Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9255 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9255 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 08/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 27810-2022 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 712/2022 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 13/09/2022 R.G.N. 1300/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
30/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
Patto di non concorrenza
R.G.N. 27810/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 30/01/2025
CC
RILEVATO CHE
Con sentenza n. 1189/2021 il Tribunale di Milano rigettava la domanda svolta da RAGIONE_SOCIALE nei confronti di NOME COGNOME volta ad accertare la validità del patto di non concorrenza concluso inter partes in data 10 settembre 2008 e la sua violazione da parte del lavoratore, con condanna al pagamento della penale stabilita, pari a complessivi € 341.555,55. In accoglimento dell’eccezione del COGNOME dichiarava, invece, la nullità del suddetto patto, in quanto privo dei necessari vincoli di durata e in quanto avente un corrispettivo indeterminato ed indeterminabile. In particolare, ad avviso del primo giudice si poneva in contrasto con gli artt. 1346 e 2125 c.c. la clausola che prevedeva un compenso annuo di 12 mila euro lordi, da corrispondere al lavoratore in importo fisso mensile di pari importo per 12 mensilità, a far data dal 1° gennaio 2009 e per tutta la durata del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Dichiarata la nullità del patto, in accoglimento della domanda svolta in via subordinata dalla società, il Tribunale condannava il COGNOME a restituire, al netto, le somme percepite in costanza di rapporto di lavoro quale remunerazione del vincolo di non concorrenza, respingendo la domanda riconvenzionale con la quale il lavoratore aveva chiesto accertarsi la natura retributiva di quanto percepito e il conseguente diritto a ritenere gli importi incassati.
La Corte di appello di Milano con sentenza n. 712/2022 pubblicata il 13/09/2022, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accertava la validità del patto di non concorrenza e, verificatane la violazione da parte di COGNOME, lo condannava a corrispondere a RAGIONE_SOCIALE la somma prevista a titolo
di penale, pari a euro 341.555,55, oltre interessi legali dalla domanda al saldo, respingendo, di conseguenza, la domanda di condanna del COGNOME alla restituzione delle somme percepite in corso di rapporto a titolo di compenso del patto. Confermava, infine, le restanti statuizioni di merito già adottate dal primo giudice. In particolare, la Corte d’appello, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, riteneva valido il patto di non concorrenza atteso che l’accordo stipulato tra le parti soddisfaceva tutti i requisiti previsti dall’art. 2125 c.c., prevedendo ‘limiti di oggetto (‘ attività professionale presso o a favore di persone, imprese o enti che operano in concorrenza anche solo potenziale con la nostra società, nel settore della produzione, commercializzazione di elettropompe e/o nella produzione e commercializzazione di sistemi di pompaggio per servizi antincendio ‘), di durata (2 anni dalla cessazione del rapporto) e di luogo (territorio nazionale)’. Riteneva, altresì, la validità dell’accordo sotto il profilo dell’onerosità, prevedendo un corrispettivo certo e determinabile ex ante , in quanto quantificabile con il compimento di una semplice operazione matematica, nonché congruo e coerente rispetto alla ragione economico-giuridica del patto e non meramente simbolico, manifestamente iniquo o sproporzionato. Riteneva, poi, infondato il motivo di appello principale svolto dal COGNOME di invalidità del patto in quanto dissimulante in realtà un mero accordo di incremento della retribuzione. Ritenuta, dunque, la genuinità, validità ed operatività del patto, dichiarava la violazione, da parte di COGNOME, degli obblighi con esso assunti e l’obbligo, a carico del trasgressore, di versare ad Aturia quanto previsto dalla clausola penale concordata dalle parti, disattendo al riguardo la richiesta di riduzione, formulata dal COGNOME.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione il COGNOME affidato a sette motivi.
RAGIONE_SOCIALE replica con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso il COGNOME lamenta, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 324 c.p.c. per mancato rilievo dell’esistenza di giudicato interno relativo alla sentenza di primo grado. Deduce il ricorrente che la sentenza di primo grado, nell’affermare la nullità del patto di non concorrenza sotto il profilo dell’indeterminatezza del corrispettivo, aveva, altresì, rilevato il vizio genetico invalidante la pattuizione in punto di compenso, determinato dalla mancata previsione di un minimo garantito e che tale statuizione non era stata fatta oggetto di impugnazione, con la conseguenza che su di essa si è formato un giudicato interno, rilevabile in ogni fase e grado del giudizio e che, rendendo definitiva la pronuncia di primo grado, comporta la nullità del giudizio e della sentenza d’appello.
Con il secondo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata, ex art. 360 n. 3 c.p.c., per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2125 e 1346 c.c., per avere la Corte di Appello di Milano ritenuto valido il patto di non concorrenza sottoscritto tra le parti, nonostante questo avesse un oggetto indeterminato e indeterminabile al momento della sua conclusione, come tale impossibile da legare in rapporto sinallagmatico con il divieto pattuito con il lavoratore, prevedendo il pagamento di un corrispettivo in misura fissa, su base annua, da erogarsi durante il rapporto di lavoro, senza previa determinazione e/o determinabilità della durata del tempo della erogazione (poiché la durata del rapporto di lavoro
era obiettivamente incerta al momento della stipulazione del patto), ed in assenza di un compenso minimo garantito. Deduceva, inoltre, che, contrariamente a quanto rilevato dalla Corte di Appello, il compenso pattuito nel patto di non concorrenza risultava simbolico, manifestamente iniquo e/o sproporzionato a fronte della estensione delle attività inibite al sig. COGNOME per i 24 mesi successivi alla cessazione del contratto – tenuto conto che si trattava del settore di attività nel quale il COGNOME aveva maturato interamente la propria ultratrentennale esperienza lavorativa -e della estensione territoriale dell’obbligo di astensione dalle suddette attività all’intero territorio nazionale.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697, 2727 e 2729 c.c. per aver ritenuto la Corte di Appello di Milano non sussistente la natura retributiva delle somme percepite dal COGNOME a titolo di corrispettivo del patto di non concorrenza che, invece, emergeva in maniera evidente dagli elementi di prova acquisiti nel corso del giudizio ed in particolare, oltre che dalla documentazione prodotta, dalla non contestazione specifica da parte della RAGIONE_SOCIALE della circostanza dedotta al cap. 25 della memoria di costituzione di primo grado (riportata integralmente in nota a pag. 30 del ricorso) ossia che la sottoscrizione del patto di non concorrenza de quo era stata proposta dal RAGIONE_SOCIALE al RAGIONE_SOCIALE, quale ‘giustificativo’ dell’aumento della retribuzione che gli era stato proposto per convincerlo a non rassegnare le dimissioni dal rapporto di lavoro, il tutto anche alla luce del rilievo che, contrariamente a quanto rilevato dalla Corte di Appello, il patto in oggetto non prevedeva nemmeno un termine ed il corrispettivo veniva
erogato mensilmente, in costanza di rapporto, con incidenza sul TFR e assoggettato a contribuzione previdenziale.
Con il quarto motivo di ricorso, ex art. 360 n. 3 il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116, 420 e 421 c.p.c. per non aver la Corte di Appello di Milano dato luogo all’istruzione probatoria per testi da lui richiesta. Lamenta che, non ammettendo le prove testimoniali, la Corte di Appello ha fondato la propria pronuncia su un quadro probatorio parziale e non completo, con violazione del diritto di difesa del ricorrente.
Con il quinto motivo il ricorrente deduce, ex art. 360 n. 5 c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e violazione e/o errata applicazione dell’art. 2125 c.p.c. Deduce che RAGIONE_SOCIALE sin dal primo grado aveva azionato esclusivamente il patto di non concorrenza stipulato il 10 settembre 2008 ai sensi dell’art. 2125 cod. civ. e non il successivo divieto di concorrenza, contenuto nel contratto di prestazione di servizi in data 2 gennaio 2018, il quale, diversamente dal primo, prevedeva l’obbligo di preventiva autorizzazione alla copia, riproduzione e trasmissione a terzi di ‘elenchi, progetti, documenti, corrispondenza o programmi di computer, dati o altro materiale di proprietà della società o di qualsiasi cliente o licenziatario della stessa, o da essa usati ovvero usati da qualsiasi cliente o licenziataria della società RAGIONE_SOCIALE. Ciò premesso, il COGNOME deduce che la Corte è incorsa nel vizio di violazione e/o errata applicazione dell’art. 2125 c.c., per aver preteso, ai fini della valutazione in termini di liceità della condotta concorrenziale, una preventiva autorizzazione non richiesta dalla norma. Sotto un secondo, concorrente, conseguenziale e decisivo profilo, tenuto conto che l’obbligo di autorizzazione preventiva alla comunicazione a terzi non è stato previsto nel patto di non concorrenza ai sensi dell’art. 2125 c.c.,
bensì nel successivo e non azionato contratto di prestazioni di servizi, la Corte è incorsa nel vizio di ultra-petizione, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., attribuendo al ricorrente la violazione di un obbligo inesistente nell’unico patto di non concorrenza azionato dal Gruppo Aturia S.p.A.
Con il sesto motivo si deduce, ex art. 360 n. 5 la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed art. 2125 c.c. per avere la Corte d’Appello di Milano omesso di verificare: 1) che il sig. COGNOME, quando era dipendente di RAGIONE_SOCIALE e senza esplicita autorizzazione, dal 2011 inviava ad Electraimpianti mail contenenti bandi di gara e progetti di RAGIONE_SOCIALE (circostanza riconosciuta, anzi, denunciata da controparte); 2) che, a seguito di queste e-mail, RAGIONE_SOCIALE ed RAGIONE_SOCIALE nel corso degli ultimi dieci anni avevano avuto rapporti commerciali per un importo di circa un milione di euro e che desideravano incentivare la collaborazione; 3) che l’indirizzo e-mail EMAIL era un indirizzo anche dell’ing. COGNOME, dirigente del RAGIONE_SOCIALE, il quale, pertanto, aveva non solo il diritto, ma il dovere di controllarlo. La Corte d’Appello, non considerando tali circostanze, ha affermato la responsabilità del COGNOME per avere agito senza esplicita autorizzazione.
Con il settimo motivo, infine, il ricorrente lamenta, ex art. 360 n. 3 c.p.c, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1384 c.c. per non avere la Corte di Appello di Milano accertato la manifesta sproporzione tra la penale prevista nel patto ed il corrispettivo previsto dallo stesso nonostante fosse evidente lo squilibrio tra la prestazione imposta al sig. COGNOME (un obbligo di non concorrenza di 24 mesi esteso praticamente a tutto il territorio nazionale) e l’ammontare della penale per una eventuale violazione dello stesso.
Preliminarmente deve osservarsi che l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente è infondata, perché il protocollo di intesa richiamato nella memoria della controricorrente, di per sé non è vincolante ai fini del giudizio di ammissibilità o meno dell’impugnazione. Va, in ogni caso, osservato che, se è senz’altro vero che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c., tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (così Cass. Sez. Un. n. 37552 del 30/11/2021 (Rv. 662971 – 01).
8.1. Nella specie benché il ricorso sia articolato in oltre 60 pagine, il testo complessivo, pur caratterizzato da una eccessiva e non necessaria lunghezza e da una certa farraginosità dell’esposizione, consente di comprendere lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza le censure rivolte alla sentenza impugnata.
Ciò posto, il primo motivo di ricorso è infondato. In tema di appello, la mancata impugnazione di una o più affermazioni contenute nella sentenza può dare luogo alla formazione del
giudicato interno soltanto se le stesse siano configurabili come capi completamente autonomi, risolutivi di questioni controverse che, dotate di propria individualità ed autonomia, integrino una decisione del tutto indipendente, e non anche quando si tratti di mere argomentazioni, oppure della valutazione di presupposti necessari di fatto che, unitamente agli altri, concorrano a formare un capo unico della decisione ( ex multis Cass. n. 27246 del 21/10/2024 (Rv. 672542 – 01). Il giudicato interno, infatti, non si determina sul fatto ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicché l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (in tal senso, tra le più recenti, cfr. Cass. n. 30728/2022, Rv. 666050 – 01).
9.1. Nel caso di specie, la decisione di primo grado ha affermato la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza quantitativa e qualitativa del corrispettivo pattuito e, in questo ambito, ha rilevato, altresì, la mancanza previsione di un minimo garantito, sottolineando come tale indeterminatezza impedisse ogni valutazione in termini di adeguatezza (congruità) del compenso pattuito. A fronte di tale decisione l’appellante correttamente può limitarsi a contestare che il corrispettivo fosse affetto da indeterminatezza, non rivestendo alcuna autonomia la circostanza della mancata previsione di un minimo garantito. (cfr Cass. n. 48/2022, Rv. 663479 – 01).
10. Il secondo motivo è inammissibile in quanto la decisione non appare frutto di errata interpretazione circa il significato e la portata applicativa delle norme delle quali viene denunziata violazione e falsa applicazione, né parte ricorrente, come prescritto al fine della valida censura della decisione, indica le affermazioni in diritto della sentenza impugnata in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (v. fra le altre, Cass. Sez. Un. n. 23745/2020, Cass. n. 17570/2020, Cass. n. 16038/2010). In realtà le ragioni di doglianza, per come concretamente articolate con il motivo in esame, investono direttamente la valutazione del giudice di merito in punto di compatibilità del vincolo assunto con la necessità di non compromettere la possibilità del lavoratore di assicurarsi un guadagno idoneo alle esigenze di vita e di congruità del corrispettivo pattuito e di determinatezza dello stesso. Valutazioni che costituiscono oggetto di apprezzamento riservato al giudice del merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (Cass. n. 7835/2006, Rv. 588524-01; Cass. n. 13358/2022; Cass. n. 23418/2021), dovendo a riguardo osservarsi che per i giudizi, come il presente, ai quali si applica ratione temporis il vigente art. 360, n. 5 c.p.c. (derivante dalla modifica di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) – che ha molto limitato l’ambito di applicabilità del controllo di legittimità sulla motivazione -il vizio della motivazione non costituisce più ragione cassatoria ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto la motivazione del tutto mancante, ovvero affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili, oppure se in essa
si riscontri l’omesso esame di un fatto storico decisivo, con la conseguente riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione (vedi per tutte: Cass. Sez. Un. n. 8053/2014, Cass. Sez. Un. n. 19881/2014,; Cass. n. 12928/2014). Le suddette evenienze qui non si verificano, sicché la relativa censura risulta inammissibile.
10.1. La Corte d’appello ha, infatti, in primo luogo, proceduto alla ricognizione del patto di non concorrenza, evidenziando che lo stesso rispettava il requisito di forma scritta prescritto dall’art. 2125 c.c., prevedeva un impegno del COGNOME, dopo la risoluzione del rapporto, a non svolgere ‘ attività professionale presso o a favore di persone, imprese o enti che operano in concorrenza anche solo potenziale con la nostra società, nel settore della produzione, commercializzazione di elettropompe e/o nella produzione e commercializzazione di sistemi di pompaggio per servizi antincendio’ , per la durata di 2 anni su tutto il territorio nazionale, ricevendo durante il rapporto un corrispettivo annuo di euro 12.000,00 lordi, versati con importo fisso mensile per 12 mensilità. Al fine, poi, di verificare se il corrispettivo fosse determinabile, ha precisato che l’importo era facilmente determinabile con una semplice operazione matematica ed il fatto che il compenso fosse stato previsto in costanza di rapporto e destinato ad aumentare con la durata dello stesso, meglio contemperava gli interessi di entrambe le parti posto che una più lunga permanenza in un posto di lavoro specializzante poteva rendere più difficile una nuova collocazione sul mercato e fosse, quindi, idoneo a compensare il maggior sacrificio rispetto ad un rapporto di breve durata.
10.2. In ogni caso, la Corte territoriale ha aggiunto che il compenso era altresì congruo alla luce delle limitate attività professionali inibite sul territorio nazionale, tenuto conto che il
COGNOME ha percepito, a titolo di corrispettivo per il patto di non concorrenza, la complessiva somma di € 106.000 corrispondente ad una RAL al termine del rapporto.
10.3. L’esame dei giudici di seconde cure è stato, pertanto, completo, esaustivo, logico e corretto giuridicamente, in relazione alle doglianze sottoposte in appello.
I motivi terzo e quarto, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto parzialmente sovrapponibili, non sono suscettibili di accoglimento in quanto le censure in cui si articolano sono in parte inammissibili, poiché investono unicamente e direttamente la valutazione degli elementi di prova, non suscettibile di riesame in sede di legittimità se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., nella specie neanche invocato (si vd. Cass. n. 21283 del 2024), ed in parte infondate.
11.1. Per quanto attiene la lamentata violazione dell’art. 115 c.p.c., anche a voler prescindere dal mancato rispetto del principio di autosufficienza – il quale impone che ove venga dedotta la violazione del principio di non contestazione il ricorrente deve indicare sia la sede processuale in cui sono state dedotte le tesi ribadite o lamentate come disattese, inserendo nell’atto la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi, sia, specificamente, il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori scritti difensivi, in modo da consentire alla Corte di valutare la sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115 c.p.c. (Cass. n. 15058/2024, Rv. 671191-01) -deve rilevarsi che l’accertamento della sussistenza di una contestazione, ovvero di una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto di parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione
solo per vizio di motivazione (Cass. n. 27490/2019). Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto, con articolata motivazione, che la RAGIONE_SOCIALE avesse sin dal primo grado contestato ‘ la ricostruzione dei fatti avversaria, con particolare ma non esclusivo riferimento ad alcuni punti della memoria di COGNOME ‘ ed ha, dunque, escluso che la natura simulata del patto – in quanto dissimulante un mero accordo di incremento della retribuzione – fosse pacifica.
11.2. Va, peraltro, sottolineato che l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito non è, in questa sede, sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116, c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (cfr. Cass. n. 27000/2016, Rv. 642299). Questa Corte a Sezioni Unite ha, infatti, chiarito (sent. n. 20867 del 30/09/2020, conf. Cass. n. 16016/2021), che in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di
legittimità sui vizi di motivazione e dunque solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati dalle stesse Sezioni unite (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014, n. 34474 del 2019, n. 20867 del 2020).
11.3. Neppure è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 2697 c.c., che si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia (in tesi) errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cpc (Cass. n. 19064 del 2006; Cass. n. 2935 del 2006).
11.4. Non ricorre, poi, la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., dovendosi precisare che spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (v. Cass. n. 10847 del 2007; n. 24028 del 2009; n. 21961 del 2010). Va quindi escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne
discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; n. 26022 del 2011; n. 12002 del 2017; n. 6838 del 2023).
11.5. Per quanto, poi, attiene al motivo di censura relativo alla mancata ammissione di mezzi istruttori, va evidenziato che il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è censurabile con ricorso per cassazione per violazione del diritto alla prova, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. allorquando il giudice di merito rilevi preclusioni o decadenze insussistenti ovvero affermi l’inammissibilità del mezzo di prova per motivi che prescindano da una valutazione della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite, nonché per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso che non illustri la decisività del mezzo di prova di cui si lamenta la mancata ammissione (Cass. n. 30810/2023, Rv. 669452-01). Nel caso di specie, la Corte d’appello ha motivatamente escluso la rilevanza della prova testimoniale articolata, in quanto, per un verso, inidonea, in relazione al quadro probatorio già acquisito, ‘ a far ritenere che alla sottoscrizione del patto di non concorrenza (certo comportante nell’immediato anche un aumento delle entrate del lavoratore) fosse concordemente e inequivocabilmente sottesa una concorde volontà delle parti di escluderne qualsivoglia altra efficacia e funzione che non fosse quella di mascherare un aumento retributivo. Altrimenti detto: anche ammettendo che alla stipula del patto si sia giunti all’esito della rivendicazione salariale di COGNOME e per assecondare in qualche modo detta rivendicazione, l’eventuale esistenza di una comune intenzione delle parti di giungere alla corresponsione immediata di un compenso aggiuntivo non è di per sé sufficiente a far desumere l’esistenza di una altrettanto comune e univoca
intenzione delle parti di reputare tamquam non esset il patto di non concorrenza. Ciò tanto più in presenza della prova dell’esistenza di un genuino interesse alla stipulazione del patto in capo ad Aturia; in presenza di un articolato documento scritto; in assenza di significativi e ulteriori elementi probatori offerti da COGNOME a supporto delle proprie tesi ‘ e, per altro verso, in quanto la testimonianza de relato richiesta dal COGNOME sarebbe risultata, in ogni caso, poco significativa su quale fosse la effettiva comune intenzione delle parti. È, dunque, inammissibile la critica espressamente rivolta al motivato giudizio di irrilevanza, sull’assunto – uguale e contrario a quello formulato dal giudice del merito – dell’idoneità delle prove dedotte a dimostrare i fatti posti a fondamento della domanda proposta in giudizio (Cass. 06/11/2023, n. 30810).
12. Il quinto ed il sesto motivo sono palesemente inammissibili. In primo luogo, ci si trova di fronte a motivi c.d. ‘misti’ deducendosi sia l’omesso esame di fatto decisivo sia la violazione o falsa applicazione di legge – con conseguente applicazione del principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, e ciò in quanto una simile formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 23/10/2018; Cass. n. 7009 del
17/03/2017; Cass. n. 21611 del 20/09/2013; Cass. n. 19443 del 23/09/2011).
12.1. In secondo luogo, le doglianze svolte sono inammissibili in quanto, a fronte della formulata denunzia di violazione di norme di diritto, esse in realtà si sostanziano nella mera richiesta di un diverso accertamento del fatto operato dalla corte d’appello, in tal modo involgendosi un’indagine non rientrante però nei limiti strutturali e funzionali del giudizio di cassazione.
12.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., va ulteriormente osservato che il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (” petitum ” e ” causa petendi “), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti (Cass. n. 17897/2019, Rv. 654734-01). Il dovere imposto al giudice di non pronunciare oltre i limiti della domanda, né di pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti, non comporta, invece, l’obbligo di attenersi all’interpretazione prospettata dalle parti in ordine ai fatti, agli atti ed ai negozi giuridici posti a base delle loro domande ed eccezioni, essendo la valutazione degli elementi documentali e processuali, necessaria per la decisione, pur sempre devoluta al giudice, indipendentemente dalle opinioni, ancorché concordi, espresse in proposito dai contendenti (Cass. n. 16608/2021, Rv. 661686 – 01). Al riguardo non è configurabile un vizio di ultrapetizione, atteso che, come correttamente rilevato anche dalla controricorrente, la sentenza impugnata, ove fa riferimento alla insussistenza di una preventiva autorizzazione da parte
datoriale in ordine alla diffusione di documenti riservati, lungi dal pronunciare ultra petita , non fa altro che esaminare le contrapposte deduzioni delle parti circa l’esistenza di un preteso accordo commerciale tra RAGIONE_SOCIALE che avrebbe, secondo le tesi dello stesso COGNOME, giustificato la diffusione da parte del ricorrente di bandi di gara, dati e materiale aziendale ad un’azienda concorrente.
12.3. Quanto, infine, alla censura ex art. 360 n. 5 c.p.c., è inammissibile, muovendosi essa al di fuori del paradigma dettato dalla citata norma. Secondo la lettura data dalle Sezioni Unite, ‘L’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6, e art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il ‘fatto storico’, il cui esame sia stato omesso, il ‘dato’, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il ‘come’ e il ‘quando’ tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua ‘decisività’, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie’. Questa Corte ha, altresì, precisato che l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deve intendersi riferito a un preciso accadimento
o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (Cass. n. 22397/2019; Cass. n. 26305/2018; Cass. n. 14802/2017), ed inoltre, che il motivo di ricorso di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. deve riguardare un fatto storico, considerato nella sua oggettiva esistenza, senza che possano considerarsi tali né le singole questioni giuridiche decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, né le singole risultanze istruttorie, ove risulti comunque un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio (Cass. n. 10525/2022; Cass. n. 17761/2016; Cass. n. 5795/2017).
12.4. In nessun punto dei motivi in scrutinio risultano chiaramente evidenziati ‘fatti’ intesi nel senso precisato dalla giurisprudenza di legittimità sopra ricordata, il cui esame sarebbe stato omesso, né tantomeno risulta esplicitato il carattere ‘decisivo’ degli stessi.
Il settimo motivo è, del pari, inammissibile. Va, infatti, precisato che l’apprezzamento in ordine alla eccessività dell’importo fissato con la clausola penale dalle parti contraenti, per il caso di violazione del patto di non concorrenza, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui giudizio è incensurabile in sede di legittimità, se correttamente basato sulla valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento con riguardo all’effettiva incidenza dello stesso sull’equilibrio delle prestazioni e sulla concreta situazione contrattuale, indipendentemente da una rigida ed esclusiva correlazione con
l’entità del danno subito (Cass. n. 7528 del 2002). Nel caso in esame la Corte ha specificamente effettuato tale valutazione laddove ha richiamato l’interesse del creditore all’adempimento ‘ comprovato dal tenore del contratto di consulenza stipulato successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro subordinato, che conteneva clausole analoghe. La stessa stipula del contratto di consulenza conferma peraltro l’importanza attribuita da COGNOME alle competenze e conoscenze acquisite da COGNOME nel settore, il cui utilizzo era reputato proficuo anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro dipendente’ anche alla luce dell’ammontare del compenso erogato a COGNOME, e il possibile pregiudizio derivante dallo svolgimento di attività concorrenziali, valorizzando il valore economico delle commesse gestite dall’odierno ricorrente. Tale valutazione, propria del giudice di merito, in ragione di quanto sopra osservato rende le doglianze articolate inidonee alla valida censura della decisione.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso
condanna il ricorrente COGNOME NOME al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 8.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della