Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24202 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 24202 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 29/08/2025
SENTENZA
sul ricorso 7833-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza non definitiva n. 488/2022 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 26/09/2022 R.G.N. 114/2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/06/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Licenziamentopatto di prova
R.G.N. 7833/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 11/06/2025
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
Il Tribunale di Venezia ha respinto la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE di cui era dipendente con inquadramento nella categoria di Quadro, diretta ad ottenere l’accertamento della nullità del patto di prova di mesi sei stipulato contestualmente al contratto di lavoro (con decorrenza dall’11.12.2017) e, conseguentemente, la declaratoria di illegittimità del recesso intimatole in data 24 maggio 2018 con la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna della società al pagamento della indennità risarcitoria secondo la previsione dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. n. 232/2015, ratione temporis applicabile al rapporto lavorativo.
Proposto gravame, la Corte di appello di Venezia, con la sentenza non definitiva n. 488/2022 pubblicata il 26.9.2022, in riforma della impugnata pronuncia ha dichiarato la nullità del patto di prova; ha annullato il licenziamento e ha condannato la RAGIONE_SOCIALE a reintegrare la RAGIONE_SOCIALE nel posto di lavoro e alla regolarizzazione contributiva previdenziale e assistenziale; con separata ordinanza, ritenuto che andasse, altresì, applicata la tutela risarcitoria prevista per i casi di insussistenza del fatto, ha disposto il prosieguo del giudizio al fine di determinare l’indennità dovuta, avendo riguardo all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, al giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione.
In sintesi, i giudici di seconde cure hanno evidenziato che il patto di prova era nullo perché: a) non descriveva, neppure in forma minimale, le mansioni oggetto della prova non essendo sufficiente il richiamo alla posizione di capo servizio; b) non era sufficiente il mero rinvio alla declaratoria contrattuale; c) il rilievo dato alle mail , intercorse tra le parti prima della stipulazione del contratto di lavoro, non era idoneo per desumere gli elementi essenziali delle specifiche mansioni cui sarebbe stata preposta la dipendente; d) le conseguenze sanzionatorie, in caso di nullità del contenuto del patto di prova per la sua indeterminatezza, andavano individuate in quelle di insussistenza del fatto richiamando la giurisprudenza di legittimità che applicava a tali fattispecie l’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970.
Avverso la sentenza di secondo grado la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME
Le parti hanno depositato memorie e la causa, in un primo momento fissata in udienza camerale, è stata poi rinviata in pubblica udienza venendo in rilievo questioni di particolare importanza.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2096 cod. civ., dell’art. 1362 e 1366 cod. civ., in relazione al contenuto del contratto individuale di lavoro del 7.12.2017 nonché dell’ar t. 107 del Titolo V del CCNL del Terziario- ipotesi di accordo del 6 aprile 2011, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto nullo il patto di prova, per indeterminatezza delle mansioni oggetto dell’esperimento,
sul presupposto che, non solo la previsione del patto di prova, ma anche il contenuto dettagliato delle mansioni e le modalità concrete di esecuzione della prova avrebbero dovuto essere indicate per iscritto nel medesimo contratto individuale, con particolare riferimento, peraltro, alla mancata indicazione del cd. ‘servizio’.
Con il secondo motivo si eccepisce, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, l’omesso esame dei seguenti fatti decisivi: a) la conoscenza, da parte della Lirsch, del profilo professionale per cui era prevista la prova; b) la Job description del profilo professionale del ‘Responsabile RAGIONE_SOCIALE‘ ricevuto in allegato con la mail del 12.9.2017 e di quelle successive, da cui emergeva il profilo professionale richiesto dalla società e in relazione al quale la dipendente aveva proposto la sua candidatura; c) il contenuto del contratto individuale di lavoro del 7.12.2017; d) l’art. 107 inserito nel titolo V del CCNL Terziario- ipotesi di accoro del 6.4.2011.
Con il terzo motivo si obietta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, l’omesso esame della documentazione, attestante un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 2096 cod. civ., per non avere la Corte terri toriale considerato che la Lirsch, all’udienza del 13 maggio 2019 come da relativo verbale, aveva dichiarato di avere svolto nel periodo di prova le mansioni relative al profilo professionale della richiamata ‘JD OVS’ Job description , del profilo professio nale del ‘Responsabile Stile Uomo’ ricevuto in allegato con la mail del 12 settembre 2017.
Con il quarto motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 co. 1 e co.
2 del D.lgs. 4.3.2015 e dell’art. 1 co. 7 lett. c) della legge
delega n. 183/2014, in relazione all’art. 2096 cod. civ., per avere la Corte di appello, in conseguenza della rilevata nullità del patto di prova, in una fattispecie di contratto a tutele crescenti, ritenuto erroneamente applicabile al licenziamento in prova la tutela reintegratoria e risarcitoria prevista dal co. 2 dell’art. 3 D.lgs. del 4.3.1015 e non quella indennitaria prevista dal comma 1 dell’art. 3 dello stesso decreto legislativo.
Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. 4 marzo 2015 e dell’art. 18 co. 4 della legge n. 300 del 1970 nella parte in cui la Corte di appello ha stabilito, da un lato, che l’indennità risarcitoria dovesse essere liquidata in misura superiore alle dodici mensilità dell’ultima retribuzione e, dall’altro, che si dovesse avere riguardo alla normativa di cui all’art. 18 co. 4 dello St. lav. e non a quella di cui al D.lgs. n. 23 del 2015.
I primi tre motivi, da scrutinare congiuntamente per la loro interferenza, non sono meritevoli di accoglimento presentando profili di infondatezza e di inammissibilità.
In punto di diritto questa Corte ha affermato (Cass. n. 21996/2023) che per la valutazione di specificità del patto di prova occorre considerare la non necessità di descrizione in dettaglio delle singole mansioni in presenza di svolgimento di attività di contenuto intellettuale, (Cass. n. 17591 del 2014), la possibilità di rinvio per relationem al contratto collettivo applicabile (Cass. n. 9597 del 2017, Cass. n. 11722 del 2009) e, ai fini dell’interpretazione del contratto, l’utilizzo di elementi extratestuali ricavabili dalla condotta delle parti, quali il pregresso bagaglio lavorativo esplicitato nel
curriculum, ritenuto consentito (Cass. n. 553/2022, Cass. n. 24560/2016, Cass. n. 16181/2017).
La gravata sentenza ha tenuto presente tali principi ed è conforme alle indicazioni in essi precisate in quanto, nella valutazione di mancata specificazione del patto di prova, ha rilevato, in un contesto in cui non era in discussione la natura direttiva d el ruolo assegnato, l’assenza dei contenuti caratterizzanti il suo esercizio, funzionali alla verifica del positivo esperimento della prova e ha specificato, a tal fine, che non era sufficiente né il rinvio alla declaratoria contrattuale (mancando un qualsivoglia riferimento al concreto esercizio delle mansioni individuabili), né il riferimento alle mail inviate in epoca anteriore alla stipula del contratto (perché oltre a mancare l’individuazione delle mansioni, doveva essere sottolineato che l’interlocutore -con il quale vi era stato il contatto- era un soggetto estraneo all’azienda e non vi era stato a lcun richiamo, nel contratto di lavoro, ad una intesa precontrattuale).
Si verte, pertanto, in un accertamento di merito riguardante l’interpretazione di una clausola di un atto di autonomia privata nonché di valutazione di elementi esterni di fatto, adeguatamente motivato e svolto conformemente ai principi di legittimità statuiti in materia.
Il quarto motivo non è parimenti meritevole di accoglimento e deve essere respinto sia pure con le precisazioni che seguono.
È fondamentale impostare il problema delle conseguenze sulla nullità genetica del patto di prova avendo riguardo al cambiamento giurisprudenziale sostanziale rappresentato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 128 del 2024 che rappresenta un approdo importante nel dibattito in
tema di tutele, con la statuita declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 co. 2 del D.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui non prevede che la reintegra attenuata trovi applicazione anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata, in giudizio, l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.
Sotto questo profilo, è utile ricordare, in estrema sintesi, alcuni punti rilevanti del percorso giurisprudenziale sviluppatosi sulla questione oggetto della censura, nella ricorrenza del requisito dimensionale dell’azienda (nel caso in esame incontestato).
In ipotesi di nullità genetica del patto accidentale contenuto nel contratto individuale di lavoro, come può essere il caso della mancata stipula del patto di prova per iscritto in epoca anteriore o almeno contestuale all’inizio del rapporto di lavoro (Cass. n. 25 del 1995; Cass. n. 5591 del 2001; Cass. n. 21758 del 2010) oppure il caso della mancata specificazione delle mansioni da espletarsi (per tutte Cass. n. 17045 del 2005, come nel caso di specie), è stato affermato che la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla disciplina limitativa dei licenziamenti (Cass. n. 16214 del 2016; Cass. n. 17921 del 2016).
Invero, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare che la nullità della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione
dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio, in conformità del meccanismo prefigurato dall’art. 1419, comma 2 cod. civ. (Cass. n. 21698 del 2006, Cass. n. 14538 del 1999, Cass. n. 5811 del 1995, Cass. n. 11427 del 1993).
Sul piano delle conseguenze connesse al licenziamento ad nutum intimato dal datore di lavoro in relazione ad un patto di prova nullo, è stato chiarito che la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalle legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo. Per costante enunciato del giudice di legittimità, infatti, il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova (venuto invece a scadenza), si configura come licenziamento individuale non distinguibile da ogni altro licenziamento della stessa natura e regolato ove intimato a carico di lavoratore fruente della tutela della stabilità del posto – dalla disciplina comune per quel che attiene ai requisiti di efficacia e di legittimità e soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza, o meno, della giusta causa o del giustificato motivo (Cass. n. 16214 del 2016, Cass. n. 7921 del 2016, Cass. n. 21506 del 2008, Cass. n. 17045 del 2005, Cass. n. 2728 del 1994).
Prima del 2012, la relativa tutela, in detta fattispecie, variava solo in considerazione del requisito dimensionale, per cui spettava quella prevista dall’art. 18 st. lav. ove il datore di lavoro non avesse allegato e provato l’insussistenza del requisito dimensionale, ovvero quella riconosciuta dalla l. n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l’applicabilità della tutela reale. (Cass. 12 settembre 2016 n. 17921).
Dopo il 2012 (legge n. 92 del 2012) si è ritenuto che il licenziamento ad nutum intimato in assenza di valido patto di prova fosse illegittimo per mancanza di ‘giusta causa’ e di ‘giustificato motivo’, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 4, st. lav. sul rilievo che il mancato superamento della prova, stante la nullità del relativo patto, è totalmente inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo (Cass. 3 agosto 2016 n 16214), senza tuttavia porsi il problema della natura oggettiva o soggettiva del difetto di giustificazione operando in ogni caso quella tutela.
Con l’entrata in vigore del D.lgs. n. 23 del 2015, questa Corte, prendendo atto del mutato quadro normativo, ha affermato che la nullità della clausola che contiene il patto di prova determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio ed il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall’art. 1 della l. n. 604 del 1966, con la conseguenza che il recesso “ad nutum”, intimato in assenza di valido patto di prova, equivale ad un ordinario licenziamento -soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo -, il quale, nel regime introdotto dal d.lgs. n. 23 del 2015, è assoggettato alla regola generale della tutela
indennitaria di cui all’art. 3, comma 1, del predetto d.lgs., non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi, di cui al successivo comma 2 del menzionato art. 3, nelle quali è prevista la reintegrazione (Cass. n. 20239/2023).
Tale ultima impostazione deve, però, oggi essere rivista, come sopra si è fatto cenno, alla luce dei principi statuiti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 128 del 2024 che, nel riallineamento delle tutele ivi previsto per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, da un lato, e per giustificato motivo soggettivo o privo di giusta causa, dall’altro, consente di ritenere il recesso disposto per il mancato superamento di un patto di prova geneticamente nullo, una ipotesi di licenziamento privo di giustificazione per insussistenza del fatto, con il riconoscimento, quindi, della tutela reintegratoria di cui al secondo comma dell’art. 3 del D.lgs. n. 23 del 2015, come costituzionalmente interpretato.
Infatti, il mancato superamento di una prova che non esiste è, in sostanza, una chiara ipotesi di insussistenza del fatto materiale, perché manca l’esistenza del fatto posto a fondamento della ragione giustificatrice e, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale sopra citata, la tutela in tale ipotesi applicabile non potrà che essere quella della reintegrazione cd. attenuata, così come era stato ritenuto dopo l’entrata in vigore della cd. legge Fornero ai sensi dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1 970.
Invero, come autorevolmente precisato nella sentenza n. 125 del 2022 della Corte Costituzionale, l’insussistenza del fatto investe «il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale, confluita nell’atto di recesso» e «la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica», con la
conseguenza che, se non esiste un valido patto di prova, viene a mancare la necessaria ‘giustificatezza’ del licenziamento in quanto resta un recesso privo di giustificazione; esso, pertanto, si traduce in un licenziamento ad nutum perché svincolato totalmente dal fatto (insussistente) posto alla base di esso.
La gravata sentenza, sebbene emessa prima della pronuncia della Corte Costituzionale, è in linea, nel risultato cui è pervenuta, con i suddetti principi e, pertanto, la doglianza di cui al motivo in esame deve essere respinta.
Il quinto motivo, infine, è anche esso infondato.
La Corte territoriale (pag. 17, ultimo cpv, della gravata sentenza) ha espressamente statuito che l’indennità risarcitoria andasse commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento del trattamento di fine rapporto, detratto l’aliunde perceptum , e che la sua determinazione dovesse avvenire, in separato giudizio, tenendo conto dei principi affermati in sede di legittimità con la ordinanza della Corte di Cassazione n. 3824/2022, così correttamente indicato il sistema di quantificazione dell’indennità che è stata ancorata alla misura massima di dodici mensilità.
Le censure di cui al motivo non danno atto di queste precisazioni per cui non colgono l ‘ effettiva ratio decidendi .
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve
provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, l’11 giugno 2025