Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2632 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2632 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/02/2025
Oggetto
Responsabilità civile della p.a. ─ Danni da mancato convenzionamento
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13074/2021 R.G. proposto da COGNOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL;
-ricorrente –
contro
Assessorato alla salute della Regione Siciliana e Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento;
-intimati – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo, n. 256/2021, depositata in data 24 febbraio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Palermo, dichiarata la nullità della sentenza di primo grado, ha accolto provvedendo nel meritola domanda risarcitoria proposta da NOME COGNOME inizialmente proposta nei confronti della Usl n. 7 di Sciacca per il danno subito a causa del mancato convenzionamento esterno nella branca di odontoiatria e protesi dentaria presso il Comune di Menfi e, per l’effetto, ha condannato l’Assessorato alla Salute ─ subentrato alla Gestione Liquidatoria della ex USL n. 7 di Sciacca (ed evocato nel giudizio di appello in esecuzione di ordinanza di integrazione del contraddittorio) ─ a pagargli la somma equitativamente liquidata di € 130.000,00, oltre interessi legali dalla decisione al saldo ed oltre spese di entrambi i gradi di giudizio.
Ha infatti riconosciuto che il comportamento colposo della ex Usl, consistito nell’aver reso un parere dapprima illegittimo e successivamente erroneo e nell’averne tardivamente disposto la rettifica, aveva leso l’alta probabilità del Loperfido di ottenere l’autorizzazione preventiva per il convenzionamento nella branca medica richiesta presso il Comune di Menfi.
Ha tuttavia qualificato la domanda in termini di ristoro del pregiudizio da perdita di chance , rilevando che il danno dedotto ed effettivamente subito non era il mancato conseguimento di un risultato probabile, ma la perdita della possibilità di conseguirlo; ha pertanto commisurato il risarcimento in una percentuale ridotta della perdita dei possibili ulteriori ricavi che il RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto trarre dall’attività professionale di odontoiatra in convenzione per il periodo dal 5 febbraio 1987 ( data in cui l’autorizzazione avrebbe potuto essergli presumibilmente rilasciata) al 29 febbraio 1992 (essendo emerso che dal 1° marzo 1992 egli aveva trasformato la sua attività ospedaliera da tempo parziale a tempo pieno, con conseguente incompatibilità con l’attività in convenzione), considerando un orario di
lavoro alquanto contenuto in ragione dell’ulteriore attività che il medesimo svolgeva in INDIRIZZO e come medico ospedaliero.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi.
Nessuno dei due intimati, Assessorato alla salute della Regione Siciliana e Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento, svolge difese in questa sede.
La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ..
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia « errore di fatto; difetto di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ.; omesso esame della c.t.u. quale fatto decisivo e discusso; omesso esame di risultanze istruttorie aventi carattere decisivo ai fini della decisione; violazione e/o falsa applicazi one dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ. ».
Lamenta che la Corte d’appello abbi a liquidato il danno nell’importo di € 130.000,00, peraltro relativamente al periodo che va dal 5/2/1987 al 29/2/1992, senza spiegare le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni del c.t.u. ─ che lo aveva quantificato in € 1.064.842,00 (comprensivo di interessi e rivalutazione) con decorrenza dal 24/5/1985, ossia dalla data della domanda di convenzionamento per la branca di odontoiatria del Comune di Menfi, al 15/11/2011 ─ con ciò anche fornendo una motivazione al di sotto del minimo costituzionale.
Rileva in particolare che la Corte territoriale per il periodo successivo al 29/2/1992 parla di incompatibilità dell’attività ospedaliera a tempo pieno con l’attività in convenzione sebbene la c.t.u. contabile ed i documenti presenti in atti dimostrino l’esatto
contrario ovvero che il danno per mancato convenzionamento sussiste anche relativamente a tale periodo.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. in combinato disposto con gli artt. 99, 112, 113, 114, 115 e 116 c.p.c. », per avere la Corte d’appello liquidato il danno in via equitativa sebbene questo fosse certo anche nel suo ammontare, alla luce della c.t.u. che lo aveva determinato con precisione.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. (là dove ha positivizzato il c.d. principio di non contestazione) per avere la Corte d’appello ome sso di considerare che l’Assessorato alla salute della Regione Siciliana , benché ritualmente citato in giudizio, non si era costituito e, quindi, non aveva contestato il danno, né dal punto di vista dell’ an , né da quello del quantum .
Il primo motivo è inammissibile con riferimento ad entrambe le indicate prospettive censorie: vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; error in procedendo per motivazione mancante o apparente.
4.1. Cominciando da detto secondo profilo di doglianza, va rammentato che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, « la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione » (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).
Nel caso di specie non è ravvisabile alcuna delle gravi anomalie argomentative individuate in detto arresto; piuttosto, è la censura a porsi chiaramente al di fuori del paradigma tracciato dalle Sezioni Unite nella misura in cui pretende di ricavare un siffatto radicale vizio della sentenza da elementi estranei alla motivazione stessa (sostanzialmente mirandosi, inammissibilmente, ad una rilettura del materiale istruttorio e segnatamente ad una diversa piena valorizzazione della relazione di c.t.u.).
Devesi invero ribadire che, intanto un vizio di motivazione omessa o apparente è configurabile, in quanto, per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione.
Non può invece un siffatto vizio predicarsi quando, a fronte di una motivazione in sé perfettamente comprensibile, se ne intenda diversamente evidenziare un mero disallineamento dalle acquisizioni processuali (di tipo quantitativo o logico: vale a dire l’i nsufficienza o contraddittorietà della motivazione).
In questo secondo caso, infatti, il sindacato che si richiede alla Cassazione non riguarda la verifica della motivazione in sé, quale fatto processuale considerato nella sua valenza estrinseca di espressione
linguistica (significante) diretta a veicolare un contenuto (significato) e frutto dell’adempimento del dovere di motivare (sindacato certamente consentito alla Corte di cassazione quale giudice anche della legittimità dello svolgimento del processo: cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077), ma investe proprio il suo contenuto (che si presuppone, dunque, ben compreso) in relazione alla correttezza o adeguatezza della ricognizione della quaestio facti .
Una motivazione in ipotesi erronea sotto tale profilo non esclude, infatti, che il dovere di motivare sia stato adempiuto, ma rende semmai sindacabile il risultato di quell’adempimento nei ristretti limiti in cui un sindacato sulla correttezza della motivazione è consentito, ossia, secondo la vigente disciplina processuale, per il diverso vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.), salva l’ipotesi dell’errore revocatorio.
4.2. La censura di omesso esame è altresì inammissibile, sotto più profili.
4.2.1. Anzitutto per l’inosservanza dell’onere di specifica indicazione dei documenti richiamati (dai quali avrebbe dovuto desumersi che il danno reclamato sussiste anche per il periodo successivo al 29 febbraio 1992), in palese violazione degli oneri imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ..
Anche la relazione di c.t.u. viene a più riprese richiamata quale supporto fondamentale se non unico delle svolte censure, ma di essa non si riporta il contenuto, quanto meno per ampia ed esaustiva sintesi, né se ne indica la localizzazione nel fascicolo di causa.
4.2.2. In secondo luogo, per la natura prettamente meritale delle critiche svolte che non ne consente la riconduzione nell’evocato paradigma censorio.
Il vizio, invero, non è dedotto nei termini in cui la giurisprudenza di questa Corte lo dice deducibile (Cass. Sez. U. nn. 8053-8054 del 2014,
cit.): quale « omesso esame », cioè, di un « fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) ».
Giova al riguardo ribadire che alla nozione di « fatto storico » (principale o secondario), non può essere ricondotta la consulenza tecnica d’ufficio in sé e per sé considerata.
Come questa Corte ha avuto modo più volte di precisare, infatti, il « fatto storico » di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del « fatto processuale », il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. (v. ex multis Cass. n. 18328 del 2019; n. 7024 del 2020; n. 12387 del 2020; n. 19370 del 2021; n. 4564 del 2022).
Può semmai rilevare ai detti fini il « fatto storico » come sopra inteso, che sia acquisito per il tramite della consulenza, specie quando questa è disposta quale strumento di accertamento di fatti non altrimenti acclarabili se non con il ricorso a determinate cognizioni specialistiche (cd. c.t.u. percipiente), e non già di valutazione di fatti già acclarati (cd. c.t.u. deducente).
Nella specie la consulenza viene evocata dal ricorrente quale fonte, disattesa, della stima del danno. Ma la stima del danno da parte del consulente non è un «fatto storico»: essa è una mera valutazione, dalla quale il giudice, quale peritus peritorum può discostarsi ove offra -come nella specie- adeguata motivazione del diverso convincimento.
È, pertanto, evidente che, avendo il giudice d’appello motivato specificamente le ragioni per le quali ha ritenuto di pervenire ad una valutazione diversa da quella proposta dal c.t.u. e non avendo il
ricorrente evidenziato quale « fatto storico », decisivo, egli abbia omesso di esaminare, la doglianza si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non dedotta in modo coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ..
4.2.3. In terzo luogo, la censura è inammissibile perché non si confronta con il passaggio motivazionale di rilievo centrale rappresentato dalla accolta qualificazione della domanda in termini di risarcimento del danno da perdita di chance : rilievo che di per sé vale a giustificare la ritenuta necessità di una parametrazione del danno, secondo criteri equitativi, diversa da quella proposta dal consulente, mirata a considerare il danno da perdita effettiva del reddito derivante dalla svolgimento dell’attività di odontoiatra convenzionato e non quello da perdita della mera chance di acquisire la relativa autorizzazione.
Per la stessa ragione deve dirsi inammissibile il secondo motivo.
È chiara ed esplicita l’affermazione, in sentenza (v. motivazione, pag. 9), secondo cui la domanda proposta dal Loperfido (e per come proposta) andava qualificata come domanda risarcitoria da perdita di chance e, segnatamente, di chance patrimoniale, modellata sulla figura, di derivazione amministrativistica, dell’ interesse pretensivo , la quale postula la preesistenza di un quid (nella specie la presentazione di domanda di convenzionamento e l’affermato possesso dei relativi requisiti) su cui viene ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante (l’erronea valutazione e il tardivo rimedio) impedendone la possibile evoluzione migliorativa.
Sul piano funzionale per la chance patrimoniale (a differenza di quella non patrimoniale: v. Cass. 09/03/2018, n. 5641; 11/11/2019, nn. 28993) è possibile il riferimento a valori oggettivi, e tuttavia nemmeno questi possono essere assunti quale effettiva misura del danno, in essa dovendo inevitabilmente essere apprezzata anche
l’ insuperabile incertezza che connota la chance quale mera possibilità del conseguimento dell’auspicato miglioramento, apprezzamento che non potrà che essere operato secondo criteri equitativi e tradursi in una percentuale direttamente proporzionata alla stimata probabilità di successo (es. il 10% del valore dell’appalto per la perdita della chance di aggiudicazione).
Nella specie, la Corte d’appello si muove correttamente entro tale schema logico valutativo e dà anche adeguata motivazione della stima equitativa operata, là dove evidenzia (pag. 9, terzo capoverso) che la stima del danno proposta dal Loperfido, in termini pienamente corrispondenti agli onorari che avrebbe potuto percepire dalla data di presunta attivazione della convenzione, « trascura … la natura discrezionale dell’autorizzazione preventiva che l’Assessorato era chiamato a concedere, che presupponeva non solo la scopertura del posto, ma anche altri elementi, come, ad esempio, l’assenza di eventuali situazioni di incompatibilità e una valutazione tecnica sanitaria (cfr. autorizzazione rilasciata al dott. COGNOME prodotta dal COGNOME, nella quale si dà atto di aver ‘visto’ la relazione tecnica sanitaria dell’Ispettore Sanitario Coordinatore del Gruppo di lavoro competente e di aver ‘sentito’ il parere del Comi tato Consultivo Regionale per l’accertamento delle incompatibilità del professionista responsabile della struttura’) ».
Il motivo in esame ignora totalmente tale parte della motivazione, che nemmeno evoca, e pertanto non si fa carico di essa.
Si tratta, dunque, di motivo inidoneo a svolgere la funzione di critica propria di un motivo di impugnazione.
Devesi al riguardo richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale, il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è
erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un « non motivo », è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
6. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
Per espressa indicazione normativa (art. 115, primo comma, cod. proc. civ.: « Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita ») il principio di non contestazione opera solo quando il difetto di contestazione sia riferibile alle parti avversarie regolarmente costituite in giudizio.
Il principio è dunque infondatamente evocato dal ricorrente con riferimento all’Assessorato alla salute della Regione Siciliana che egli stesso evidenzia essere rimasto contumace.
Può peraltro soggiungersi, ad abundantiam , che l’onere di
contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto quando i fatti controversi siano noti alla parte, con la conseguenza che spetta a chi denunci la violazione del principio di non contestazione allegare che la controparte era a conoscenza della circostanza assunta come controversa, non essendo altrimenti configurabile a carico della predetta un onere di contestazione sulla questione (Cass. n. 4681 del 15/02/2023, Rv. 666808; v. anche Cass. n. 87 del 04/01/2019, Rv. 652044).
La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., non fa altro che riprodurre il contenuto del ricorso (salvo in ultimo rimarcare che anche in questa sede le controparti non si sono costituite) e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi.
Il ricorso deve dunque essere rigettato.
Non avendo gli intimati svolto difese nel presente giudizio, non v’è luogo a provvedere sulle spese.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza