Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 3418 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 3418 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 10/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25317/2019 R.G. proposto da :
COMUNE DI COGNOME , elettivamente domiciliato in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in Roma INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 252/2019 depositata il 18.1.2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6.2.2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione dell’11.6.2007 la RAGIONE_SOCIALE (di seguito, semplicemente RAGIONE_SOCIALE) ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Reggio Emilia il Comune di Scandiano, chiedendo dichiararsi la risoluzione per grave inadempimento del contratto di appalto pubblico con lo stesso stipulato, relativo alle opere di recupero e trasformazione di capannoni adibiti a deposito militare in sala polivalente e centro giovani, lamentando la fornitura di un progetto esecutivo gravemente carente, incompleto ed erroneo; COGNOME ha chiesto altresì la condanna del Comune al pagamento dei corrispettivo dei lavori contabilizzati e delle riserve iscritte, oltre interessi e risarcimento del danno.
Il Comune di Scandiano si è costituito in giudizio, contestando le pretese di RAGIONE_SOCIALE e assumendo che il contratto era stato risolto unilateralmente ben due anni prima, con la delibera del Comune n.71 del 10.3.2005 ex art.119 d.p.r. 554/1999; in via riconvenzionale subordinata, il Comune ha chiesto dichiararsi la risoluzione del contratto per grave inadempimento dell’appaltatrice per gravi ritardi e plurime mancanze ed irregolarità.
Nelle more del giudizio, istruito con consulenza tecnica d’ufficio (c.t.u.), il Comune ha provveduto a pagare all’imp resa appaltatrice la somma di € 146.870,36, i.v.a. compresa, per lavori eseguiti, detratta la penale contrattuale applicata.
Con sentenza del 2.5.2014 il Tribunale ha accertato la legittimità della risoluzione irrogata dal Comune ex art.119 del d.p.r. 554/1999 e ha condannato il Comune al pagamento del residuo importo di € 67.019,17, oltre i.v.a. per residuo corrispettivo, escluse le penali chieste dal Comune e le riserve chieste da RAGIONE_SOCIALE, compensando tra le parti le spese di lite.
Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello in via INDIRIZZO IGECO e in via incidentale il Comune.
La Corte di appello di Bologna con sentenza del 18.1.2019 ha parzialmente accolto il gravame principale di IGECO, per l’effetto riconoscendo a RAGIONE_SOCIALE la maggior somma di € 88.468,23, senza i.v.a. per lavori eseguiti, e la somma di € 35.929,45, oltre i.v.a., per riserve, oltre interessi; ha rigettato l’appello incidentale; ha compensato integralmente le spese del doppio grado, ripartendo tra le parti l’onere della c.t.u.
La Corte di appello ha ribadito la rilevanza della dichiarazione resa dal legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE ai sensi dell’art. 71 , commi 2 e 3, del d.p.r. 554/1999, con l’effetto preclusivo della proposizione di eccezioni basate su carenze progettuali e documentali; ha confermato la violazione da parte di RAGIONE_SOCIALE della clausola n.29 del contratto di appalto, che limitava al 30% la possibilità di ricorso al subappalto; la penale contrattuale però non doveva essere assoggettata ad i.v.a.; meritava infine accoglimento la domanda di IGECO relativa alle riserve che non necessitavano di ulteriore approvazione.
Avverso la predetta sentenza, non notificata, con atto notificato il 18.7.2019 ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Scandiano, svolgendo due motivi.
Con atto notificato il 20.9.2019 ha proposto controricorso IGECO, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via preliminare la parte controricorrente ha eccepito l’inammissibilità e nullità del ricorso avversario per violazione degli art.75, comma 3, 82 e 83 c.p.c.
COGNOME rileva a tal proposito che la procura è stata conferita al difensore del Comune dal Sindaco NOME COGNOME in data 17.7.2019 mentre la delibera autorizzatoria della Giunta Comunale risulta emanata il 18.7.2019 e quindi successivamente.
L’eccezione di nullità della procura, che si basa sul fatto che la delibera autorizzativa è intervenuta il giorno successivo il rilascio della procura da parte del sindaco è infondata in considerazione della valenza di ratifica della delibera di Giunta.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di legittimazione processuale, ove lo statuto comunale preveda l’autorizzazione della giunta per l’esperimento di azioni civili da parte del Comune, ente rappresentato dal sindaco, la presenza di tale autorizzazione costituisce condizione di efficacia, e non di validità, della costituzione in giudizio; ne consegue che detto atto può intervenire, ed essere prodotto, anche nel corso del processo, fino a quando la sua mancanza non sia stata oggetto di un accertamento passato in giudicato (Sez. 1 , n. 24817 del 18.08.2023; cfr anche Sez. 1, n. 18571 del 21.09.2015; Sez. 1, n. 14459 del 25.06.2014; Sez. 5, n. 17584 del 20.11.2003;Sez. U, n. 12868 del 16.6.2005).
Nella fattispecie l’autorizzazione e la ratifica è avvenuta ancor prima della costituzione del rapporto processuale di legittimità.
Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art.360, comma 1, n.5 e n.3, cod.proc.civ., il ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, nonché violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art.21, comma 3, d.p.r. 145/2000.
6.1 . Diversamente da quanto affermato dalla Corte di appello -osserva il ricorrente il Comune con l’atto di appello aveva censurato la statuizione del Tribunale in punto mancata applicazione delle penali di cui agli artt.8 e 9 del contratto, proprio con riferimento all’art.21, comma 3, del d.p.r. 145/2000, che ne
consente l’applicazione anche in caso di risoluzione anticipata del contratto.
6.2. Il Tribunale ha ritenuto illegittima la pretesa del Comune al pagamento della penale di cui all’art.8 del contratto di appalto perché essa si riferiva all’ipotesi di consegna in ritardo dell’opera ultimata, così presupponendo che essa fosse portata a compimento, sicché tale disposizione era inconferente in un caso, come quello in esame, di risoluzione anticipata del contratto.
Nell’esaminare il motivo di appello incidentale del Comune di Scandiano, la Corte bolognese ha affermato (pag.10, capoverso) che il principio enunciato dal Tribunale non era stato specificamente censurato e comunque era riferibile anche all’ipotesi regolata dall’art.9 del contratto (in tema di sospensioni illegittime dei lavori), pur sempre risolventesi in un ritardo, fattispecie anch’essa incompatibile con l’ipotesi di risoluzione.
6.3. Il Comune contesta di non aver censurato l’affermazione del Tribunale.
Anche lasciando in disparte la considerazione che il ricorrente affida la propria critica a un mezzo del tutto incongruo, poiché prospetta un vizio motivazionale di omesso esame di fatto storico decisivo del tutto insussistente per lamentare una errata valutazione circa la specificità di un motivo di appello, il motivo non coglie nel segno.
Il motivo di appello (trascritto dal ricorrente) non aveva affatto censurato il principio enunciato dal giudice di primo grado circa l’inapplicabilità della penale in caso di risoluzione prima della conclusione dei lavori, e si era limitato ad affermare che la penale va applicata anche in caso di inadempimento ed in particolare di illegittima sospensione dei lavori.
6.4. In secondo luogo, il Comune non confuta la seconda ragione addotta dalla Corte territoriale, ossia che il fatto che l’art.9 del contratto era altrettanto inapplicabile dell’art.8.
6.5. Ferme le dirimenti osservazioni che precedono, si può aggiungere il Comune invoca il disposto dell’art.21, comma 4 , del d.m.145/2000 per la compatibilità fra le penali per il ritardo e la risoluzione del contratto di appalto pubblico.
L’art.117 del d.p.r. 21.12.1999 n. 554, applicabile ratione temporis, demandava ai capitolati speciali di appalto e i contratti la precisazione delle penali da applicare nel caso di ritardato adempimento degli obblighi contrattuali.
Il successivo art.119 disciplinava la risoluzione del contratto per grave adempimento, grave irregolarità e grave ritardo, in seguito all’accertamento da parte del direttore dei lavori di comportamenti dell’appaltatore concretano grave inadempimento alle obbligazioni di contratto tale da compromettere la buona riuscita dei lavori, l’intervento del responsabile del procedimento, l’apertura del contraddittorio per controdeduzioni per pervenire alla risoluzione del contratto disposta dalla stazione appaltante su proposta del responsabile del procedimento.
Il d.m. 19.4.2000 n. 145 recante il capitolato generale di appalto, all’art.21, in tema di « Tempo per la ultimazione dei lavori », disponeva che « Nel caso di risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 119 del regolamento, ai fini dell’applicazione delle penali il periodo di ritardo è determinato sommando il ritardo accumulato dall’appaltatore rispetto al programma esecutivo dei lavori di cui all’art. 45, comma 10, del regolamento e il termine assegnato dal direttore dei lavori per compiere i lavori .»
L’articolo 22 in tema di « Penali » disponeva che « Per il maggior tempo impiegato dall’appaltatore nell’esecuzione dell’appalto oltre il termine contrattuale è applicata la penale nell’ammontare stabilito dal capitolato speciale o dal contratto e con i limiti previsti dall’art. 117 del regolamento .»
6.5. Il ricorrente contesta la compatibilità ontologica, in astratto, della penale per il ritardo con la risoluzione del contratto per
inadempimento, ma l’assunto della Corte di appello si basa sul contenuto di due clausole contrattuali (gli artt.8 e 9) che non sono state specificamente censurate nell’interpretazione che ne ha dato la Corte di appello.
È ben noto che l’opera dell’interprete mira a determinare una realtà storica ed obiettiva, ossia la volontà delle parti espressa nel contratto, e pertanto costituisce accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 cod.civ. e segg., oltre che per vizi di motivazione nella loro applicazione. Perciò, per far valere la violazione di legge, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali asseritamente violati; di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso, non è idonea la mera critica del convincimento espresso nella sentenza impugnata mediante la mera contrapposizione d’una difforme interpretazione, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità ( ex multis , Sez. 3, n. 13603 del 21.5.2019; Sez. 3, n. 11254 del 10.5.2018; Sez. 1, n. 29111 del 5.12.2017; Sez. 3, n. 28319 del 28.11.2017; Sez. 1, n. 27136 del 15.11.2017; Sez. 2, n. 18587, del 29.10.2012; Sez. 6-3, n. 2988, del 7.2.2013).
La denunzia della violazione dei canoni legali in materia d’interpretazione del contratto non può costituire lo schermo, attraverso il quale sottoporre impropriamente al giudizio di legittimità valutazioni che appartengono in via esclusiva al giudizio di merito (Sez.2, n.30686 del 25.11.2019); non è quindi
certamente sufficiente la mera enunciazione della pretesa violazione di legge, volta a rivendicare il risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, ma è necessario, per contro, individuare puntualmente e specificamente il canone ermeneutico violato, correlato al materiale probatorio acquisito.
6.7. Non sarebbe pertanto sufficiente al ricorrente dimostrare che la legge consente l’introduzione di penali per il ritardo nel contratto di appalto pubblico compatibili con la risoluzione anticipata: occorreva anche dimostrare che la Corte di appello aveva erroneamente interpretato le clausole del contratto pubblico in questione, violando specifici canoni ermeneutici. Cosa che il Comune ricorrente non ha fatto.
Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art.360, comma 1, n.3, cod.proc.civ., il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt.165 d.p.r. 554/1999 e 345 c.p.c.
7.1. In primo luogo il Comune ricorrente sostiene che la censura svolta da IGECO con il quarto motivo di appello integrava una domanda nuova e pertanto inammissibile nel suo collegamento all’art.165 sopra citato.
La censura è del tutto generica, nell’affermare che la Corte di appello avrebbe confuso « la qualificazione giuridica della domanda con il bene della vita richiesto », a fronte della puntuale attestazione della sentenza impugnata che ha escluso di essere in presenza di una domanda nuova -e pertanto l’immutazione tardiva dei fatti costitutivi -ravvisando una mera diversa qualificazione giuridica sempre disponibile per il giudice in applicazione del noto principio « iura novit curia : narra mihi factum, dabo tibi ius».
Il bene della vita richiesto era esattamente lo stesso e i fatti costitutivi non sono stati immutati: quel che è stato introdotto solo
in secondo grado è stato il riferimento normativo, ossia l’art.165 d.p.r. 554/1999, peraltro suscettibile di rilievo anche officioso.
7.2. Il ricorrente aggiunge che la censura era comunque infondata perché la Corte di appello aveva equivocato al proposito, ritenendo che la predetta riserva facesse riferimento a una perizia contabile approvata dalla Giunta comunale, circostanza esclusa dai fatti di causa.
La censura è palesemente inammissibile perché volta a richiedere alla Corte di legittimità una rivalutazione dell’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito, per di più in modo del tutto generico.
Per i motivi esposti occorre dichiarare inammissibile il ricorso e condannare il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate nella somma di € 4.000,00 per compensi, € 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione