Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16614 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 16614 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso 10871-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, NOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO, che li rappresenta e difende;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 4507/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 22/11/2022 R.G.N. 984/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/03/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 27/03/2024
CC
Rilevato che:
La Corte d’appello di Roma ha respinto l’appello della RAGIONE_SOCIALE, confermando la pronuncia di primo grado, che aveva riconosciuto il diritto dei lavoratori ricorrenti al pagamento della retribuzione per i 30 minuti di pausa per ogni giornata di lavoro a decorrere dall’1.1.2016 e aveva condannato la società a pagare le differenze retributive per il periodo da gennaio 2016 a giugno 2017.
La Corte territoriale ha accertato che ai lavoratori per cui è causa, fino al 30.4.2010, è stata riconosciuta la pausa retribuita di trenta minuti in aggiunta alle otto ore di lavoro continuato giornaliero, come risultante dalle buste paga in atti; che con accordo sindacale aziendale del 22.4.2010, a causa della ‘crisi economica che coinvolge l’intero settore produttivo’, è stato modificato l’orario per i lavoratori che ‘svolgono l’attività sulla base di un orario continuato’, riconoscendo ai medesimi, dal primo maggio al 31 dicembre 2010, ‘una pausa non retribuita di trenta minuti giornalieri’; che tale previsione è stata prorogata, con due successivi accordi aziendali del 24.5.2011 e del 14.12.2012, fino al 31.12.2015; che alla scadenza del termine del 31.12.2015 nessun altro accordo di riduzione (della retribuzione per la pausa giornaliera) è stato siglato tra le OO.SS. e la società; che a far data dal gennaio 2016 ha ripreso vigore l’originario obbligo di retribuzione della pausa giornaliera di trenta minuti (di cui all’art. 9, punto 12 del c.c.n.l.); che era di conseguenza assorbito il motivo di appello concernente la accertata sussistenza di una prassi aziendale.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. I lavoratori hanno resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. per avere la Corte d’appello reso una motivazione apparente non avendo individuato il titolo giuridico a fondamento del riconosciuto diritto dei lavoratori alla pausa retribuita per il periodo oggetto di causa. La sentenza impugnata non ha motivato sulla qualifica dei lavoratori come turnisti, ai sensi dell’art. 9, punto 12 del c.c.n.l., e ha definito superflua l’indagine sulla prassi aziendale, finendo per considerare fondata la pretesa dei lavoratori in base al mero dato dell’avvenuto pagamento della pausa per il periodo anteriore al 2010.
Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per avere la Corte di merito ritenuto assolto l’onere di prova dei lavoratori, considerando pacifici fatti decisivi nonostante la contestazione degli stessi da parte della società. Si censura la statuizione della sentenza d’appello (p. 3, terzo cpv.) secondo cui ‘dette buste paga e le circostanze di fatto dalle stesse desumibili non sono state oggetto della benché minima contestazione, anche solo generica… Ciò consente di superare l’argomentazione secondo la quale essi non avrebbero dedotto e provato di avere svolto turni continuativi’. Si assume che i giudici di appello abbiano travisato il fatto controverso, che non è l’avere ricevuto il pagamento della pausa di mezz’ora in un determinato arco temporale (fino al 2010), quanto la fondatezza giuridica della pretesa avanzata dai lavoratori per il diverso arco temporale (2016-2017) sul presupposto fattuale di essere stati addetti a turni continuativi o sfalsati con orario continuato.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. per errata interpretazione degli accordi aziendali da parte dei giudici di appello. Si assume che con l’accordo del 2010 è stato modificato, in via permanente, l’orario di lavoro dei dipendenti RAGIONE_SOCIALE, uniformandolo a quello dei dipendenti delle altre filiali della società ai quali trovava applicazione la disciplina della contrattazione collettiva nazionale; che in tal senso depone il significato letterale delle espressioni usate nell’accordo del 2010 e in quelli successivi ove si legge ‘viene modificato tale orario di lavoro’ oppure ‘rimane modificato tale orario’.
I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per connessione logica, non sono fondati.
La sentenza d’appello ha individuato il titolo giuridico legittimante il diritto azionato dai lavoratori, non nel dato fattuale in sé dell’avere essi ricevuto la retribuzione per la pausa di 30 minuti giornalieri fino al 30 aprile 2010, bensì nell’essere tale dato fattuale indice inequivoco della riconducibilità della loro prestazione lavorativa all’articolo 9, punto 12 del CCNL. Che questo sia il decisum della sentenza d’appello si ricava dai seguenti argomenti dalla stessa utilizzati. La sentenza afferma che la prova del fatto che i lavoratori avessero percepito la retribuzione per la mezz’ora di pausa fino all’aprile 2010 ‘consente di superare l’argomentazione secondo la quale essi non avrebbero dedotto e provato di avere svolto turni continuativi’. I giudici di appello attribuiscono alla prova raccolta la capacità di dimostrare ciò che secondo la società non era dimostrato, cioè l’essere quei lavoratori adibiti ad una prestazione con modalità tali da fondare il loro diritto alla pausa retribuita, secondo il contratto collettivo. La sentenza poi giudica ‘assorbito il motivo concernente la accertata sussistenza di
una prassi aziendale… perché, sulla base delle considerazioni che precedono, detta motivazione appare ultronea e non necessaria’. L’individuazione del titolo legittimante nelle previsioni del contratto collettivo rende superflua, nell’ottica dei giudici di appello, il riferimento alla prassi aziendale.
10. Tali considerazioni portano, anzitutto, ad escludere che possa configurarsi il vizio di cui all’articolo 132 c.p.c., emergendo dalla lettura della sentenza d’appello il percorso logico giuridico che sostiene la decisione, senza che vi sia spazio per ravvisare le anomalie motivazionali come individuate dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e n.8054 del 2014).
Per le stesse ragioni deve dichiararsi non fondato il secondo motivo di ricorso atteso che i giudici di appello non hanno travisato il titolo giuridico a fondamento del diritto dei lavoratori, ma hanno ritenuto raggiunta la prova di esistenza del fatto costitutivo del diritto (riconducibilità della prestazione alle ipotesi previste dall’art. 9, punto 12 del c.c.n.l.) ricorrendo al ragionamento presuntivo.
Infondato è, infine, anche il terzo motivo, che denuncia la violazione dei canoni ermeneutici nella interpretazione del contratto aziendale del 2010 e dei contratti successivi, di fatto contrapponendo alla ricostruzione del contenuto contrattuale come operata dai giudici di appello una lettura differente, che ignora le espressioni valorizzate nella sentenza di secondo grado (‘stante la crisi economica che coinvolge l’intero settore produttivo’) e fa essenzialmente leva su altre espressioni (‘viene modif icato tale orario di lavoro’ e ‘rimane modificato tale orario’), senza evidenziare errori di diritto ma unicamente proponendo una lettura alternativa.
Al riguardo, si richiama l’orientamento consolidato secondo cui l’interpretazione di un atto negoziale è tipico
accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o di motivazione non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione. Con la precisazione dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). Difatti, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già esaminati; poiché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, censurare in sede di legittimità la decisione per il fatto di avere privilegiato l’altra lettura (Cass. n. 7500 del 2007; Cass. n. 24539 del 2009).
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge, da distrarsi in favore dell’AVV_NOTAIO, antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 27 marzo 2024