Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21878 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21878 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
1.La Corte di Appello di Roma ha rigettato il gravame proposto da ARES 118 avverso la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva dichiarato il diritto di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME alla fruizione della pausa di 10 minuti nei turni or ari di lavoro superiore a sei ore ed aveva condannato l’ARES 118 al risarcimento del danno da mancata fruizione del periodo di sosta ex art. 8 d.lgs. n. 66/2003 dal 7.3.2006, da liquidarsi in separata sede.
La Corte territoriale, ricostruito il quadro normativo, ha ritenuto che l’art. 8 d.lgs. n. 66/2003 possa essere derogato solo dai contratti collettivi nei limiti e con le modalità stabilite dalla legge (o, in assenza, con decreti ministeriali soltanto per alcune tipologie di lavoratori espressamente elencate nell’art. 17 d.lgs. n. 66/2003, riferito alla ‘attività discontinue’) ed ha rilevato che tali condizioni non sussistono nel caso di specie, non avendo la contrattazione collettiva o i decreti ministeriali diversamente disciplinato il diritto alla pausa.
Il giudice di appello ha precisato che «quand’anche l’attività svolta dagli odierni appellanti rientrasse tra quelle discontinue per le quali l’art. 17 prevede la deroga, in assenza del relativo decreto ministeriale la disposizione di cui al citato art. 8 deve comunque trovare applicazione».
Ha escluso che l’attività svolta dagli autisti di ambulanza possa essere considerata discontinua, in quanto non ricompresa nell’elenco e d inoltre perché anche il tempo in cui il lavoratore è presente nel luogo di lavoro ed è a disposizione del datore va considerato orario di lavoro.
Ha ritenuto irrilevante la circostanza che i lavoratori fruissero di buoni pasto, in quanto la sosta per la fruizione del pasto, peraltro non provata, non riguarda il differente profilo della salvaguardia delle energie psico-fisiche degli appellati; ha infine respinto le istanze istruttorie articolate dall’appellante, in quanto generiche ed irrilevanti.
Avverso tale sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi.
NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
DIRITTO
1.Con il primo motivo, il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 17, comma 2, lett. c) n. 3 d.lgs. n. 66/2003 e dell’articolo unico del R.D. n. 2657/1923.
Evidenzia che RAGIONE_SOCIALE nell’atto di appello non aveva configurato una deroga ai sensi del solo art. 17, comma 2, lett. c) n. 1 d.lgs. n. 66/2003 in conclamata assenza del contratto collettivo o del decreto ministeriale di attuazione, né aveva avanzato alcuna eccezione in senso proprio in ordine alla riconduzione delle attività svolte dai lavoratori in questione al novero di quelle caratterizzate dalla necessità di assicurare la continuità del servizio o della produzione.
L’Azienda deduce in sintesi che gli operatori di ambulanza sono ‘lavoratori discontinui’, in quanto rientrano tra il ‘personale addetto ai posti di pubblica assistenza’ di cui al n. 21 dell’articolo unico del R .D. 2657/2023.
Sostiene che il RD n. 2657/1923 individua categorie di lavoratori discontinui che possono essere definiti anche in via interpretativa.
Lamenta l’omessa pronuncia su tale questione proposta dall’atto di appello, nonché il carattere apparente e perplesso della motivazione.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66/2003 e dell’art. 3 r.d.l. n. 692/2023, per avere la Corte territoriale sovrapposto la nozione di ‘lavoratore discontinuo’ con quella di ‘orario di lavoro’.
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che l’essere a disposizione del datore di lavoro nei tempi di attesa escluda il lavoro discontinuo; lamenta la violazione del principio secondo cui il lavoro discontinuo si realizza proprio nei casi di alternanza fra prestazione e mera attesa.
Richiama il principio secondo cui il diritto all’intervallo per la pausa va riconosciuto ove il lavoratore dimostri che è connesso o collegato alla prestazione, è eterodiretto e non è lasciato, per la sua durata, nella disponibilità autonoma del lavoratore.
Le prime due censure, da trattare congiuntamente in ragione della loro connessione, sono infondate.
Non sussiste l’omessa pronuncia, né la motivazione apparente.
La sentenza impugnata ha rilevato che i contratti collettivi e i decreti ministeriali non avevano disciplinato la materia, ed in assenza di deroghe ha ritenuto la sussistenza del diritto degli originari ricorrenti alla fruizione della pausa ex art. 8 d.lgs. n. 66/2003.
Anche le censure di violazione di legge sono infondate.
Questa Corte ha chiarito che l’elencazione contenuta nella tabella approvata con Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657, delle occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia, alle quali non si applica la limitazione di orario di otto ore giornaliere, stabilita dall’art. 1 del regio decreto 15 marzo 1923, n. 692, ha carattere tassativo; ne ha fatto conseguire che non è consentito includervi, per effetto di interpretazioni analogiche, altre mansioni, diverse da quelle contemplate, neppure nel caso in cui tali diverse mansioni siano svolte dallo stesso soggetto in concorso con mansioni comprese nell’elenco e prevalenti su quelle da esso non considerate, giacché, nel caso di mansioni plurime esercitate da una stessa persona, la prevalenza di una mansione sull’altra, benché assuma rilevanza per l’inquadramento del lavoratore in una determinata qualifica, sia pure pattiziamente riconosciuta, non incide invece sul carattere continuo o meno delle mansioni espletate dal medesimo lavoratore (Cass. n. 10669/2004).
La pretesa dell’azienda di attribuire prevalenza all’elencazione contenuta nel R.D. 2657/1923 è comunque priva di fondamento normativo, e ciò assorbe ogni altra questione sulla natura tassativa o meno delle lavorazioni inserite nell’elenco e sulla qualificabilità del lavoro in discussione come discontinuo.
Le censure muovono dall’erroneo presupposto che il lavoro discontinuo sia rilevante in sé per escludere l’applicazione del d.lgs. n. 66/2003.
L’art. 16 del d.lgs. n. 66/2003, concernente i limiti di durata massima settimanale, richiama il R.D. 2657/1923, mentre la disciplina delle deroghe agli artt. 7, 8, 12 e 13 è dettata dall’art. 17 che non esclude sic et simpliciter i lavori discontinui, ma richiede l’intervento della contrattazione collettiva o l’adozione del decreto ministeriale, pacificamente non emesso in relazione agli autisti di autombulanza.
La Corte territoriale ha dunque ricostruito in modo corretto il quadro normativo ed ha rilevato che la contrattazione collettiva o i decreti ministeriali non avevano diversamente disciplinato il diritto alla pausa.
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 66/2003 e dell’art. 29 CCNL integrativo del Comparto Sanità del 7.4.1999.
Evidenzia che era incontestato che l’Azienda aveva regolarmente messo i buoni pasto a disposizione dei lavoratori e addebita alla sentenza impugnata di avere ritenuto irrilevante tale circostanza.
Ribadito che l’attività degli autisti rientra fra i lavori discontinui, l’azienda insiste nel sostenere che avrebbe dovuto essere valorizzata la circostanza della sosta concessa per la funzione del pasto.
Addebita alla Corte territoriale di non avere considerato le previsioni contenute nell’art. 29 CCNL integrativo del Comparto Sanità del 7.4.1999; evidenzia che il dipendente poteva far coincidere momenti di inattività e di attesa con il godimento della pausa ai fini della consumazione del pasto.
Il motivo è inammissibile, in quanto nel prospettare che l’Azienda aveva regolarmente messo i buoni pasto a disposizione dei lavoratori, non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto non provato che gli originari ricorrenti avessero effettivamente fruito della pausa per la consumazione del pasto.
Con il quarto motivo il ricorso denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ.
Sostiene che a fronte della fondatezza del ricorso, nessuna soccombenza può essere addebitata ad ARES 118.
Il motivo è inammissibile.
La prospettazione secondo cui la fondatezza del ricorso esclude la soccombenza non costituisce un motivo di censura della sentenza di appello, in quanto richiama in sostanza l’effetto espansivo interno di cui all’art. 336, comma primo, cod. proc. civ. nell’ipotesi di accoglimento del ricorso.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 4 .000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge , con distrazione in favore dell’Avv. NOME COGNOME;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il 4 luglio 2025.
La Presidente NOME COGNOME