Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 34139 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 34139 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2987/2021 R.G. proposto da :
COGNOME NOME, domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentat i e difesi dall’avvocato COGNOME;
-controricorrentinonché contro NOMECOGNOME NOME, NOME;
-intimati- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di SALERNO n. 812/2020 depositata il 30/06/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/11/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La vicenda trae origine dal giudizio intrapreso dagli eredi di NOME COGNOME assistiti dall’avv. NOME COGNOME per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti al decesso avvenuto a causa di un incidente stradale.
All’esito delle transazioni tra gli eredi e le RAGIONE_SOCIALE, quale impresa designata per la Campania a gestire il Fondo di garanzia per le Vittime della strada, l’avv. COGNOME si era trattenuta parte degli importi corrisposti dalla compagnia, in base a due scritture private con cui le venivano riconosciuti dei compensi pari al 30% per la prima transazione, e al 40% per la seconda transazione.
Pertanto, NOME, NOME e NOME COGNOME nonché gli eredi di NOME COGNOME convenivano in giudizio l’avvocato NOME COGNOME chiedendone la condanna al pagamento delle somme illecitamente non corrisposte e al risarcimento dei danni subiti ai sensi dell’art. 1226 c.c.
Il Tribunale di Vallo della Lucania, con la sentenza n. 393/2016, accoglieva la domanda e, dopo aver qualificato la scrittura privata sottoscritta dalle parti quale patto di quota lite, condannava l’avv. COGNOME al versamento delle somme illecitamente trattenute e al risarcimento del danno.
La Corte d’appello di Salerno, con la sentenza n. 812 /2020, pubblicata il 30 giugno 2020, confermava la sentenza impugnata.
Avverso tale pronuncia l’avv. NOME COGNOME propone ricorso per Cassazione con tre motivi.
3.1. Resistono con controricorso NOME, NOME e NOME COGNOME.
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1. Con il primo motivo, la ricorrente censura ‘la violazione e falsa applicazione dell’art. 2233, comma 3 c.c. e dell’art. 1988 c.c. in relazione all’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., n. 3 scritture in atti del 8.11.2004 e del 28.12.2004’; sostiene che la corte d’appello
avrebbe errato a qualificare la scrittura privata oggetto di causa come promessa di pagamento, trattandosi, invece, di ricognizione di debito ex art. 1988 c.c.
4.2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia ‘la violazione e falsa applicazione dell’art. 2233, comma 3 c.c. in relazione all’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c.’; sostiene che il giudice dell’appello, nel ravvisare nella dichiarazione unilaterale di scienza contenuta nella scrittura dell’8 novembre 2004 un patto di quota lite (vietato e, quindi, nullo), avrebbe erroneamente applicato ed interpretato l’articolo 2233 c.c.
4.3. Con il terzo motivo, l’avv. COGNOME denuncia ‘l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, c. 1, n. 5, c.p.c. – Dichiarazioni unilaterali (ricognizione di debito) sottoscritte dopo la conclusione della prestazione professionale’; sostiene che la Corte territoriale avrebbe ritenuto configurabile un patto di quota lite, sulla base delle scritture dell’8 novembre 2004 e del 28 dicembre 2004, nonostante la ricorrente nell’atto di appello avesse evidenziato la non configurabilità, nel caso di specie, di un patto di quota lite, in presenza di mere dichiarazioni unilaterali, sottoscritte dai clienti dopo l’instaurazione del giudizio ed avente ad oggetto il risarcimento dei danni e dopo l’avvenuta stipula della transazione con la compagnia assicurativa, quindi ad attività professionale conclusa.
I tre motivi possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi e in parte sovrapponibili.
Essi sono inammissibili.
Si premette che il divieto del cosiddetto ‘patto di quota lite’ tra l’avvocato ed il cliente, sancito dalla norma di cui all’art. 2233 c.c., trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera
intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità e la moralità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia, comunque, ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione, giudiziale o stragiudiziale, richiestagli: ne consegue che detto patto (legittimamente ravvisabile anche sotto forma di promessa unilaterale, costituendo questa una fattispecie negoziale ove l’astrazione della causa risulta limitata all’ambito processuale) va rinvenuto non soltanto nella ipotesi in cui il compenso del legale consista in parte dei beni o crediti litigiosi, secondo l’espressa previsione della norma (che costituisce, in relazione alla ‘ratio’ della tutela, soltanto la tipizzazione dell’ipotesi di massimo coinvolgimento del legale e che, pertanto, non esaurisce il divieto), ma anche qualora tale compenso sia stato, comunque, convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella (non consentita) partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione (Cass., Sez. 2, Sentenza n. 11485 del 19/11/1997, Rv. 510129 -01; Sez. 2, Sentenza n. 1701 del 13/05/1976, Rv. 380467 – 01).
Tanto premesso, nel caso di specie la ricorrente, in primo luogo, non coglie adeguatamente la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Essa censura, in sostanza, l’errata qualificazione fatta dalla Corte d’appello delle scritture dell’8 novembre 2004 e del 28 dicembre 2004, sostenendo che in realtà, si tratterebbe di ricognizioni di debito (non di promesse di pagamento) e che in esse non sarebbe affatto configurabile un patto di quota lite.
Orbene, si inquadrano nell’ambito della categoria codicistica delle ‘promesse unilaterali’ (libro quarto, titolo quarto del codice civile), sia la promessa di pagamento che la ricognizione di debito (art. 1988 cc): anche a voler ammettere che, nella specie, si tratti di
ricognizioni di debito, come sostiene la ricorrente, non cambierebbe l’esito del giudizio; né, in verità, la ricorrente chiarisce in modo adeguato e specifico, nel ricorso, perché tale diversa qualificazione muterebbe, invece, il suddetto esito, posto che la ricognizione di debito implica necessariamente la sussistenza di un debito pari all’importo oggetto di riconoscimento che, nella specie, è stato accertato derivare da un illegittimo accordo avente ad oggetto un patto di quota lite.
La corte d’appello ha accertato, in fatto, che il compenso è stato determinato e corrisposto al legale sulla base di un patto di quota lite. Nella decisione impugnata si fa, del resto, riferimento a una ‘promessa unilaterale’, richiamando l’indirizzo di questa Corte cui va certamente data continuità -secondo cui il patto vietato sussiste anche in tal caso, non essendo necessario un vero e proprio accordo bilaterale formalizzato in un documento scritto (cfr., in proposito: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 4777 del 21/07/1980, Rv. 408594 -01; Sez. 2, Sentenza n. 11485 del 19/11/1997, Rv. 510129 -01; Sez. U, Sentenza n. 919 del 21/12/1999, Rv. 532402 -01). È sufficiente, infatti, che vi sia un riconoscimento consensuale al legale di un compenso parametrato sull’esito del giudizio , il che nella specie è certamente avvenuto.
La corte territoriale, quindi, ha affermato, sulla base di un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, che il debito degli attori derivava da un precedente illegittimo accordo sul compenso (o, quanto meno, da un accordo di attribuzione di un palmario tale da far presumere con certezza la dissimulazione di un patto di quota lite vietato, perché comportante una ingiustificata falcidia dei vantaggi derivanti agli assistiti dall’esito della controversia: cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 21585 del 19/10/2011,Rv. 618989 – 01).
Ed è principio consolidato di questa Corte che, al fine di far valere in sede di legittimità la violazione dei canoni legali di
interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., il ricorrente non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (tra le tante, cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021, Rv. 661265 – 01).
Sotto tale profilo, le censure sollevate dalla ricorrente mirano, invece, esclusivamente ad accreditare inammissibilmente una ricostruzione della vicenda e, soprattutto, un apprezzamento delle prove raccolte del tutto divergente da quello compiuto dai giudici di merito. Non essendo questa Corte giudice del fatto, il ricorrente non può, peraltro, limitarsi a prospettare una lettura delle prove ed una ricostruzione dei fatti diversa da quella compiuta dal giudice di merito, svalutando taluni elementi o valorizzando altri ovvero dando ad essi un diverso significato, senza dedurre specifiche violazioni di legge ovvero incongruenze di motivazione tali da rivelare una difformità evidente della valutazione compiuta dal giudice rispetto al corrispondente modello normativo.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 4.300,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente al competente ufficio di merito, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione 3