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Patto di prova: basta il rinvio al CCNL?

Un lavoratore è stato licenziato per mancato superamento del periodo di prova. Ha impugnato il licenziamento sostenendo la nullità del patto di prova per indeterminatezza delle mansioni. La Corte di Cassazione, confermando la decisione d’appello, ha stabilito che la specificazione delle mansioni nel patto di prova può avvenire anche “per relationem”, ovvero tramite un rinvio sufficientemente specifico al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) e alle normative di settore. In questo caso, il richiamo al livello di inquadramento e alle attività fungibili di Guardia Particolare Giurata è stato ritenuto idoneo a definire l’oggetto della prova, rendendo legittimo il licenziamento.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Patto di prova: basta il rinvio al CCNL per la validità?

Il patto di prova rappresenta uno strumento cruciale nel diritto del lavoro, consentendo a entrambe le parti di valutare la convenienza di un rapporto di lavoro prima che diventi definitivo. Ma cosa succede se le mansioni oggetto della prova non sono elencate nel dettaglio nel contratto individuale? Un semplice rinvio al Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è sufficiente? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo punto, offrendo importanti chiarimenti sulla validità del patto di prova specificato per relationem.

I fatti di causa

Il caso esaminato riguarda un dipendente di un’azienda di vigilanza, licenziato al termine di 45 giorni per mancato superamento del periodo di prova, la cui durata massima era fissata a 60 giorni. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, sostenendo che il patto di prova fosse nullo per un “vizio genetico”: la mancata specificazione delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere. A suo avviso, il contratto di lavoro non descriveva adeguatamente i compiti da eseguire, rendendo impossibile una valutazione oggettiva del suo operato.

La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, aveva dato ragione all’azienda. Secondo i giudici di secondo grado, le mansioni erano sufficientemente individuate per relationem, ovvero tramite il richiamo al CCNL di settore e a un Decreto Ministeriale che dettagliava le attività, tra loro fungibili, di una Guardia Particolare Giurata. Insoddisfatto, il lavoratore ha presentato ricorso in Cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione e la validità del patto di prova

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, confermando la legittimità del licenziamento. Gli Ermellini hanno affrontato i tre motivi di ricorso, ritenendoli inammissibili o infondati, e hanno consolidato un principio fondamentale sulla validità del patto di prova.

Il punto centrale della controversia era se il rinvio generico al CCNL potesse sostituire un’elencazione puntuale delle mansioni nel contratto individuale. La Corte ha chiarito che la specificazione delle mansioni è un requisito essenziale per la validità del patto, poiché permette al lavoratore di comprendere cosa ci si aspetta da lui e al datore di lavoro di avere un parametro oggettivo di valutazione. Tuttavia, questa specificazione non deve necessariamente essere contenuta nel contratto individuale, ma può essere realizzata tramite un rinvio a fonti esterne, come la contrattazione collettiva.

Le motivazioni

La Corte ha motivato la sua decisione sottolineando che, per essere valido, il rinvio al CCNL deve essere sufficientemente specifico. Non basta un richiamo generico a una categoria contrattuale; è necessario che il riferimento consenta di individuare con chiarezza il profilo professionale e le relative attività. Nel caso di specie, il contratto faceva riferimento al livello iniziale e finale del CCNL, che a sua volta richiamava le attività di Guardia Particolare Giurata come definite da un apposito Decreto Ministeriale. Secondo la Corte, questo sistema di rinvii incrociati era idoneo a delineare in modo chiaro l’oggetto della prova, trattandosi peraltro di attività tra loro fungibili e standardizzate da un corso di formazione obbligatorio.

Inoltre, la Cassazione ha respinto la critica relativa alla presunta inadeguatezza della durata della prova (45 giorni su 60), affermando che la valutazione sulla congruità del tempo concesso al lavoratore per dimostrare le sue capacità è un accertamento di fatto che spetta al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità, se non per vizi logici che qui non sono stati riscontrati.

Le conclusioni

La pronuncia conferma che la validità di un patto di prova non è legata a rigidi formalismi, ma alla sostanza. L’essenziale è che il lavoratore sia messo nelle condizioni di conoscere chiaramente quali sono le mansioni su cui verrà valutato. Un rinvio preciso e puntuale al contratto collettivo è uno strumento legittimo per raggiungere questo scopo. Per le aziende, ciò significa che è fondamentale redigere contratti che, pur avvalendosi del rinvio alla contrattazione collettiva, lo facciano in modo non ambiguo, collegando chiaramente l’inquadramento del dipendente a profili professionali ben definiti. Per i lavoratori, la sentenza ribadisce l’importanza di comprendere, fin dall’assunzione, il perimetro delle proprie responsabilità, anche se definite tramite fonti esterne al contratto individuale.

È valido un patto di prova che non elenca specificamente le mansioni nel contratto individuale?
Sì, può essere valido a condizione che contenga un rinvio sufficientemente specifico a una fonte esterna, come un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL), che permetta di individuare con chiarezza le mansioni oggetto della prova.

Cosa significa specificare le mansioni “per relationem” in un patto di prova?
Significa che le mansioni non sono descritte direttamente nel contratto di assunzione, ma sono definite tramite un richiamo a un altro documento (ad esempio, il CCNL o una normativa di settore). Perché sia valido, il richiamo deve essere preciso e non generico.

Il licenziamento per mancato superamento della prova è legittimo anche se la prova non è durata per l’intero periodo previsto?
Sì, secondo la Corte, un periodo di prova effettivo di 45 giorni su una durata massima di 60 è stato ritenuto un lasso di tempo congruo e idoneo a consentire al datore di lavoro di verificare l’attitudine del lavoratore, rendendo legittimo il licenziamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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