Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 24584 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 24584 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 5323/2020 r.g. proposto da:
CONSORZIO RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale rilasciata in calce al ricorso, elettivamente domiciliato in Roma, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, INDIRIZZO
-ricorrente-
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al controricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati;
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Brescia n. 1729/2019, depositata il 28/11/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9/7/ 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Il 18/7/2006 la società RAGIONE_SOCIALE indiceva gara per licitazione privata al fine di realizzare due nuovi padiglioni espositivi.
I lavori venivano aggiudicati al Consorzio RAGIONE_SOCIALE con consegna il 28/8/2006.
I lavori venivano sospesi il 18/9/2006, in quanto la società Cremona RAGIONE_SOCIALE doveva organizzare la Fiera internazionale del bovino.
In realtà, negli accordi contrattuali, la sospensione dei lavori per l’organizzazione di fiere era stata preventivata solo a decorrere dal 6/10/2006.
Il Consorzio RAGIONE_SOCIALE si scioglieva dal contratto il 27/11/2006.
Il verbale di consistenza dei lavori veniva redatto l’8/1/2007.
La committente riconosceva per i lavori già eseguiti solo la somma di euro 9.507,50.
Con lettera del 15/3/2007 il RAGIONE_SOCIALE chiedeva, con riferimento ai lavori già eseguiti, oltre al risarcimento dei danni, la somma di euro 259.573,67.
Il 5/3/2007 il Consorzio RAGIONE_SOCIALE presentava istanza di accordo bonario.
Il procedimento non giungeva compimento.
La società RAGIONE_SOCIALE accettava la risoluzione del contratto con lettera del 5/4/2007.
La domanda giudiziale del Consorzio veniva presentata il 18/6/ 2007, a distanza di oltre 60 giorni dalla ricezione della lettera del 5/4/2007.
Il Tribunale di Cremona, con sentenza del 10/7/2012, dichiarava improcedibile la domanda proposta dal Consorzio Stabile RAGIONE_SOCIALE per la decadenza dal termine di cui all’art. 33 del decreto ministeriale n. 145 del 2000.
Ai sensi dell’art. 33 citato, il termine di decadenza per la proposizione della domanda giudiziale decorreva: dalla comunicazione di cui all’art. 149, comma 3, del d.P.R. n. 554 del 1999 (accordo bonario), dalla determinazione prevista dai commi 1 e 2 del D.M. n. 145 del 2000 oppure dalla scadenza dei termini previsti dagli stessi commi 1 e 2.
Il Tribunale chiariva che non si erano verificate le prime due ipotesi, in quanto non era stato raggiunto l’accordo bonario e neppure vi era stato il collaudo delle opere.
Il termine doveva essere computato dal ricevimento da parte del Consorzio RAGIONE_SOCIALE della determinazione della società Cremona RAGIONE_SOCIALE che costituiva atto formale di risposta all’istanza di cui all’art. 32, comma 2, del D.M. n. 145 del 2000.
Il dies a quo doveva, quindi, essere individuato nella data del 2/ 4/2007, con la conseguente improcedibilità della domanda proposta solo in data 18/6/2007, a fronte del termine finale da considerarsi scaduto in data 1/6/2007.
Avverso tale sentenza proponeva appello il Consorzio RAGIONE_SOCIALE deducendo: la violazione degli articoli 2 e 3 della legge n. 109 del 1994 e l’inapplicabilità del D.M. n. 145 del 2000, in quanto la società RAGIONE_SOCIALE era soggetto di natura privatistica, non potendosi configurare quale organismo di diritto pubblico; la violazione dell’art. 1341 c.c., non rilevando il generico richiamo operato dall’art. 6 del contratto d’appalto al D.M. n. 145 del 2000; l’inapplicabilità degli artt. 32 e 33 del D.M. n. 145 del 2000 per omessa tenuta di contabilità da parte del direttore dei lavori, non essendo possibile
apporre la riserva formulata dall’appaltatore; la violazione degli artt. 31bis e 32 della legge n. 109 del 1994, a seguito della intervenuta abrogazione degli artt. 32 e 33 del D.M. 145 del 2000 (il nuovo art. 31bis della legge n. 109 del 1994 aveva determinato l’abrogazione implicita del termine di decadenza di 60 giorni di cui all’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000).
La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 1729/2019, pubblicata il 28/11/2019, rigettava l’appello.
5.1. In particolare, reputava applicabile la normativa in materia di lavori pubblici, in quanto la società Cremona RAGIONE_SOCIALE doveva essere considerata stazione appaltante, emergendo dall’art. 3 dello statuto indici specifici volti ad individuare la natura pubblicistica dell’ente: l’assoggettamento a controlli pubblici, l’ingerenza del potere pubblico nella nomina o revoca di dirigenti, l’esercizio di un potere di direttiva da parte di altra Pubblica Amministrazione.
5.2. Il termine di decadenza per l’azione dinanzi al giudice ordinario doveva essere individuato ai sensi dell’art. 33 del D.M. n. 145 del 2001.
Non era applicabile l’art. 1341 c.c., norma relativa alla predisposizione da parte del contraente di clausole vessatorie nei confronti della controparte, trattandosi nella specie di disciplina normativa di carattere regolamentare, e non di produzione pattizia, trovando applicazione il D.M. 145 del 2001.
Era irrilevante il riferimento agli artt. 31bis e 32 della legge n. 109 del 1994, in quanto attinenti a specifiche procedure di composizione delle controversie, in concreto non esperite.
Il termine fissato dall’art. 33 del D.M. n. 145 del 2001 per la proposizione della domanda giudiziale decorreva dal ricevimento della comunicazione relativa all’accordo bonario o dall’effettuazione
del collaudo al termine dei lavori, ma tali ipotesi non si erano verificate nella specie.
Il Tribunale aveva individuato un atto ad essi equipollente, prendendo in considerazione la corrispondenza intercorsa tra le parti in ordine allo scioglimento del rapporto contrattuale ed alla conseguente determinazione del quantum residuo in favore del consorzio appaltatore.
Il Tribunale aveva preso in considerazione la lettera in data 26/3/ 2007, notificata il 5/4/2007, con cui la società RAGIONE_SOCIALE aveva accettato la risoluzione del contratto, pur respingendo le richieste economiche del Consorzio RAGIONE_SOCIALE
Tale comunicazione si sostanziava in un espresso diniego della richiesta, sicché poteva essere considerata, come correttamente stabilito dal primo giudice, «quale atto definitivo a partire dal quale doveva intendersi avviato il periodo temporale consentito all’appaltatore, sotto pena di decadenza, per l’esercizio delle facoltà spettantigli per legge».
La determinazione da parte della società committente Cremona RAGIONE_SOCIALE doveva ritenersi equiparabile, sul piano funzionale, «alla comunicazione effettuata da parte della stazione appaltante nell’ambito del procedimento volto all’accordo bonario».
In entrambi i casi l’appaltatore formulava la propria contestazione a cui faceva seguito la risposta da parte della stazione appaltante.
Una volta individuato nella predetta lettera l’atto definitivo della fase pre-contenziosa, a partire dal quale decorreva il termine di decadenza, le comunicazioni successive non potevano più assumere alcuna rilevanza ai fini della decadenza.
Il Consorzio RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto far valere le proprie pretese in giudizio «nel termine di 90 giorni a decorrere dalla
notifica avvenuta il 5/4/2007», mentre aveva proceduto a notificare l’atto di citazione solo in data 18/6/2007, dunque fuori termine.
5.3. La Corte territoriale reputava le domande del Consorzio RAGIONE_SOCIALE non fondate anche nel merito.
Doveva ritenersi legittima la sospensione dei lavori, ai sensi dello art. 7 del contratto stipulato tra le parti, il quale stabiliva che l’appaltatore doveva operare «all’interno del Quartiere Fieristico di Cremona, con tutte le soggezioni e i vincoli derivanti dalle attività del Committente».
L’appaltatore, dunque, una volta accettata tale convenzione, aveva intrapreso i lavori ben sapendo che l’Amministrazione avrebbe potuto a sua discrezione disporre la sospensione in ragione di eventi da organizzarsi nello spazio previsto per Cremona Fiere.
Tra l’altro era stato tempestivamente redatto il verbale di sospensione dei lavori, nel rispetto della normativa di settore.
Inoltre, vi era stata la richiesta dell’appaltatore di procedere allo scioglimento del contratto, nei termini di cui all’art. 24 del capitolato generale, con conseguente rinuncia irrevocabile a qualsiasi indennità.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Consorzio RAGIONE_SOCIALE depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso la società Cremona RAGIONE_SOCIALE, depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce «art. 360, primo comma, numeri 3 e 5 c.p.c., in relazione agli articoli 115 e 116 c.p.c. – Violazione e falsa applicazione di legge – Difetto di motivazione – Motivazione apparente».
La Corte d’appello non avrebbe tenuto conto della circostanza che la società Cremona RAGIONE_SOCIALE era «successore dell’Ente Autonomo manifestazioni fieristiche di Cremona, a seguito dei processi di privatizzazione ex L. 7/2001».
Pertanto, la società RAGIONE_SOCIALE ha adottato un nuovo statuto, ai sensi del d.lgs. n. 6 del 2003, «sostanzialmente diverso dal precedente, registrato il 22/12/1997».
Proprio in tale mutata veste la società committente ha pubblicato il bando per licitazione privata.
L’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale sarebbe rinvenibile nel non aver considerato che «lo Statuto allegato agli atti del giudizio, rinvenibile al punto 5) della produzione in appello, è relativo all’Ente Autonomo RAGIONE_SOCIALE Cremona che, come già evidenziato, era ente pubblico economico».
La Corte d’appello non si è avveduta delle modifiche apportate allo statuto «evidenziate e rinvenibili nella visura ordinaria».
Di qui l’errata convinzione che la società RAGIONE_SOCIALE potesse, in virtù della (inesistente) natura pubblicistica del (vecchio) Ente autonomo, essere considerata stazione appaltante e, dunque, soggetta alla disciplina pubblicistica in materia di lavori pubblici.
Con il secondo motivo di impugnazione si deduce «art. 360, primo comma, numeri 3 e 5 c.p.c. (art. 2697 c.c.) – Violazione e falsa applicazione di legge – Omessa, insufficiente motivazione su un punto decisivo del giudizio».
Il ricorrente ha prodotto in giudizio la visura di Cremona RAGIONE_SOCIALE da cui emergono gli elementi a dimostrazione del mutato assetto organizzativo.
In particolare, nella sezione «attività, albi, ruoli e licenze» si prevederebbe «lo svolgimento, in regime di diritto privato, di ogni attività diretta all’organizzazione di manifestazioni fieristiche»; nella se-
zione «Sindaci, membri, organi di controllo», non vi sarebbe alcun riferimento alla nomina di membri riservata al Comune, alla Provincia o alla Camera di Commercio di Cremona; non vi sarebbe traccia di ingerenza del potere pubblico nella nomina o revoca dei dirigenti.
La Corte d’appello avrebbe utilizzato, per la verifica della ricorrenza dei presupposti per l’applicazione della normativa sui contratti pubblici, uno statuto relativo ad un ente non più esistente.
Di qui l’apparenza della motivazione resa dalla Corte territoriale.
Con il terzo motivo di impugnazione si lamenta «art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – Violazione e falsa applicazione di legge – Direttiva 2014/24/UE – Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE – Art. 3, comma 1, lett. d), d.lgs. 50/2016, che ha sostituito la disposizione, perfettamente sovrapponibile, dell’art. 3, comma 23, d.lgs. n. 163/2006».
La normativa vigente all’epoca della pubblicazione del bando (18/ 7/2006) è il d.lgs. n. 163 del 2006, entrato in vigore l’1/7/2006.
Sono organismi di diritto pubblico, ossia società private cui si applica la disciplina dei contratti pubblici, solo i soggetti istituiti allo scopo specifico di soddisfare interessi di carattere generale, aventi però carattere non industriale e commerciale.
Sono organismi di diritto pubblico anche quelli che operano in un regime di concorrenza.
Ai fini del riconoscimento della natura di organismo di diritto pubblico, deve aversi riguardo: al tipo di attività svolta dalla società; allo accertamento che tale attività sia rivolta alla realizzazione di un interesse generale; la società deve lasciarsi guidare da considerazioni diverse da quelle economiche; la società non deve fondare la propria attività principale su criteri di rendimento, efficacia e redditività, senza assumere i rischi collegati allo svolgimento di tale attività.
Con riferimento ad ente fieristico si è già pronunciata la Corte di giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 10/5/2001, C-223/ 99 e C-260/99, RAGIONE_SOCIALE, reputandolo società privata, in quanto ai sensi dell’art. 1 del proprio statuto, l’attività veniva svolta in base a criteri di rendimento, di efficacia e di redditività, non essendo previsto alcun meccanismo per compensare eventuali perdite finanziarie.
Tale ente sopportava il rischio economico della nuova attività, agendo in ambito concorrenziale.
L’ente fieristico, dunque, per essere ritenuto organismo di diritto pubblico, nel perseguire l’interesse pubblico, deve agire senza essere soggetto alle regole di mercato, «e quindi senza che possa ritenersi esercitata dallo stesso attività di carattere commerciale».
Dalla visura in atti, invece, emergerebbe che la società svolgerebbe in regime di diritto privato ogni attività diretta all’organizzazione di manifestazioni fieristiche.
Tale oggetto sociale sarebbe caratterizzato dal carattere commerciale e concorrenziale dell’attività.
Quanto allo scopo di lucro, invece, tale elemento dovrebbe essere dimostrato dalla controparte.
Non vi sarebbero peraltro previsioni statutarie di ripianamento delle perdite mediante afflusso di capitali provenienti da enti pubblici.
Una volta dimostrato il carattere commerciale dell’attività, non vi sarebbe necessità di dimostrare la sussistenza degli ulteriori due requisiti necessari per caratterizzare l’organismo di diritto pubblico.
Con il quarto motivo di impugnazione si deduce «Art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c. – Violazione di legge ex art. 1341 c.c., in relazione all’art. 33 D.M. 145/2000 ed omessa valutazione di un fatto decisivo».
La natura della società RAGIONE_SOCIALE, quale ente di natura privatistica, esclude l’applicazione delle regole dei contratti pubblici,
con conseguente piena operatività del meccanismo di approvazione specifica ex art. 1341 c.c. delle clausole vessatorie.
L’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 non è stato mai oggetto di espressa menzione del contratto, nonché di specifica approvazione.
Sarebbe del tutto inidonea «l’indiscriminata e meramente formale approvazione in calce al contratto», a nulla valendo «il generico richiamo all’intero D.M. 145/2000 effettuato all’art. 6 del Contratto appalto».
Il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto o di gran parte di esse, comprese quelle prive di carattere vessatorio, e la sottoscrizione indiscriminata, sia pure sotto l’elencazione delle stesse, non determina la validità ed efficacia ex art. 1341 c.c.
Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta «Art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c., in relazione all’art. 113 – Artt. 32 e 33 D.M. 145/2000 – Violazione e falsa applicazione di legge».
La Corte d’appello ha dato per certa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 33 del D.M. 145/2000, mentre tale norma «deve ritenersi abrogata».
L’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 è stato infatti svuotato di ogni effetto a seguito dell’abrogazione dell’art. 32 del medesimo D.M., indicante i capisaldi di decorrenza dei termini di decadenza, ad opera del d.lgs. n. 163 del 2006 (art. 256).
Le intervenute modifiche legislative del sistema dell’accordo bonario, introdotto dalla legge n. 109 del 1944, avrebbero fatto ritenere superata ed inapplicabile «una disciplina di rango legislativo inferiore», neppure aggiornata in base all’evoluzione normativa.
Inoltre, l’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, che disciplina il procedimento di accordo bonario, non sarebbe coordinato con le disposizioni del capitolato generale di cui al D.M. n. 145 del 2000.
In base alla nuova disciplina, il responsabile del procedimento, al ricorrere di determinati presupposti economici, è tenuto ad attivare la procedura di bonario componimento delle riserve, promuovendo la nomina di una commissione.
Inoltre, la costituzione della commissione è prevista anche indipendentemente dall’importo economico delle riserve, al momento del ricevimento del certificato di collaudo o di regolare esecuzione di cui all’art. 28, ai sensi dell’art. 31bis , comma 1, quinto periodo, della legge n. 109 del 1994.
Il nuovo art. 31bis della legge n. 109 del 1994 altererebbe l’intero assetto della materia, attribuendo all’accordo bonario la natura di mezzo di risoluzione «di tutte le riserve, indipendentemente dal loro valore, anche se con diversa cadenza temporale».
Verrebbe a vanificarsi la disciplina degli artt. 32 e 33 del capitolato, oltre che dell’intero sistema ordinatorio di risoluzione delle riserve.
Sarebbero superate le ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 33 del capitolato, in quanto il novellato art. 31bis disciplina un sistema completamente diverso.
Pure superata sarebbe l’ipotesi di cui all’art. 32 comma 1, richiamata dall’art. 33 del capitolato, in quanto disciplinata in maniera totalmente diversa dall’art. 31bis della legge n. 109 del 1994.
La Corte territoriale ha completamente pretermesso la contestazione sull’intervenuta abrogazione dell’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000.
6. Con il sesto motivo di impugnazione si deduce «Art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in relazione agli articoli 32 e 33 D.M. 145/2000».
Il ricorrente precisa che non è stata attivata la procedura di accordo bonario, sicché non risulta applicabile il termine di cui all’art. 32, comma 1, del D.M. n. 145 del 2000.
Le decorrenze di cui all’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000 sono due: le riserve e le pretese dell’appaltatore che, in ragione del valore o del tempo di insorgenza non sono state oggetto della procedura di accordo bonario di cui all’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, sono esaminate e valutate dalla stazione appaltante entro 90 giorni dalla trasmissione degli atti di collaudo; qualora siano decorsi i termini previsti dall’art. 28 senza che la stazione appaltante abbia effettuato il collaudo o senza che sia stato emesso il certificato di regolare esecuzione dei lavori, l’appaltatore può chiedere che siano comunque definite le proprie riserve e richieste notificando apposita istanza. La stazione appaltante deve in tal caso pronunziarsi entro i successivi 90 giorni.
Nella specie, però, la stazione appaltante non ha mai presentato e neppure fatto prendere visione di questo registro al Consorzio RAGIONE_SOCIALE
Pertanto, il Consorzio RAGIONE_SOCIALE non è stato in grado di annotare in tale registro le proprie riserve.
Nel caso di specie, in cui non vi è stato il collaudo, entro i termini di cui all’art. 28 della legge n. 109 del 1994 (non oltre 6 mesi dall’ultimazione dei lavori) si procede a chiedere la definizione delle riserve, con obbligo di determinazione, in capo alla stazione appaltante, entro i successivi 90 giorni.
V’è stata dunque violazione di legge, in quanto, in assenza di avvio della procedura di accordo bonario, ed in assenza di collaudo, si applica il comma 2 dell’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000.
L’ultimazione dei lavori non può che farsi coincidere con il momento in cui l’appaltatore ha manifestato la volontà di sciogliere il contratto per inadempimento, quindi il 14/2/2007.
In data 18/6/2007 si è proceduto alla notifica dell’atto di citazione, ben prima dello spirare del termine di sei mesi previsto dalla norma.
Con il settimo motivo di impugnazione il ricorrente deduce «Art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – Insussistenza di uno dei requisiti posti dall’art. 132 c.p.c. e dall’art. 118 disposizioni di attuazione c.p.c. – Omessa/apparente motivazione».
La Corte territoriale avrebbe fatto applicazione dell’art. 7 del contratto stipulato dalle parti, al fine di verificare la legittimità della sospensione dei lavori, facendo applicazione «di una non meglio precisata normativa di settore».
Si sarebbe dunque in presenza di una motivazione apparente.
Con l’ottavo motivo di impugnazione si lamenta «Art. 360, primo comma, numeri 3 e 5, c.p.c. – Violazione di legge, art. 1362 e seguenti – Motivazione apparente – Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti».
L’interprete non può limitarsi al senso letterale delle parole, ma deve indagare quale sia la comune intenzione dei contraenti, anche tramite il loro comportamento successivo.
La Corte d’appello avrebbe dovuto, in primo luogo, prendere in esame l’intero periodo di cui all’art. 7 del contratto richiamato, e non solo una porzione.
L’art. 7 del contratto prevedeva, dunque, che l’appaltatore fosse a conoscenza delle circostanze particolari dell’appalto, tra le quali quella di «operare all’interno del Quartiere Fieristico» ma con l’aggiunta «secondo i tempi ed il calendario delle manifestazioni».
Pertanto, occorreva tenere conto delle necessità dell’ente, ma nei limiti del calendario.
Nella specie, invece, l’ente committente, pur avendo programmato la sospensione dei lavori tra il 6 ed il 29 ottobre 2006, per consentire lo svolgimento della Fiera Internazionale del bovino, quale attività prevista dal calendario, tuttavia ha imposto una anticipazione della sospensione nel settembre del 2006.
La Corte territoriale non avrebbe fatto buon governo delle regole di ermeneutica contrattuale.
Con il nono motivo di impugnazione si deduce «Art. 360, primo comma, numeri e e 5, c.p.c. – Direttiva 2014/24/UE – Direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE – Art. 3, comma 1, lettera d), d.lgs. 50/2016, che ha sostituito la disposizione, perfettamente sovrapponibile, dell’art. 3, comma 23, d.lgs. 163/2006 – Motivazione apparente – Omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti».
La Corte d’appello ha ritenuto che la richiesta dell’appaltatore di procedere allo scioglimento del contratto, nei termini di cui all’art. 24 del capitolato generale, avrebbe determinato la rinuncia irrevocabile a qualsiasi indennità.
In realtà, per il ricorrente, non può farsi applicazione della normativa regolamentare in materia di appalti pubblici, avendo agito la società RAGIONE_SOCIALE in veste meramente privatistica e non quale organismo di diritto pubblico.
I motivi primo, secondo, terzo, quarto, e nono, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono inammissibili.
10.1. La qualifica di organismo di diritto pubblico viene utilizzata per uno scopo preciso, che consente di apprezzarne la ratio : assoggettare una categoria di soggetti formalmente privati all’applicazione
della disciplina relativa alle procedure a evidenza pubblica per l’affidamento di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
Di qui anche la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo in materia di affidamento di appalti pubblici, ex art. 133, comma 1, lettera e), n. 1, c.p.c.
Per tale ragione, al di là del mero schermo formale rappresentato dalla forma giuridica e dalla struttura dei vari soggetti, facendosi riferimento alla tipologia societaria, è stata posta maggiore attenzione alla sostanza dei rapporti e delle relazioni organizzative funzionali che legano tali soggetti ad Amministrazioni.
Per la dottrina, si denota un approccio sotteso alla tutela del valore pro-concorrenziale che vanifica la creazione di figure soggettive solo formalmente private, che facciano da schermo rispetto all’applicazione della normativa in materia di appalti pubblici.
In tal modo, anche una società strutturata nella tipologia di cui al codice civile, ove ricorrano determinati requisiti, deve utilizzare le norme dell’evidenza pubblica al momento dell’indizione di gare di appalto o di concessione.
11. La qualifica di organismo di diritto pubblico, all’interno del nostro ordinamento, spetta a tutti i soggetti che sono in possesso dei requisiti prescritti dal codice dei contratti pubblici, e segnatamente, con riferimento al d.lgs. n. 50 del 2016, dall’art. 3, comma 1, lettera d), entrato in vigore l’1/7/2016: 1) il requisito «personalistico»; 2) il requisito dell’«influenza pubblica dominante»; 3) il requisito «finalistico/teologico».
Si tratta di requisiti che devono sussistere in via cumulativa, pena altrimenti la qualificazione del soggetto come non solo formalmente, ma anche sostanzialmente privato, e dunque esonerato dallo obbligo di rispettare la disciplina dell’evidenza pubblica per gli acquisti di lavori, servizi e forniture.
Pertanto, in primo luogo, si richiede che il soggetto sia dotato di personalità giuridica, sia essa pubblica o anche privata.
In secondo luogo, è necessario individuare un collegamento organizzativo-funzionale (influenza pubblica dominante) con altri soggetti pubblici sulla base di tre elementi indiziari: 1) il finanziamento maggioritario da parte dello Stato, di enti pubblici territoriali o di altri soggetti di diritto pubblico; 2) il controllo sulla gestione, anche attraverso la titolarità delle maggioranze delle quote azionarie, da parte dello Stato, enti pubblici territoriali o altri organismi di diritto pubblico; 3) il potere di nomina in capo allo Stato, ad enti pubblici territoriali o ad altri organismi di diritto pubblico, della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione, direzione o di vigilanza.
Da ultimo, è necessario che il soggetto sia stato istituito per soddisfare esigenze di interesse generale, non aventi però carattere industriale o commerciale (requisito teologico).
Non rileva che la fattispecie in esame sia da inquadrare nell’ambito del d.lgs. n. 163 del 2006, poiché la licitazione privata era del 18/7/2006, quando già era entrato in vigore il codice degli appalti pubblici del 2006 (1/7/2006), in quanto il d.lgs. n. 50 del 2016, in ordine alla descrizione dei requisiti degli organismi di diritto pubblico, non ha mutato le disposizioni precedenti.
Si è ormai chiarito, da parte della giurisprudenza, a Sezioni Unite, di questa Corte, che la disposizione di cui al richiamato art. 3 del d.lgs. n. 50 del 2016 riproduce quella contenuta nell’art. 6, par. 4, della direttiva 2014/23/CE e nell’art. 2, par. 1, n. 4 della direttiva 2014/24/CE, di cui il d.lgs. n. 50 cit. costituisce gemmazione, ed a sua volta riprende quella già riportata nell’abrogato art. 3, comma 26, del d.lgs. n. 12 aprile 2006, n. 163, attuativo degli artt. 2, par. 1, della direttiva 2004/17/CE e 1, par. 9 della direttiva 2014/18/CE
(Cass., Sez. U, 13/1/2023, n. 974; Cass., Sez. U, 18/1/2022, n. 1482).
Pertanto, nonostante i numerosi interventi legislativi, la matrice comunitaria è rimasta invariata, sicché i requisiti necessari per la qualificazione di un ente privato come organismo di diritto pubblico sono rimasti medesimi.
La questione più complessa e quella che attiene al terzo requisito, ossia a quello finalistico-teologico, che è stato definito nel tempo attraverso pronunce di respiro comunitario e nazionale.
La Corte di giustizia UE, con la sentenza del 15/1/1998, C-44/96, COGNOME, ha elaborato la teoria «del contagio», in base alla quale, se c’è lo svolgimento di una parte (dunque non della totalità) di attività di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciali tali da attrarre un determinato soggetto nel novero degli organismi di diritto pubblico, per ciò solo anche la restante parte di attività sarà attratta entro l’area del rispetto della disciplina pubblicistica sull’evidenza pubblica.
In estrema sintesi, i tre requisiti di cui si è detto sono stati ritenuti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea cumulativi, nel senso che in assenza di una sola di tali condizioni, l’ente non può essere considerato «organismo di diritto pubblico», fermo restando che i tre criteri menzionati nell’ambito del terzo requisito hanno invece carattere alternativo (v., in tal senso, Corte Giust., 3/02/2021, Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), in cause riunite C-155/19 e C-156/19, par. 35; Corte Giust., 12/09/ 2013, RAGIONE_SOCIALE, C-526/11, par. 20, nonché Corte Giust., 5/10/2017, RAGIONE_SOCIALE, C-567/15, par. 30).
Si è altresì precisato che la nozione di «organismo di diritto pubblico» deve essere interpretata estensivamente, «alla luce del duplice scopo di promozione della concorrenza e della trasparenza
perseguito dalle direttive che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici» (Corte Giust., 27/02/2003, NOME COGNOME, C-373/00, par. 43; Corte Giust., 15/05/2003, Commissione/Spagna, C-214/00, par. 53), al fine di «escludere sia il rischio che gli offerenti o candidati nazionali siano preferiti nell’attribuzione di appalti da parte delle amministrazioni aggiudicatrici, sia la possibilità che un ente finanziato o controllato dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico si lasci guidare da considerazioni diverse da quelle economiche» (Corte Giust., 5/10/2017, RAGIONE_SOCIALE UAB, C-567/15, par. 55).
16.1. In questo senso, si è detto, alla nozione di «organismo di diritto pubblico» dev’essere data un’interpretazione funzionale (v., in particolare, Corte Giust., 15/05/2003, Commissione/Spagna, C214/00, par. 53; Corte Giust., 12/12/2002, Universale Bau e a., C470/99, parr. 51-53).
16.2. Inoltre, quanto al requisito teleologico, si è evidenziato che l’unica interpretazione idonea a garantire l’effetto utile è quella di ritenere che la disposizione che lo individua abbia istituito, nell’ambito della categoria dei bisogni di interesse generale, una loro sottocategoria comprendente quelli di carattere non industriale o commerciale (Corte Giust., 10/11/1998, BFI Holding, C360/96, par. 34). In tale prospettiva, la valutazione di detto carattere deve essere operata tenendo conto di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali le circostanze che hanno presieduto alla creazione dell’organismo considerato e le condizioni in cui quest’ultimo esercita le attività volte a soddisfare esigenze di interesse generale, ivi comprese, in particolare, l’assenza di concorrenza sul mercato, il mancato perseguimento di uno scopo di lucro, la non assunzione dei rischi collegati alle attività svolte, nonché il finanziamento pubblico eventuale delle attività di cui trattasi (cfr. Corte Giust., 5/10/2017, LitSpecMet UAB,
C-567/15, par. 47; Corte Giust., 27/02/2003, NOME COGNOME, C-373/00, par. 66; Corte Giust., 22/05/2003, COGNOME e a., C-18/01, par. 48).
16.3. Al fine di individuare se un certo organismo è dotato di tale requisito c.d. teleologico si deve in primo luogo verificare se le attività cui è preposto soddisfino effettivamente esigenze d’interesse generale e successivamente determinare, se del caso, se le stesse abbiano o meno carattere industriale o commerciale (Corte Giust., 22/05/2003, COGNOME e a., C-18/01, par. 40).
16.4. Sono state ritenute, in particolare, esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale quelle che sono soddisfatte in modo diverso dall’offerta di beni o servizi sul mercato e al cui soddisfacimento, per motivi connessi all’interesse generale, lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un’influenza determinante (v. Corte Giust., 10/11/1998, BFI RAGIONE_SOCIALE, C-360/96, parr. 50-51; Corte Giust., 10/05/2001, RAGIONE_SOCIALE, C-223/99 e C-260/99, par. 37; Corte Giust., 27/02/2003, NOME COGNOME, C-373/00, par. 50).
16.5. Occorre ancora evidenziare che l’assenza di concorrenza di per sé non costituisce una condizione necessaria ai fini della qualificazione in termini di organismo di diritto pubblico.
Infatti, pretendere che non vi siano imprese private che possano soddisfare i bisogni per i quali è stato creato un organismo finanziato o controllato dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico rischierebbe di svuotare di sostanza la nozione di organismo di diritto pubblico, essendo difficile immaginare attività che non possano essere in alcun caso svolte da imprese private (v., in tal senso, Corte Giust., 10/11/1998, BFI Holding, C-360/96, par. 44; Corte Giust., 27/02/2003, NOME COGNOME, C-373/00, par. 59).
16.6. Solo se l’organismo opera in normali condizioni di mercato, persegue lo scopo di lucro e subisce le perdite connesse all’esercizio
della sua attività, è poco probabile che i bisogni che esso mira a soddisfare abbiano carattere non industriale o commerciale (cfr. Corte Giust., 22/05/2003, COGNOME e a., C-18/01, par. 51), tenuto conto della necessità di interpretare in senso funzionale tale nozione «in sé ambigua o polisemica» (in questo senso, cfr. le conclusioni presentate dall’Avv. gen. COGNOME il 27 aprile 2017, nella causa RAGIONE_SOCIALE, C-567/15, parr. 49-50) nonché del fatto che la normativa comunitaria non include alcuna definizione della nozione di «bisogni di interesse generale» (Corte Giust., 27/02/ 2003, NOME COGNOME, C-373/00, par. 33).
17. La giurisprudenza di questa Corte si è innestata sui giudizi di matrice comunitaria, soprattutto in relazione alle questioni di giurisdizione, in quanto la natura di organismo di diritto pubblico comporta la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di appalti pubblici ex art. 133, lettera e), n. 1, c.p.a.
Si è ritenuto che sia devoluta alla giurisdizione del Giudice amministrativo la controversia promossa da un soggetto privato avverso gli atti con i quali la “Fondazione Carnevale di Viareggio” abbia proceduto alla scelta del contraente e alla stipulazione di un contratto d’appalto per la realizzazione di opere destinate alla nota manifestazione annuale. L’ente in questione, infatti, possiede tutti e tre i requisiti richiesti dall’art. 3, comma 26, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, al fine di considerare integrata la figura dell’organismo di diritto pubblico, ovvero: a) il requisito personalistico, trattandosi di soggetto dotato di personalità giuridica di diritto privato; b) il requisito dell’influenza dominante del soggetto pubblico, trattandosi di ente finanziato dal Comune di Viareggio, oltre che dotato di organo direzionale a designazione totalitaria di provenienza pubblica; c) il requisito teleologico, trattandosi di ente destinato a realizzare funzioni di carattere generale proprie del Comune stesso, quali quelle dirette
a perseguire il rafforzamento e la promozione dell’identità socio-culturale della comunità locale attraverso la perpetuazione di un evento iscritto nella storia e nella tradizione della comunità viareggina (Cass., Sez. U, 7/7/2011, n. 14958; Cass., Sez. U, 9/5/2011, n. 10068).
Rientra, invece, nella giurisdizione del Giudice ordinario la controversia avente ad oggetto le procedure di aggiudicazione degli appalti di fornitura da parte di Poste Italiane, non rilevando né che quest’ultima abbia volontariamente fatto ricorso alle regole di evidenza pubblica, pur non essendovi tenuta, né che la medesima società possa essere un organismo di diritto pubblico, circostanza comunque esclusa, mancando il requisito del soddisfacimento di esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale, e trattandosi di un’impresa che, seppure per un settore definito, opera in regime di concorrenza ed è quindi esposta al funzionamento naturale del mercato (Cass., Sez. U, 29/5/2012, n. 8511).
Più recentemente, si è chiarito che l’Istituto per il credito sportivo (ICS) è qualificabile come organismo pubblico, poiché, oltre alla personalità giuridica ed all’influenza pubblica dominante, è provvisto anche del requisito teleologico, in quanto, pur esercitando l’attività bancaria e finanziaria, settori generalmente aperti alla concorrenza, non osserva esclusivamente criteri di rendimento, efficacia e redditività, ma persegue finalità di interesse generale, gestendo istituzionalmente, a titolo gratuito, l’accesso di terzi richiedenti a fondi speciali, che, pertanto, non possono essere rifiutati per ragioni di convenienza economica; ne consegue che, ai fini dell’affidamento di lavori, servizi o forniture, tale istituto è tenuto al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica nella scelta del contraente (Cass., Sez.
U, 13/1/2023, n. 974; Cass. Sez. U, 18/1/2022, n 1482; Cass., Sez. U, 14/11/2022, n. 33482).
Con riferimento all’ente Fiera di Milano, questa Corte ha escluso la qualifica di organismo di diritto pubblico, in quanto l’esistenza di un ambiente concorrenziale rappresenta un indice del carattere commerciale o industriale dell’attività, perché fa intuire che il soggetto è un operatore libero nel mercato e soggette relativi rischi di impresa e, come tale, non mosso da ragioni extra-economiche tali da rendere necessario il suo assoggettamento alle rigorose discipline sull’evidenza pubblica, a presidio della concorrenzialità nel mercato (Cass., Sez. U, 4/4/2000, n. 97).
Nella specie, tuttavia, i motivi sono inammissibili, come anticipato in premessa.
19.1. Ed infatti, il Consorzio ricorrente non ha trascritto, neppure per stralcio, il contenuto della visura camerale, prodotta in giudizio, che avrebbe dovuto dimostrare l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello nel qualificare la società RAGIONE_SOCIALE come organismo di diritto pubblico.
Il ricorrente avrebbe dovuto trascrivere, quanto meno per stralcio, il contenuto della nuova visura camerale che sarebbe stata prodotta nel giudizio di appello.
19.2. Inoltre, il Consorzio ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare l’insussistenza di tutti e tre i requisiti, reputati indispensabili dalla giurisprudenza comunitaria e da quella nazionale, per l’integrazione della figura dell’organismo di diritto pubblico.
Al contrario, a fronte di una precisa presa di posizione della Corte d’appello, che ha ritenuto sussistere tutti e tre i requisiti necessari per l’inquadramento della società RAGIONE_SOCIALE tra gli organismi di diritto pubblico, il ricorrente ha affermato che spettava alla controparte dimostrare l’assenza dello scopo di lucro.
19.3. In terzo luogo, risulta pacifico tra le parti che nel contratto era prevista proprio l’applicazione di tutte le norme del capitolato generale di cui al D.M. n. 145 del 2000, sicché, a prescindere dalla qualifica di organismo di diritto pubblico, eventualmente rivestita dalla società RAGIONE_SOCIALE, trovavano applicazione comunque le norme sull’evidenza pubblica e, quindi, gli artt. 32 e 33 del D.M. n. 145 del 2000.
Il Consorzio RAGIONE_SOCIALE ha accettato ed applicato tutte le regole introdotte dalla committente fin dalla fase di pubblicazione del bando e fino alla firma del contratto.
19.4. Tra l’altro, la controricorrente ha riferito che costituisce «circostanza di fatto mai contestata e assolutamente pacifica che RAGIONE_SOCIALE per l’esecuzione dei lavori oggetto di procedura di appalto abbia utilizzato finanziamenti pubblici», con la conseguenza che «anche la committente privata, qualora utilizzi risorse e fondi pubblici, è tenuta all’applicazione della normativa imperativa in materia di appalti pubblici».
20. Una volta accertato che trattavasi di organismo di diritto pubblico, ne consegue l’applicazione della disciplina dell’evidenza pubblica nell’affidamento di lavori, opere e forniture, non trovando applicazione l’art. 1341 c.c., in ordine alle clausole vessatorie ed al peculiare regime di sottoscrizione delle stesse.
20.1. Deve, peraltro, evidenziarsi che la sentenza impugnata non ha qualificato Cremona RAGIONE_SOCIALE come organismo di diritto pubblico, ma come «stazione appaltante», nozione più ampia, che comprende, ai sensi dell’art. 3, comma 33, del d.lgs. n. 163 del 2006, i soggetti di cui all’art. 32 : in tal senso, la questione sollevata non attinge la ratio della sentenza impugnata, o quanto meno non risulta specifica, non essendo state indicate le differenze della Cremona RAGIONE_SOCIALE da tutti i tipi indicati dalla legge.
Il quinto ed il sesto motivo di ricorso, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
21.1. Sostiene, infatti, il Consorzio ricorrente che l’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 dovrebbe reputarsi abrogato, a seguito dell’abrogazione anche dell’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000, ad opera dell’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Inoltre, l’art. 31bis della legge n. 109 del 1994 avrebbe introdotto una nuova disciplina degli accordi bonari, tale da travolgere le ipotesi di cui all’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000.
L’istituto dell’accordo bonario va valutato unitamente a quello delle riserve, in quanto, prima dell’introduzione dell’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, in ordine alle riserve non vi era la possibilità di ricorrere alla procedura di accordo bonario, specificamente disciplinata.
In base alla previgente disciplina, l’istruttoria in ordine alle riserve iscritte dall’appaltatore si svolgeva senza contraddittorio con quest’ultimo; era l’Amministrazione che, per suo conto, raccoglieva dai funzionari od organi competenti, gli elementi ed i pareri per la determinazione finale sulle riserve iscritte.
22.1. Invero, l’accordo bonario è disciplinato dall’art. 31bis della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), a mente del quale «per i lavori pubblici affidati dai soggetti di cui all’art. 2, comma 2, lettere a) e b), in materia di appalti e di concessioni, qualora, a seguito dell’iscrizione di riserve sui documenti contabili, l’importo economico dell’opera possa variare in misura sostanziale e in ogni caso non inferiore al 10% dell’importo contrattuale, il responsabile del procedimento acquisisce immediatamente la relazione riservata del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo e, sentito l’affidatario, formula all’Amministrazione, entro 90 giorni dalla apposizione dell’ultima delle riserve di cui sopra,
proposta motivata di accordo bonario. L’Amministrazione, entro 60 giorni dalla proposta di cui sopra, delibera in merito con provvedimento motivato. Il verbale di accordo bonario è sottoscritto dall’affidatario».
22.2. Tuttavia, il comma 1 dell’art. 31bis citato ha subito modifiche nella versione dal 18/8/2002 al 30/6/2006, per essere poi abrogato dal d.lgs. 12/4/2006, n. 163, entrato in vigore l’1/7/2006, prima della indizione della gara a mezzo licitazione privata del 18/7/ 2006.
Alla data del 18/7/2006, quindi, l’art. 31bis della legge n. 109 del 1994 era ormai abrogato.
Ciò consente di sgombrare il campo già dall’affermazione, contenuta nel ricorso, in base alla quale l’art. 31bis della legge n. 109 del 1994 avrebbe completamente scompaginato la disciplina dei termini di proposizione dell’azione giudiziale o dell’arbitrato ex art. 33 del D.M. n. 145 del 2000.
Peraltro, anche a voler superare tale primo ostacolo, prevede l’art. 31bis citato che «per i lavori pubblici affidati dai soggetti di cui all’art. 2, comma 2, lettere a) e b), in materia di appalti e di concessioni, qualora, a seguito dell’iscrizione di riserve sui documenti contabili, l’importo economico dell’opera possa variare in misura sostanziale e in ogni caso non inferiore al 10% dell’importo contrattuale, il responsabile del procedimento promuove la costituzione di apposita commissione perché formuli, acquisita la relazione del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo, entro 90 giorni dalla apposizione dell’ultima delle predette riserve, proposta motivata di accordo bonario. In merito alla proposta si pronunciano, nei successivi 30 giorni, l’appaltatore ed il soggetto committente. Decorso tale termine è in facoltà dell’appaltatore avvalersi del disposto dell’art. 32. La procedura per la definizione dell’accordo bonario può essere
reiterata per una sola volta. La costituzione della commissione è altresì promossa dal responsabile del procedimento, indipendentemente dall’importo economico delle riserve ancora da definirsi, al ricevimento da parte dello stesso del certificato di collaudo o di regolare esecuzione di cui all’art. 28. Nell’occasione la proposta motivata della commissione è formulata entro 90 giorni dal predetto ricevimento».
Pertanto, si prevede che la costituzione della commissione avvenga anche in ordine a riserve che non raggiungano l’importo non inferiore al 10% dell’importo contrattuale, o comunque alle riserve che emergano al momento del certificato di collaudo o di regolare esecuzione.
Al comma 1ter dell’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, nella versione vigente dal 18/8/2002 alla 30/6/2006, si stabilisce che «’accordo bonario, definito con le modalità di cui ai commi 1 e 1bis ed accettato dall’appaltatore, ha natura transattiva».
22.3. L’art. 149 (Accordo bonario) del d.P.R. 21/12/1999, n. 554 (Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109, e successive modificazioni) chiarisce che «ualora nel corso dei lavori l’appaltatore abbia iscritto negli atti contabili riserve il cui importo complessivo superi i limiti indicati dall’art. 31bis della legge, il Direttore dei Lavori ne dà immediata comunicazione al responsabile del procedimento, trasmettendo nel più breve tempo possibile la propria relazione riservata in merito».
Si chiarisce al comma 2 dell’art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999 che «il responsabile del procedimento, valutata l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza delle riserve ai fini dell’effettivo raggiungimento del limite di valore, nel termine di 90 giorni dalla apposizione dell’ultima delle riserve acquisisce la relazione riservata del di-
rettore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo, sente l’appaltatore sulle condizioni ed i termini di un eventuale accordo, e formula alla stazione appaltante una proposta di soluzione bonaria».
Ai sensi del comma 3 dell’art. 149, poi, «ei successivi sessanta giorni la stazione appaltante, nelle forme previste dal proprio ordinamento, assume le dovute determinazioni in merito alla proposta e ne dà sollecita comunicazione al responsabile del procedimento e all’appaltatore. Nello stesso termine la stazione appaltante acquisisce gli eventuali ulteriori pareri ritenuti necessari».
Qualora l’appaltatore aderisca alla soluzione bonaria prospettata dalla stazione appaltante nella comunicazione, il responsabile del procedimento convoca le parti per la sottoscrizione del verbale di accordo bonario.
Ai sensi del comma 6 dell’art. 149 citato, «e dichiarazioni e gli atti del procedimento non sono vincolanti per le parti in caso di mancata sottoscrizione dell’accordo» e «la procedura di accordo bonario ha luogo tutte le volte che le riserve iscritte dall’appaltatore, ulteriori e diverse rispetto a quelle già precedentemente esaminate, raggiungono nuovamente l’importo visto dalla legge» (comma 7).
L’art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999 è stato abrogato dal d.lgs. 12/4/2006, n. 163, entrato in vigore l’1/7/2006.
22.4. La norma applicabile alla fattispecie in oggetto è però l’art. 240 del d.lgs. 12/4/2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), in quanto la licitazione privata è stata indetta il 18/7/ 2006.
L’art. 240 del d.lgs. n. 163 del 2006 è di contenuto analogo a quello dell’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, prevedendo al comma 1 che «per i lavori pubblici di cui alla parte II affidati da amministrazioni aggiudicatrici ed enti aggiudicatori, ovvero dai con-
cessionari, qualora a seguito dell’iscrizione di riserve sui documenti contabili, l’importo economico dell’opera possa variare in misura sostanziale e in ogni caso non inferiore al dieci per cento dell’importo contrattuale, si applicano i procedimenti volti al raggiungimento di un accordo bonario, disciplinati dal presente articolo».
Si prevede che il direttore dei lavori dia immediata comunicazione al responsabile del procedimento delle riserve, trasmettendo la propria relazione riservata.
Il responsabile del procedimento valuta l’ammissibilità e la non manifesta infondatezza delle riserve ai fini dell’effettivo raggiungimento del limite di valore.
Per gli appalti e le concessioni di importo pari o superiore a dieci milioni di euro, il responsabile del procedimento promuove la costituzione di apposita commissione, affinché formuli, acquisita la relazione riservata del direttore dei lavori e, ove costituito, dell’organo di collaudo, entro novanta giorni dalla apposizione dell’ultima delle riserve di cui al comma 1, proposta motivata di accordo bonario.
Tra l’altro, l’art. 240, comma 14, sancisce che «er gli appalti e le concessioni di importo inferiore a dieci milioni di euro, la costituzione della commissione da parte del responsabile del procedimento è facoltativa e il responsabile del procedimento può essere componente della commissione medesima. La costituzione della commissione è altresì promossa dal responsabile del procedimento, indipendentemente dall’importo economico delle riserve ancora da definirsi».
Pertanto, anche la normativa sopravvenuta all’art. 31bis della legge n. 109 del 1994 presenta analogo contenuto, disciplinando il procedimento per raggiungere l’accordo bonario, anche attraverso la facoltativa costituzione della commissione, in appalti sotto la soglia di legge.
23. Fatte queste premesse generali, occorre valutare se gli artt. 32 e 33 del D.M. n. 145 del 2000 siano stati abrogati implicitamente a seguito della normativa sopravvenuta, come sostiene il Consorzio ricorrente.
23.1. Deve premettersi che l’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000 non è stato abrogato immediatamente dall’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006, in vigore dal 1/7/2006.
Viene smentita dunque la tesi del Consorzio ricorrente.
Ed infatti, l’art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006, nel periodo dall’1/ 7/2006 sino al 16/10/2008 non ha previsto l’abrogazione dell’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000.
L’art. 256 citato, solo nella versione vigente tra il 17/10/2008 e il 18/4/2016, prevede espressamente l’abrogazione «dell’art. 32, del decreto del Ministro dei lavori pubblici 19 aprile 2000, n. 145».
Prima di tale data, a differenza di quanto sostenuto dal Consorzio ricorrente, non v’è stata alcuna abrogazione espressa.
23.2. L’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 (Tempo del giudizio), pienamente in vigore alla data della licitazione privata del 18/7/ 2006, stabilisce, al comma 1, che «l’appaltatore che intenda far valere le proprie pretese nel giudizio ordinario o arbitrale deve proporre la domanda entro il termine di decadenza di sessanta giorni, decorrente dal ricevimento della comunicazione di cui all’art. 149, comma 3, del regolamento, o della determinazione prevista dei commi 1 e 2 dell’art. 32 del capitolato, oppure dalla scadenza dei termini previsti dagli stessi commi 1 e 2».
23.3. L’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000 (Definizione delle riserve al termine dei lavori), a sua volta, sancisce, al comma 1, che «e riserve e le pretese dell’appaltatore, che in ragione del valore o del tempo di insorgenza non sono state oggetto della procedura di accordo bonario ai sensi dell’art. 31bis della legge, sono esaminate e
valutate dalla stazione appaltante entro novanta giorni dalla trasmissione degli atti di collaudo effettuata ai sensi dell’art. 204 del regolamento».
La disciplina dell’accordo bonario, nell’ipotesi di importo complessivo delle riserve superiore ai limiti indicati dall’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, si rinviene nell’art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999.
Il comma 2 dell’art. 32, citato, a sua volta prevede che «ualora siano decorsi i termini previsti dall’art. 28 della legge senza che la stazione appaltante abbia effettuato il collaudo o senza che sia stato emesso il certificato di regolare esecuzione dei lavori, l’appaltatore può chiedere che siano comunque definite le proprie riserve e richieste notificando apposita istanza. La stazione appaltante deve in tal caso pronunziarsi entro i successivi novanta giorni».
24. Pertanto, una volta esclusa l’abrogazione implicita dell’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 ad opera dell’art. 31bis della legge n. 109 del 1994, come modificato a decorrere dal 18/8/2002, in quanto la disciplina dell’accordo bonario è comunque transitata anche nello art. 240 del d.lgs. 12/4/2006, n. 163, in vigore dal 1/7/2006, occorre valutare la triplice ipotesi per l’incardinamento, a pena di decadenza, del giudizio ordinario.
24.1. Il primo caso è quello relativo all’instaurazione del procedimento per l’accordo bonario, di cui all’art. 33, comma 1, prima parte.
In tal caso il dies a quo si rinviene nel ricevimento della comunicazione di cui all’art. 149, comma 3, del d.P.R. n. 554 del 1999, ove l’appaltatore iscrive nei registri contabili riserve il cui importo complessivo superi i limiti indicati dall’art. 31bis della legge n. 109 del 1994 (Cass., sez. 1, 1/10/2014, n. 20722; anche Cass., sez. 1, 23/3/ 2017, n. 7479).
Tuttavia, nella specie, non risulta instaurato alcun procedimento per il raggiungimento dell’accordo bonario, né sopra-soglia (art. 149 del d.P.R. n. 554 del 1999), né sotto-soglia (art. 31bis della legge n. 109 del 1994).
24.2. Il secondo termine per la proposizione del giudizio ordinario attiene all’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000.
Tuttavia, nella specie, non si è proceduto al collaudo delle opere, sicché non trova applicazione neppure tale peculiare ipotesi.
24.3. Il terzo termine per la presentazione della domanda giudiziale dinanzi al Giudice ordinario è quello di cui al comma 2 dell’art. 32 del D.M. n. 145 del 2000, che riguarda le ipotesi in cui siano decorsi i termini previsti dall’art. 28 della legge n. 109 del 1994, ma non sia stato emesso il certificato di regolare esecuzione dei lavori né effettuato il collaudo, sicché l’appaltatore può chiedere che siano comunque definite le proprie riserve e richieste notificando apposita istanza.
In tal caso, come detto, la stazione appaltante deve pronunziarsi entro i successivi novanta giorni.
25. Ed è proprio questa l’ipotesi fatta propria dalla Corte d’appello, la quale ha affermato che era applicabile l’art. 33 del D.M. n. 145 del 2000 e la decorrenza si determinava – escluse le prime due ipotesi relative all’accordo bonario o all’effettuazione del collaudo in base alla lettera in data 26 marzo 2007, «notificata alla controparte il 5 aprile 2007» con cui la società Cremona RAGIONE_SOCIALE «aveva accettato la risoluzione del contratto, ma nel contempo respinto le richieste economiche dell’appaltatrice».
Tale comunicazione, in sostanza, ha concretizzato «un espresso diniego della richiesta», sicché il primo giudice «con valutazione condivisa e confermata dal collegio» l’ha considerata «quale atto defini-
tivo a partire dal quale doveva intendersi avviato il periodo temporale consentito all’appaltatore, sotto pena di decadenza, per l’esercizio delle facoltà spettantigli per legge».
Va condivisa l’affermazione della Corte territoriale per cui «la suddetta determinazione da parte della società convenuta è da ritenersi equiparabile, sul piano funzionale, alla comunicazione effettuata da parte della stazione appaltante nell’ambito del procedimento volto all’accordo bonario: in entrambi i casi l’appaltatore formula la propria contestazione a cui fa seguito la risposta da parte della stazione appaltante».
26. E’, poi, inammissibile la questione della mancata iscrizione della riserva nel registro di contabilità, perché la domanda è stata rigettata a causa della tardiva introduzione del giudizio, non a causa dell’inadempimento dell’onere d’iscrizione.
27. Tutti i restanti motivi, relativi al merito della controversia, sono inammissibili, in quanto la motivazione della Corte d’appello è fondata su due diverse rationes decidendi : la prima relativa alla improcedibilità dell’azione giudiziale per la scadenza del termine e, quindi, per intervenuta decadenza; la seconda in ordine al merito della controversia, stante la legittimità della sospensione dei lavori intervenuta ai sensi dell’art. 7 del contratto stipulato tra le parti, oltre che con riguardo allo scioglimento del contratto verificatosi ai sensi dell’art. 24 del capitolato generale, cui consegue la rinuncia irrevocabile a qualsiasi indennità.
Infatti, per questa Corte, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza, con l’ac-
coglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, ” in toto ” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.
Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass., sez. 1, 27/07/2017, n. 18641; Cass., sez. 1, 18/04/1998, n. 3951; Cass., sez. 1, 18/09/2006, n. 20118; Cass., Sez. U, 8/08/2005, n. 16602).
28. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del Consorzio ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 8.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 luglio 2025
Il Presidente
NOME COGNOME