Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17047 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17047 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 20709-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE AGRIGENTO, in persona del Commissario Straordinario pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 178/2021 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 18/03/2021 R.G.N. 670/2019;
Oggetto
Risarcimento pubblico impiego
R.G.N. 20709/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 20/05/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE:
1. con sentenza 18 marzo 2021 la Corte d’appello di Palermo, in riforma della sentenza del Tribunale di Agrigento totalmente reiettiva della domanda di NOME COGNOME condannava il Libero Consorzio Comunale di Agrigento (già Provincia regionale di Agrigento), contumace in appello, al risarcimento del danno da perdita di chances quantificandolo in misura pari all’80% della differenza tra il trattamento economico fondamentale percepito dalla COGNOME e quello in godimento al dipendente inquadrato nella categoria D2 dal 1 gennaio 2005 e in categoria D3 dal 1 gennaio 2006, differenza calcolata fino al 05/11/2013, oltre accessori;
la lavoratrice aveva partecipato nell’ottobre 2002 alla selezione per progressione verticale a n. 25 posti di funzionario amministrativo poi ampliata a n. 46 posti indetta dalla Provincia Regionale di Agrigento e si era collocata al 47° posto nella graduatoria approvata il 12 novembre 2004, e quindi in posizione non utile ai fini della progressione verticale, ma era in seguito risultata vittoriosa nel giudizio dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana (sentenza n. 1060 del 3/12/2007), sicché, in esecuzione di quel giudicato amministrativo, era stata approvata (con determina n. 4 dell’8/1/2008) la nuova graduatoria in cui la Sapio veniva collocata al 46° posto,
conseguendo così la progressione verticale anelata dal 1° gennaio 2008;
a questo punto la Sapio lamentava che, a causa dell’iniziale esclusione dall’elenco dei vincitori della procedura di progressione verticale, conclusasi nel 2004, e della illegittima immissione in categoria D solo dal gennaio 2008, non aveva avuto accesso a due p.e.o. medio tempo bandite fin dall’anno 2004 in occasione delle quali tutti i colleghi inquadrati in D fin dal 2004 avevano conseguito la posizione economica di D2 dal 1° gennaio 2005 e poi la D3 dal 1° gennaio 2006 (mentre la Sapio era stata inquadrata solo dal gennaio 2008 nella posizione D2 e non aveva mai conseguito la posizione D3);
la Corte d’appello riteneva che la domanda (qualificabile come di adempimento contrattuale) diretta ottenere il superiore inquadramento non fosse accoglibile proprio perché la lavoratrice (a differenza degli altri lavoratori risultati fin da subito – ossia dal 2004 – vincitori nella selezione per progressione verticale) non aveva prestato servizio nel livello economico inferiore della categoria di riferimento (D) negli anni che precedevano le due selezioni del 2005 e del 2006;
senonché, dall’inadempimento contrattuale imputabile al datore di lavoro, che aveva tardivamente immesso la lavoratrice in categoria D, poteva bensì discendere un danno da perdita di chance poiché la COGNOME era stata privata della
possibilità di partecipare alle più volte ricordate p.e.o. del 2005 del 2006;
in proposito, osservava che la RAGIONE_SOCIALE aveva sempre conseguito in passato la valutazione pari a 60/100, sufficiente ai fini dell’ammissione alle selezioni per p.e.o., e rilevava che tutti i lavoratori ammessi a queste ultime avevano conseguito ‘automaticamente’ una valutazione positiva e così l’ambita progressione economica;
le suddette allegazioni erano sufficienti a provare, in via presuntiva, non già il diritto all’inquadramento nel livello economico invocato, ma la circostanza che, ove la Sapio fosse stata rettamente inquadrata nella categoria D fin dal 2004 ed ammessa alla selezione p.e.o. del 2005 e poi a quella del 2006, avrebbe ‘con alto grado di probabilità’ conseguito il beneficio economico con le stesse tempistiche degli altri colleghi come lei vincitori di concorso;
la Corte territoriale quantificava il danno risarcibile per perdita di chance nella misura dell’80% della differenza tra il trattamento economico fondamentale percepito dall’appellante e quello di altro dipendente inquadrato in categoria D2 dal 1° gennaio 2005 e in categoria D3 dal 1° gennaio 2006;
per la cassazione della sentenza ricorre il Libero concorso comunale di Agrigento con sette motivi, assistiti da memoria, cui si oppone con controricorso NOME COGNOME
CONSIDERATO CHE:
il ricorso è articolato nei seguenti sette motivi:
v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 1218, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello ha qualificato l’asserito diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardato inquadramento della dipendente COGNOME NOME alla categoria D, e poi nelle categorie D2 e D3, come derivante da inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c.; la responsabilità della P.A. in questa fattispecie va ricondotta alla fattispecie della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c.;
v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 2946 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello, avendo classificato l’asserito diritto al risarcimento del danno di cui al primo motivo come inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., ha affermato che il relativo diritto era soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c.; invero, l’azione di responsabilità della P.A., avendo natura extracontrattuale, era soggetta a prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c.;
v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto che la dipendente avesse fornito prova del danno da perdita di chance; quest’ultima non aveva fornito in giudizio alcuna prova dell’asserito danno da perdita di chance , rimasto indimostrato nell’ an e nel quantum ;
v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui
la C orte palermitana non ha ritenuto che l’appello fosse nullo in quanto assolutamente indeterminato il petitum : l’appellante non ha esattamente determinato il quantum richiesto e, comunque, non ha indicato gli elementi per addivenire all’esorbitante cifra richiesta (€ 33.283,00 o € 50.000,00);
v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 e n. 4 c.p.c., nella parte in cui il giudice d ‘ appello ha condannato il Consorzio al risarcimento in favore dell’appellante, quantificato in misura pari all’80% della differenza tra il trattamento economico fondamentale percepito dall’appellante, da un lato, e, dall’altro, quello di un dipendente inqua drato in categoria D2 dal 1° gennaio 2005 e in categoria D3 dal 1° gennaio 2006, calcolata fino al 5.11.2013, oltre accessori : il dispositivo (a detta del Consorzio) era incerto, non avendo esattamente determinato il quantum da risarcire con conseguente nullità della sentenza;
violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1223 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello, nell’indicare (in maniera assolutamente indeterminata) il quantum da risarcire non ha tenuto conto dell’ aliunde perceptum nel periodo di ritardato inquadramento (posizione economica C4 dal 01/01/2005 e C5 dal 01/01/2006) e non ha tenuto conto della circostanza che il Consorzio ha riconosciuto alla dipendente non solo
l’inquadramento in categoria D ma anche la posizione economica D2 a decorrere dal 01/01/2008;
vii. v iolazione e/o falsa applicazione dell’art. 97 della Costituzione in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., nella parte in cui la corte distrettuale ha ritenuto che il Consorzio avesse violato il principio generale del buon andamento dalla P.A., mentr e s’era invece prontamente attivato, con determina n. 4 del 08/01/2008 di modifica della graduatoria, a dare semmai esecuzione alla sentenza del giudice amministrativo n. 1060 del 21/11/2007, avente effetti ex nunc: pertanto era erronea la sentenza impugnata laddove aveva accolto la relativa domanda di risarcimento del danno sull’assunto che vi fosse un comportamento dilatorio dell’amministrazione;
i primi due motivi sono infondati perché il danno da ritardato inquadramento della dipendente nella categoria D, e poi (per effetto delle p.e.o. medio tempore intervenute) nelle categorie D2 e D3, è da qualificarsi come danno da inadempimento contrattuale ex art. 1218 c.c., come cor rettamente ha fatto il giudice d’appello; segue pertanto la prescrizione decennale e non quinquennale come assume il ricorrente;
è stato, infatti, da tempo evidenziato che «qualora il datore di lavoro, per la copertura di posti di una determinata qualifica, abbia indetto un concorso interno, pubblicando, a tal fine, un bando contenente tutti gli elementi essenziali (numero dei posti disponibili, qualifica, modalità del concorso,
criteri di valutazione dei titoli), con la previsione del diritto del vincitore del concorso di ricoprire la posizione di lavoro disponibile e la data a decorrere dalla quale è destinata ad operare giuridicamente l’attribuzione della nuova posizione, è configurabile una offerta al pubblico, che impegna il datore di lavoro ad adempiere le obbligazioni assunte e consolida nel patrimonio dell’interessato l’acquisizione di una situazione giuridica soggettiva, vale a dire la modifica del precedente rapporto di lavoro, dalla quale il datore non può sciogliersi che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge» (Cass. 10459/2024; Cass. n. 14275/2014);
nella specie, l’erroneo compimento della procedura selettiva, come accertato dal giudice amministrativo con sentenza passata in cosa giudicata, ha realizzato l’inadempimento di uno specifico obbligo contrattuale , sicché il successivo adeguamento (l’8/1/2008) dell’amministrazione al dictum giudiziale, mediante revisione dell’originaria graduatoria della selezione per progressione verticale, non si è rivelato comportamento idoneo, per effetto dell’esclusione della Sapio dalle p.e.o. nel frattempo bandite, a elidere tutte le conseguenze direttamente ri collegabili all’illecito contrattuale, donde il giusto ristoro del danno da perdita di chance ai sensi dell’art. 1218 c.c. ( come giustamente qualificato dal giudice d’appello);
3. il terzo motivo è infondato;
esso poggia su un’erronea identificazione del danno da perdita di chance con il danno non patrimoniale ex art. 2059
c.c., mentre il danno da perdita di chance , qui liquidato dal giudice d’appello, è un danno-conseguenza di natura patrimoniale;
questa Corte ha da tempo evidenziato che la chance , intesa come concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, per cui se, da un lato, la perdita di chance configura un danno concreto ed attuale, dall’altro, però, detto danno non coincide con il risultato utile al quale si aspirava e va, quindi, commisurato alla probabilità di conseguire il bene al quale aspirava il danneggiato (cfr. Cass. n. 4400/2004 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);
ciò comporta che grava sul ricorrente l’onere di provare, anche mediante dati valorizzabili ai fini del ragionamento presuntivo, la probabilità di ottenere il risultato utile sperato (Cass. S.U. n. 21678/2013; v. negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 4014/2016; Cass. n. 11165/2018; Cass. n. 13483/2018 e Cass. n. 32234/2021);
solo qualora detto onere sia stato assolto il danno, che non coincide con le retribuzioni perse, va liquidato in via equitativa (cfr. Cass. n. 9392/2017; Cass. n. 24295/2016; Cass. n. 10030/2015; Cass. n. 18207/2014) ed a tal fine l’ammontare delle retribuzioni perse può costituire un parametro (Cass. n. 18207/2014 cit.), ma occorre comunque tener conto del grado di probabilità (Cass. nn. 4014/2016;
5119/2010; 14820/2007; 2167/1996) e della natura del danno da perdita di chance che «è un danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale» (Cass. n. 12112 del 2022; Cass. n. 2737/2015);
orbene, dai richiamati principi non si è discostata la Corte territoriale, la quale ha correttamente evidenziato che si ravvisavano indici presuntivi che lasciavano presumere, con alta probabilità, che la Sapio avrebbe conseguito il superiore inquadramento con le stesse cadenze temporali degli altri vincitori di concorso, con la conseguenza che quest’ultimo aveva dimostrato che, qualora le procedure selettive per la progressione verticale fossero state rispettate, consentendogli di partecipare alle p.e.o., ciò avrebbe determinato, quantomeno in termini di verosimiglianza, il raggiungimento anche degli avanzamenti economici in termini similari agli altri candidati usciti vittoriosi dalla prima selezione;
trattasi di valutazione della prova, insindacabile in sede di legittimità, che è stata condotta con prudente apprezzamento del giudice del merito, il quale ha opportunamente valorizzato il fatto che la Sapio aveva i requisiti di punteggio (60/100) per accedere alle p.e.o. e che tutti coloro che vi avevano partecipato avevano alfine conseguito il risultato utile;
4. il quarto motivo di ricorso, che denuncia l’error in procedendo nel quale la Corte distrettuale sarebbe incorsa, è formulato senza il rispetto degli oneri di specifica indicazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., perché non riporta, neppure in sintesi, il contenuto dell’appello;
il requisito imposto dal richiamato art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo , rispetto ai quali la Corte è giudice del «fatto processuale», perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di riportare nel ricorso, nelle parti essenziali, gli atti rilevanti, non essendo consentito il mero rinvio per relationem , perché la Corte di cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
il quinto motivo è inammissibile;
le doglianze appaiono nuove e, perciò, inammissibili, non essendo state le questioni (della proponibilità o meno di una domanda in quei contenuti e della sua indeterminatezza), specificamente trattate nella decisione impugnata, né avendo indicato parte ricorrente i tempi e i modi della loro tempestiva introduzione nel giudizio di primo grado e, quindi, della loro devoluzione al Giudice del gravame (cfr. Cass. n. 20694 del 2018; n. 8802 del 2024);
aggiungasi che la nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., è prospettabile solo quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto, circostanza che non emerge nel caso di specie, in cui si prospetta al più un profilo di genericità del dictum di condanna, per sua indeterminatezza, che si riverbererebbe, a valle, in termini di insuscettibilità di esecuzione forzata della sentenza;
ora, a parte il difetto di interesse del Consorzio a dolersi, non in sede di opposizione all’esecuzione ma in sede di legittimità, dell’indeterminatezza del dispositivo di condanna, è evidente che la verifica in ordine alla possibilità di determinare o meno esattamente il quantum debeatur con una mera operazione di calcolo aritmetico, secondo i criteri parametrici tratteggiati in sentenza, sarà devoluta all’esclusivo apprezzamento dello stesso giudice dell’esecuzione;
il sesto motivo è inammissibile sotto vari profili;
è utile rammentare al riguardo che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis ; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110);
nella specie, il motivo fa leva, per supportare l’affermazione di erroneità del dictum di condanna che non avrebbe tenuto conto dell’ aliunde perceptum , sulla circostanza che la Sapio avrebbe in concreto percepito gli incrementi economici C4 (dal 1/1/2005) e C5 (dal 1/1/2006), in tal guisa implicando una (diversa) ricostruzione di fatto rispetto a quella sottesa alla pronuncia impugnata;
quest’ultima, peraltro, non fa cenno a tale profilo, sicché il motivo è inammissibile anche per novità della relativa questione;
in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. 09/08/2018, n. 20694; Cass. 24/01/2019, n. 2038);
se è vero poi che il cosiddetto “aliunde perceptum” non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è, pertanto, rilevabile d’ufficio dal giudice, è vero anche che un tale rilievo d’ufficio presuppone pur sempre che le relative circostanze di fatto risultino ritualmente acquisite al processo (Cass., Sez. L, n. 26828 del 29/11/2013);
peraltro, sia detto per incidens , non si comprende come tali rilievi del Consorzio potrebbero incidere sul quantum debeatur, visto che il criterio di computo indicato in sentenza è pari al differenziale tra il trattamento in godimento della Sapio, inclusivo di eventuali incrementi percepiti, e quello vantato (e riconosciuto in sentenza);
7. il settimo motivo è parimenti da rigettare;
la pronta esecuzione del giudicato amministrativo non elide l’inadempimento contrattuale – che il giudicato, appunto definitivamente acclara -, né le conseguenze pregiudizievoli dell’inadempimento medesimo che comportano il ristoro del danno da perdita di chance , quest’ultimo da intendersi come perdita di occasioni favorevoli di conseguire il vantaggio connesso all’incremento patrimoniale legato alla progressione economica orizzontale cui la Sapio non ha potuto accedere per fatto e colpa dell’amministrazion e;
in conclusione, il ricorso va rigettato, con addebito di spese di legittimità alla parte soccombente.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in €. 5.000,00 per compensi professionali ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio della Corte