morale dimostrare quali documenti fossero stati prodotti alla Prefettura di Macerata per legittimare la richiesta di iscrizione nel registro delle persone giuridiche.
2.1. -Il motivo è infondato.
Si evidenzia, in primis , che il vizio di conformità dedotto rispetto allo stralcio dello Statuto prodotto risente di un equivoco di fondo, reiterato anche nel corpo della doglianza esposta: ossia
se tale difetto sia riferito all’incompletezza della produzione, in quanto era stato depositato un mero stralcio, ovvero se la contestazione inerisse alla difformità dello stralcio dall’originale.
Al riguardo, la Corte d’appello ha, nell’ordine, precisato: -che la contestazione della difformità non era specifica, poiché i convenuti si erano limitati genericamente a sostenere che il documento ( recte lo Statuto) era stato prodotto solo in parte; che, comunque, a fronte di detta contestazione, l’accertamento della conformità poteva avvenire mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni; – che il contenuto del documento, quanto alle norme statutarie, era conforme all’attestazione proveniente dall’Ufficio Riconoscimenti giuridici del 19 maggio 1987, depositata presso la Prefettura di Macerata.
Orbene, nessun chiarimento è stato prospettato in ordine alla mancata deduzione della non genuinità dello stralcio prodotto dello Statuto rispetto all’originale, avendo i convenuti semplicemente sostenuto che tale stralcio era relativo solo ad alcune pagine dello Statuto.
Senonché la contestazione della conformità all’originale di un documento prodotto in copia non può avvenire con clausole di stile e generiche o onnicomprensive, ma va operata -a pena di inefficacia -in modo chiaro e circostanziato, attraverso l’indicazione specifica sia del documento che si intende contestare, sia degli aspetti per i quali si assume differisca dall’originale (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 40750 del 20/12/2021; Sez. 6-5, Ordinanza n. 14279 del 25/05/2021; Sez. 5, Sentenza n. 16557 del 20/06/2019; Sez. 2, Sentenza n. 27633 del 30/10/2018; Sez. 6-5, Ordinanza n. 29993 del 13/12/2017; Sez. 3, Sentenza n.
12730 del 21/06/2016; Sez. 3, Sentenza n. 7105 del 12/04/2016; Sez. 3, Sentenza n. 7775 del 03/04/2014; Sez. 1, Sentenza n. 14416 del 07/06/2013; Sez. 2, Sentenza n. 28096 del 30/12/2009; Sez. 5, Sentenza n. 11576 del 17/05/2006; Sez. 5, Sentenza n. 16232 del 19/08/2004; Sez. 5, Sentenza n. 15856 del 13/08/2004; nel senso, invece, che la contestazione importi la non equivoca negazione della conformità all’originale, ma non imponga anche la precisazione degli aspetti per i quali si assume tale difformità Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4912 del 27/02/2017).
E ad ogni modo è stata compiuta una puntuale verifica della conformità del contenuto di tale stralcio, quanto alla limitazione dei poteri del rappresentante dell’Ente morale, alle previsioni di cui all’attestazione proveniente dall’Ufficio Riconoscimenti giuridici del 19 maggio 1987, depositata presso la Prefettura di Macerata.
Tale atto -come gli altri documenti di comparazione prodotti -dovevano ritenersi fidefacienti, anche con riguardo all’avvenuto deposito presso la Prefettura (elemento non specificamente contestato nel giudizio di merito), senza che vi fosse alcun onere integrativo ricadente sull’Ente che li ha depositati.
Né era precluso che, preso atto della contestazione di cui all’art. 2719 c.c., il giudice accertasse la conformità della copia all’originale anche mediante la comparazione con tali documenti, di provenienza certa, che riportavano le stesse limitazioni dei poteri rappresentativi contenute nello stralcio dello Statuto, appunto in quanto tale conformità può essere acclarata facendo ricorso a qualsiasi mezzo di prova, eventualmente avvalendosi anche del ragionamento inferenziale (Cass. Sez. 5, Sentenza n.
1324 del 18/01/2022; Sez. 5, Sentenza n. 14950 del 08/06/2018; Sez. 3, Sentenza n. 24456 del 21/11/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9439 del 21/04/2010; Sez. 1, Sentenza n. 2419 del 03/02/2006; Sez. 1, Sentenza n. 11269 del 15/06/2004; Sez. 2, Sentenza n. 866 del 26/01/2000; Sez. 2, Sentenza n. 5346 del 13/06/1997).
In ogni caso, lo Statuto rilevava quale atto gerarchico solo ai fini di stabilire i poteri del rappresentante dell’Ente ecclesiastico per gli atti che non avessero superato la somma fissata dalla Santa Sede, in ordine ai quali non era richiesta la licenza della Santa Sede medesima, mentre -nel caso di specie -i mandati e gli appalti, oggetto della declaratoria di inefficacia, superavano tale soglia e, dunque, avrebbero richiesto l’autorizzazione degli organi superiori secondo il codice di diritto canonico.
3. -Con il secondo motivo i ricorrenti principali contestano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione del canone 638, terzo comma, e del canone 1295 del codice di diritto canonico, dei regolamenti generali e dei regolamenti delle Province italiane della Congregazione della Passione di Gesù Cristo, per avere la Corte territoriale ritenuto che la natura di atti di straordinaria amministrazione, secondo il diritto canonico e le disposizioni statutarie dell’Ente, dei mandati e degli appalti fosse determinata dal notevole impegno economico e finanziario che essi avevano richiesto, idoneo, in quanto tale, a comportare un potenziale pregiudizio per il patrimonio dell’Ente, indipendentemente dall’esito che detti atti avessero effettivamente avuto, dovendo, invece, qualificarsi come atti di straordinaria amministrazione solo quelli che avessero implicato una modificazione del patrimonio e non già quelli limitati alla sfera
di disponibilità e regolamentazione delle sole rendite, ossia funzionali alla conservazione e al miglioramento dell’integrità del patrimonio.
Osservano gli istanti che solo la modifica o l’alterazione della consistenza del patrimonio su cui incidono (ad esempio attraverso donazione o vendita) avrebbe consentito la qualificazione degli atti come eccedenti l’ordinaria amministrazione, in quanto mirati a produrre un detrimento ( recte un pregiudizio patrimoniale), e non già gli atti che avessero implicato un mero notevole impegno economico-finanziario, ossia la mera incidenza sulla consistenza patrimoniale, come gli atti di specie, finalizzati all’esecuzione, mediante contributi pubblici, di lavori di ristrutturazione, recupero e valorizzazione di immobili appartenenti all’Ente religioso, i quali, lungi dal diminuire, avrebbero accresciuto il patrimonio di quest’ultimo.
3.1. -Il motivo è infondato.
Si rileva, anzitutto, che il canone 638, § 3, del codice di diritto canonico stabilisce: ‘Per la validità dell’alienazione, e di qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento, si richiede la licenza scritta rilasciata dal Superiore competente con il consenso del suo consiglio. Se però si tratta di negozio che supera la somma fissata dalla Santa Sede per le singole regioni, come pure di donazioni votive fatte alla Chiesa, o di cose preziose per valore artistico o storico, si richiede inoltre la licenza della Santa Sede stessa’.
Il canone 1295 dispone poi che ‘I requisiti a norma dei canoni 1291-1294, ai quali devono conformarsi anche gli statuti delle persone giuridiche, devono essere osservati non soltanto per
l’alienazione, ma in qualunque altro negozio che intacchi il patrimonio della persona giuridica peggiorandone la condizione’.
Le norme impongono, quindi, il ‘controllo canonico’ nel caso di atti di straordinaria amministrazione, che sono appunto quelli idonei a mettere a rischio l’integrità del patrimonio, ossia non solo gli atti dispositivi del patrimonio, ma anche qualunque negozio che intacchi o possa determinare detrimento alla situazione patrimoniale della persona giuridica, peggiorandone la condizione.
Tanto esposto, gli enti ecclesiastici godono di autonomia statutaria, la quale è conseguenza delle garanzie costituzionalmente riconosciute all’ordinamento confessionale e, pertanto, la violazione delle regole canoniche sulla corretta formazione e manifestazione della volontà dell’ente acquista rilievo anche per l’ordinamento statale ed è suscettibile di rendere invalidi i negozi di diritto privato dall’ente stesso stipulati. In particolare, per la validità delle alienazioni e degli atti degli enti ecclesiastici, dai quali la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento, il canone 1292 del codex juris canonici distingue a seconda del valore dei beni: se esso è posto tra la somma minima e quella massima, da stabilirsi dalla Conferenza Episcopale, l’autorità competente per alienare i beni della diocesi è il Vescovo, che ha anche bisogno del consenso del consiglio per gli affari economici e del collegio dei consultori, nonché degli interessati; ove, invece, il valore del bene ecceda la somma stabilita (o si tratti di ex-voto donati alla Chiesa o di oggetti preziosi di valore artistico o storico), per la valida alienazione si richiede la licenza della Santa Sede; infine, se il
valore è inferiore alla soglia minima, il Vescovo diocesano è legittimato, senza necessità di consenso degli organismi suddetti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8144 del 23/05/2012).
Delineato il quadro normativo di settore, in applicazione del canone 1281 del codice di diritto canonico e dell’art. 18 della legge n. 222/1985 (relativo all’opponibilità ai terzi delle limitazioni dei poteri di rappresentanza risultanti dal codice di diritto canonico), gli amministratori di beni ecclesiastici, in mancanza del permesso scritto del superiore competente, non possono validamente compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, impegnando l’ente con riguardo a negozi idonei a procurare allo stesso un detrimento patrimoniale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2117 del 05/02/2015; così anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15026 del 31/05/2019; sulla rilevanza di tali limitazioni nell’ordinamento italiano Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3643 del 07/11/1969).
Pertanto, l’attività negoziale dell’ente ecclesiastico, quando -come nel caso di specie -non abbia carattere traslativo di diritti dell’Ente, deve essere autorizzata dal Superiore se l’Ente possa subire un detrimento da intendersi ‘come un pregiudizio che ecceda la semplice insorgenza di un’obbligazione a carattere corrispettivo’.
E quindi ricadono nel novero degli atti di straordinaria amministrazione ( recte eccedenti l’ordinaria amministrazione) quelli i cui effetti incidono direttamente o indirettamente sul patrimonio, alterandone la consistenza (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1590 del 20/06/1966).
Nella fattispecie, dette direttrici -rilevanti per la qualificazione dei mandati e degli appalti emarginati come atti di
straordinaria amministrazione -sono state osservate, poiché si è dato atto del notevole impegno economico-finanziario che il loro compimento aveva richiesto, idoneo, in quanto tale, a comportare un potenziale pregiudizio per il patrimonio dell’Ente, indipendentemente dall’esito che gli stessi atti avessero effettivamente avuto, considerata la loro idoneità a determinare il citato pregiudizio.
Il che avrebbe richiesto l’autorizzazione al compimento dei richiamati atti da parte della Santa Sede, del Superiore generale o del Superiore provinciale.
4. -Con il terzo motivo i ricorrenti principali lamentano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte distrettuale mancato di accertare quali tra i numerosissimi atti posti in essere tra le parti, secondo un giudizio ex ante , avessero richiesto un notevole impegno economico-finanziario.
Deducono gli istanti che i contratti e le deleghe non afferenti alle attività di manutenzione, ristrutturazione, recupero e valorizzazione delle 13 case appartenenti alla Provincia religiosa, ove singolarmente considerati, sicuramente non avrebbero comportato tale notevole impegno e quindi non avrebbero implicato un potenziale pregiudizio al patrimonio dell’Ente.
4.1. -Il motivo è inammissibile.
Si tratta, infatti, di un’ipotesi di ‘doppia conforme ‘ ex art. 348ter , ultimo comma, c.p.c. vigente ratione temporis (norma ora ripresa dall’art. 360, quarto comma, c.p.c.), a fronte di un giudizio d’appello instaurato dopo l’11 settembre 2012.
E tanto appunto perché nei due gradi di merito le ‘questioni di fatto’ (sulla rilevante incidenza economico -finanziaria dei mandati e degli appalti conclusi) sono state decise in base alle ‘stesse ragioni’ e ripercorrendo il medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 7724 del 09/03/2022; Sez. 6-3, Ordinanza n. 2506 del 27/01/2022; Sez. 6-2, Ordinanza n. 33483 del 11/11/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 29222 del 12/11/2019; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014).
D’altronde, è onere del ricorrente indicare, allo scopo di escludere la declaratoria di inammissibilità, le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro eterogenee (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 5947 del 28/02/2023; Sez. 6-2, Ordinanza n. 8320 del 15/03/2022; Sez. L, Sentenza n. 20994 del 06/08/2019; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016), specificazione di cui, nel corpo dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, non vi è traccia.
5. -Con il quarto motivo i ricorrenti principali prospettano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, primo comma, e 1367 c.c., per avere la Corte del gravame reputato che l’attestato del 21 novembre 1997, attesa la sua genericità, fosse inidoneo a costituire l’autorizzazione richiesta dal diritto canonico e dalle disposizioni statutarie per il compimento degli atti contestati.
Adducono gli istanti che, in base al tenore letterale chiaro ed univoco di tale attestato, sarebbe stato rimesso al legale
rappresentante il compimento di tutti gli atti occorrenti per le operazioni di adeguamento, costruzione, potenziamento e restauro del patrimonio della Provincia di Maria SS. della Pietà, impegnando anche l’Ente nei confronti dello Stato italiano, sicché tale attestato avrebbe autorizzato il legale rappresentante a compiere tutto quanto occorrente per effettuare le operazioni sopra descritte, senza alcuna condizione, senza alcun limite all’azione del legale rappresentante e senza che fosse necessaria alcuna preventiva autorizzazione da parte degli organismi superiori.
Evidenziano altresì i ricorrenti principali che, qualora per il compimento di ognuna delle operazioni oggetto della richiesta formulata il 19 novembre 1997 il legale rappresentante avesse dovuto premunirsi di volta in volta dell’autorizzazione del Superiore provinciale o del Superiore generale o della Santa Sede, l’attestato sarebbe stato del tutto superfluo, privo di effetto e pertanto inutile.
5.1. -Il motivo è infondato.
Ora, la Corte di merito ha escluso che l’attestato in questione integrasse una puntuale autorizzazione a porre in essere atti che oltrepassassero i limiti e le modalità dell’amministrazione ordinaria di cui al canone 1281, proprio esaminando il tenore letterale dell’atto, che non recava alcun riferimento ad uno specifico negozio giuridico, ma soltanto la generica autorizzazione a compiere atti di conservazione del patrimonio.
Correttamente, pertanto, tale autorizzazione poteva intendersi riferita solo ai negozi rientranti nei limiti
dell’amministrazione ordinaria, con i caratteri innanzi delineati, ben diversi da quelli concretamente posti in essere dall’Ente, perché eccedenti gli importi indicati nello Statuto, come prontamente accertato.
Né l’atto avrebbe potuto essere interpretato diversamente alla luce del criterio della buona fede, atteso il rigido sistema di controlli canonici previsto dai canoni 1281, 1291 e 1291, volto ad evitare il compimento di atti idonei ad intaccare il patrimonio della persona giuridica, peggiorandone la condizione.
Quanto al criterio della condotta delle parti ed, in particolare, alla dedotta assenza di contestazioni da parte dei Superiori dopo la conclusione dei contratti oggetto del giudizio, occorre evidenziare che nell’interpretazione del contratto il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, mentre soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni strettamente interpretativi contemplati dall’art. 1362 all’art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall’art. 1366 all’art. 1371 c.c. (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 6444 del 11/03/2025; Sez. 1, Ordinanza n. 10967 del 26/04/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 33451 del 11/11/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 21576 del 22/08/2019).
Senonché, nel caso in esame, il tenore letterale delle espressioni adoperate rivelava di per sé con chiarezza l’intenzione dell’Autorità che aveva emanato l’atto, secondo quanto esposto dalla sentenza impugnata.
Peraltro, la violazione denunciata esige necessariamente la deduzione attraverso specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito
si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi, altrimenti, la ricostruzione del contenuto della volontà delle parti in una mera proposta di interpretazione alternativa rispetto all’interpretazione censurata, operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimità (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 353 del 08/01/2025; Sez. L, Ordinanza n. 18214 del 03/07/2024; Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021; Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017; Sez. 1, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Sez. 1, Sentenza n. 15471 del 22/06/2017; Sez. L, Sentenza n. 13067 del 17/06/2005; Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003).
6. -Con il quinto motivo i ricorrenti principali censurano, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 222/1985 e del principio dell’apparenza del diritto, riconducibile al più generale principio dell’affidamento incolpevole, per avere la Corte d’appello stimato che le limitazioni dei poteri di rappresentanza potessero essere conosciute dai convenuti mediante l’impiego dell’ordinaria diligenza, benché in nessuna norma dello Statuto dell’Ente religioso o dei regolamenti generali o dei regolamenti provinciali della Congregazione dei Passionisti e in nessun canone del codice di diritto canonico fosse specificato quali fossero i criteri per distinguere gli atti di ordinaria amministrazione dagli atti di straordinaria amministrazione.
Aggiungono gli istanti che, se anche i ricorrenti avessero consultato lo Statuto dell’Ente religioso, essi non avrebbero trovato alcunché che avrebbe potuto renderli sicuri sul fatto che il legale rappresentante avesse o meno il potere di porre in essere i negozi giuridici intercorsi tra le parti, con la conseguenza che i
limiti suddetti -che avrebbero richiesto per il loro superamento una specifica autorizzazione -non sarebbero stati opponibili ai terzi.
Tanto più che il terzo contraente avrebbe avuto soltanto la facoltà e non anche l’obbligo di controllare se colui il quale si fosse qualificato rappresentante fosse in realtà tale, sicché non sarebbe bastato un semplice comportamento omissivo del medesimo terzo per costituirlo in colpa nel caso di abuso della procura, occorrendo, per converso, ai fini dell’affermazione della sua carenza di diligenza, il concorso di altri elementi.
Per l’effetto, dal comportamento della Congregazione, improntato a colpevole negligenza, si sarebbe dovuto desumere che nella condotta dei finanziatori non era ravvisabile alcun profilo di colpa, ai fini dell’operatività del principio di apparenza del diritto, alla stregua della tollerata rappresentanza per quasi quattro anni.
6.1. -Il motivo è infondato.
Ed invero l’art. 18 della legge n. 222/1985, nel disporre che, ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche, tutela l’affidamento dei terzi, ma non attribuisce loro un potere d’ingerenza sulle relazioni inter -organiche dell’ordinamento canonico, idoneo a paralizzare l’azione dell’ente ecclesiastico (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 23593 del 17/10/2013).
Nel caso in esame, la Corte, dopo avere accertato che nello Statuto dell’Ente erano specificati, secondo la citata disposizione del codice di diritto canonico, i limiti oltre i quali gli atti dovevano essere autorizzati (pag. 24), ha richiamato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 222/1985 («Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi»), ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici, non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’assenza di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche.
Sicché dette limitazioni dei poteri di rappresentanza, ove previste dal codice di diritto canonico ovvero ove siano oggetto di pubblicazione, costituiscono materia di eccezione in senso stretto riservata all’Ente stipulante e sono opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di conoscenza o ignoranza di questi ultimi (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26826 del 14/11/2017).
In base a tale disposizione, dunque, ai fini della validità/efficacia degli atti degli enti ecclesiastici, con riguardo alle eventuali limitazioni dei poteri di rappresentanza e alla sussistenza dei necessari controlli canonici, non può ritenersi applicabile il principio dell’affidamento (o dell’apparenza), in base al quale l’ente oltre a dover eccepire l’invalidità/inefficacia dell’atto avrebbe dovuto dimostrare sia la sussistenza delle limitazioni al potere di rappresentanza o l’assenza dei controlli
canonici necessari, sia la conoscenza del vizio da parte dell’altro contraente.
Un regime del genere, secondo diverse gradazioni, è in effetti previsto per l’attività negoziale di altri enti di diritto privato (ad esempio, come evidenziato dalla Procura generale, per gli atti delle società di capitali, gli artt. 2384 e 2475bis c.c. prevedono che le limitazioni ai poteri degli amministratori, che hanno la generale rappresentanza della società, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società; ovvero, in termini meno rigorosi, per gli atti delle associazioni e delle fondazioni, l’art. 19 c.c. dispone che le suddette limitazioni, se non pubblicate, non possono essere opposte ai terzi, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza).
Per converso, in forza del citato art. 18 della legge n. 222/1985, le limitazioni ai poteri di rappresentanza degli enti ecclesiastici e l’assenza dei controlli, laddove siano previsti dal codice di diritto canonico ovvero siano stati oggetto di pubblicazione, sono comunque opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di conoscenza/ignoranza di questi ultimi (che è invece rilevante solo nel diverso caso di limitazioni non pubblicate o non previste dal codice di diritto canonico).
Ne discende che non ha alcun rilievo la ricostruzione dei comportamenti tolleranti dell’Ente, in quanto la limitazione dei poteri rappresentativi risultante dallo Statuto -in conformità al codice di diritto canonico -era opponibile ai terzi, a prescindere dallo stato subiettivo di conoscenza/ignoranza di tali terzi in
ordine a tale limitazione, alla colpevolezza o meno di tale ignoranza e al contegno assunto dall’Ente.
Né in questa sede può essere rivalutato l’apprezzamento in fatto relativo al contenuto dello Statuto dell’Ente, quanto alla prescrizione di tali limitazioni, in mancanza di alcuna contestazione circa la violazione dei canoni interpretativi prescritti dagli artt. 1362 e ss. c.c.
7. -Con il sesto motivo i ricorrenti principali si dolgono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1398, 1425 e 1442 c.c., per avere la Corte di secondo grado sostenuto che i negozi conclusi dal rappresentante dell’Ente ecclesiastico senza autorizzazione fossero inefficaci, anziché annullabili.
Rilevano gli istanti che la mancanza delle autorizzazioni occorrenti per l’esercizio dei poteri di rappresentanza degli amministratori avrebbe integrato un vizio riguardante la capacità dell’Ente di essere parte del negozio giuridico, sicché il vizio stesso avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di annullabilità, la quale avrebbe potuto essere fatta valere dall’Ente nel termine quinquennale di prescrizione previsto, decorrente dalla conclusione del contratto.
Si sarebbe, dunque, rinvenuta una situazione di incapacità legale a contrarre dell’Ente ecclesiastico, privo di licentia , da intendersi come atto di controllo necessariamente preventivo o più precisamente come autorizzazione per poter esercitare un potere del quale si era comunque titolari.
7.1. -Il motivo è infondato.
Premesso che la doglianza si palesa inammissibile laddove prospetta la ratifica dei negozi inefficaci, perché conclusi dal falsus
procurator , in quanto si tratta di questione nuova, non affrontata dalla sentenza censurata, la violazione dell’art. 1425 c.c. che prevede l’annullabilità del negozio se una delle parti era legalmente incapace di contrattare -non è stata, nella specie, integrata.
Nel caso concreto non è in discussione che il soggetto che ha concluso i contratti fosse capace di agire ed avesse la qualifica di legale rappresentante dell’Ente, ma soltanto che fossero necessarie le autorizzazioni prescritte dal diritto canonico al fine di attivare un potere preesistente, rimuovendo l’ostacolo al suo esercizio ed integrando la legittimazione del soggetto al fine di consentirgli di esercitare i poteri dispositivi concernenti determinati rapporti giuridici.
Sono le stesse norme dedicate al tema a fare riferimento alla categoria dell’invalidità e inefficacia: l’art. 18 della legge n. 222/1985 prevede che, appunto ‘ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici’ posti in essere da enti ecclesiastici, non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche.
Evidentemente si intende evocare la categoria dell’inefficacia in senso lato, quale dato consequenziale della nullità del negozio (nullità espressamente invocata dall’Ente ecclesiastico). Il contratto nullo non produce effetti per una carenza intrinseca alla fattispecie negoziale come prevista dalla legge: quod nullum est nullum effectum producit . Si rientra, pertanto, nel concetto di inefficacia in senso lato, quale inidoneità
ab origine dell’atto a produrre gli effetti giuridici suoi propri, ossia la modificazione di una realtà giuridica, discendendo essa da anomalie strutturali del contratto (nel caso di specie, per il difetto delle relative autorizzazioni necessarie).
Non si tratta, dunque, di inefficacia in senso stretto o tecnico, che non deriva dall’invalidità del contratto, anzi presuppone la sua validità, bensì da profili attinenti al modo di essere del rapporto, ossia da fatti estrinseci che possono essere contestuali (presupposti di efficacia) o successivi alla formazione dell’atto: l’atto non è considerato idoneo sul piano dinamico, ovvero funzionale, a dare piena attuazione all’assetto di interessi previsto dall’autoregolamento (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8164 del 22/03/2023).
Ora, è invalida (e dunque inefficace) la scrittura privata sottoscritta dal parroco, senza la preventiva autorizzazione scritta dell’ordinario, ai sensi del canone 1218 del codice di diritto canonico, se la stessa oltrepassa i limiti dell’ordinaria amministrazione. Conseguentemente tale invalidità è opponibile ai terzi che avrebbero dovuto conoscere le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici risultanti dagli atti di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2117 del 05/02/2015).
8. -Con il settimo e l’ottavo motivo i ricorrenti principali assumono, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione del canone 1281, terzo comma, del codice di diritto canonico e dell’art. 167, secondo comma, c.p.c., per avere la Corte di seconde cure ritenuto che l’istanza in base alla quale si chiedeva che l’Ente rispondesse degli atti
nella misura in cui ne avesse tratto beneficio -implicasse un’inammissibile domanda di arricchimento senza causa, in quanto proposta tardivamente, mentre, in realtà, si sarebbe trattato soltanto di un ulteriore tema di indagine atto a giustificare l’esame di una situazione di arricchimento senza causa.
E comunque la modifica della domanda sarebbe stata consentita, in ragione della sua connessione con la vicenda sostanziale dedotta in giudizio ai fini di non compromettere le potenzialità difensive della controparte o di non allungare i tempi processuali, sicché sarebbe stato possibile proporre la domanda di arricchimento ingiustificato nel corso del giudizio, in quanto essa non avrebbe implicato alcun mutamento della medesima vicenda contrattuale.
8.1. -I motivi sono infondati.
Non è contestato che la domanda, qualificabile in termini di arricchimento senza causa, sia stata formulata dai convenuti nella comparsa di costituzione, depositata oltre i termini di legge.
Per l’effetto, dal combinato disposto degli artt. 166 e 167 c.p.c. (secondo il rito vigente ratione temporis ) si evince che il convenuto, a pena di decadenza, rilevabile d’ufficio dal giudice (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17121 del 13/08/2020; Sez. 1, Sentenza n. 24040 del 26/09/2019), deve proporre la domanda riconvenzionale nella comparsa di costituzione, costituendosi almeno 20 giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nell’atto di citazione.
Ne consegue che i convenuti erano irrimediabilmente decaduti dalla proposizione della domanda riconvenzionale (con cui intendevano ottenere il riconoscimento di un indennizzo per le
opere svolte di cui l’Ente ecclesiastico aveva beneficiato, nonostante l’inefficacia dei sottesi mandati e appalti), appunto perché proposta tardivamente.
9. -Passando all’esame del ricorso incidentale, il primo motivo di tale ricorso investe, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1705 c.c., anche in relazione agli artt. 2033, 1710 e 1713 c.c., per avere la Corte territoriale limitato la condanna alla restituzione al solo importo degli assegni di cui COGNOME NOME risultava beneficiario diretto, benché la ripetizione dell’indebito per difetto originario della causa solvendi fosse stata chiesta in ordine a tutte le somme versate.
Espone il ricorrente incidentale che l’obbligazione restitutoria avrebbe avuto riguardo alle prestazioni indebite, con l’effetto che, all’esito dell’applicazione dei principi sul rapporto di mandato, il mandatario sarebbe stato tenuto a restituire non solo le somme direttamente incassate, ma anche quelle utilizzate per finalità direttamente o indirettamente proprie o mal gestite, in conseguenza della dichiarazione di nullità dei mandati.
9.1. -Il motivo è infondato.
In merito la sentenza impugnata ha sostenuto che la legittimazione a domandare la restituzione di un indebito pagamento eseguito dal mandatario in favore di terzi spettava al mandante (peraltro a fronte di un mandato dichiarato inefficace), sicché correttamente il Tribunale aveva ritenuto che fosse necessaria la proposizione di una specifica domanda, da parte dell’Ente, in ordine alla restituzione, nei confronti dei beneficiari, dei pagamenti da essi indebitamente ricevuti.
Dunque, le somme corrisposte dal mandatario ai terzi non potevano essere rivendicate dal mandante verso il mandatario.
Sicché all’inefficacia per carenza di autorizzazione dei mandati e degli appalti è seguita, sotto il profilo patrimoniale, la restituzione delle sole somme corrisposte in favore del mandatario, maggiorate degli interessi, in quanto il pagamento era rimasto privo di ogni giustificazione economico-sociale.
Sotto questo profilo, occorre ribadire che, nell’ipotesi in cui il gestore agisca in nome proprio, atteso che la gestione d’affari costituisce un’ipotesi particolare di mandato, legittimato attivamente a ripetere, nei confronti dell’ accipiens , il pagamento indebito eseguito dal gestore è anche il soggetto gerito, in base all’art. 1705 c.c., che consente al mandante, sostituendosi al mandatario, di esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22302 del 03/11/2016).
Ne deriva che correttamente la pronuncia impugnata ha affermato che l’Ente mandante avrebbe potuto sostituirsi al mandatario nel richiedere la ripetizione dai singoli beneficiari degli assegni versati ex art. 1705 c.c., mentre, in ordine a tali esborsi avvenuti in favore di terzi, la domanda proposta nei confronti del mandatario non avrebbe potuto essere accolta, in quanto unici legittimati passivi ai sensi dell’art. 2033 c.c. sarebbero stati i detti terzi beneficiari (cui gli assegni erano diretti).
I richiami agli artt. 1710 c.c., in tema di diligenza del mandatario, e 1713 c.c., che prescrive l’obbligo del rendiconto, sono inconferenti.
10. -Il secondo motivo del ricorso incidentale concerne, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 2735 e 2697 c.c., per avere la Corte distrettuale tenuto conto dei soli assegni considerati dal consulente tecnico d’ufficio e non già del complessivo numero di tali assegni, alla luce della sopravvenuta produzione di cui alla prima memoria integrativa del thema probandum , di cui lo stesso COGNOME NOME aveva dato atto nell’allegato rendiconto del maggio 2003, per un complessivo importo di vecchie lire 590.305.490, gran parte dei quali risultavano anche dal rendiconto del Blasioli del maggio 2016 per complessive vecchie lire 254.772.500.
Precisa l’istante che i predetti rendiconti avrebbero avuto valore di confessione stragiudiziale, di cui i giudici di merito non avrebbero tenuto conto.
10.1. -Il motivo è fondato nei termini che seguono.
Sul punto la sentenza impugnata ha specificato che il consulente tecnico d’ufficio aveva esaminato 805 assegni mentre solo nella comparsa conclusionale l’Ente aveva dato atto del rinvenimento di ulteriori 50 assegni compresi nei prospetti allegati dal COGNOME.
All’esito ne ha ricavato che, in ordine ai prospetti del COGNOME, si doveva considerare, come pure il Tribunale aveva rilevato, che i rendiconti resi (sebbene si riferissero a tali ulteriori assegni) erano diversi tra loro e quindi inattendibili, sicché non erano idonei a provare gli ulteriori crediti dell’Ente, né potevano essere considerati, sotto questo profilo, gli importi relativi agli assegni dei quali le copie non erano state prodotte, non potendo assumere valore probatorio, neppure sul piano presuntivo, gli
elementi di fatto dedotti dall’Ente per la dimostrazione della gestione o dell’incasso, da parte del COGNOME, degli assegni emessi a favore di terzi.
Tale conclusione non tiene conto della valenza giuridica del riconoscimento della ricezione e dell’incasso di detti assegni, come riportati in tali prospetti.
Sicché, a fronte del tenore dei richiamati prospetti (in cui il COGNOME riconosceva di avere ricevuto dall’Ente, nella qualità di mandatario, ulteriori assegni rispetto a quelli indicati dal consulente tecnico d’ufficio), sarebbe stato onere nel COGNOME dimostrare che la restituzione non era dovuta in ordine ad alcuni degli importi di cui agli assegni in essi citati.
Pertanto, una volta dimostrata l’esistenza del diritto alla ripetizione, alla stregua dell’inefficacia dei mandati, incombeva sul mandatario l’onere di provare i fatti inibitori del valore di riconoscimento della ricezione di quei titoli, riconoscimento che esonerava l’Ente dall’onere di dimostrare il versamento anche delle somme riportate in siffatti assegni (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 2810 del 05/02/2025).
Il fatto che le risultanze dei due prospetti fossero diverse non avrebbe potuto determinare l’inutilizzabilità dei riconoscimenti in essi operati, e ciò con riferimento all’ammessa percezione delle somme di cui a ciascuno degli assegni ivi indicati.
11. -Il terzo motivo del ricorso incidentale riguarda, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. per l’omessa pronuncia sull’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del primo motivo di gravame, in quanto
tardivamente spiegato, quanto alla conformità dello stralcio prodotto all’originale dello Statuto.
11.1. -Il motivo è assorbito, in quanto espressamente condizionato all’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.
12. -In definitiva, il ricorso principale deve essere respinto mentre il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere accolto, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo del ricorso incidentale va disatteso e il terzo motivo del ricorso incidentale è assorbito.
La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi agli enunciati principi di diritto e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte dei ricorrenti principali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
rigetta il ricorso principale, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il secondo motivo del ricorso incidentale, rigetta il primo motivo del ricorso incidentale e dichiara assorbito il rimanente motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla
Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda