Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24676 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24676 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 2796-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1906/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 07/07/2020 R.G.N. 3044/2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
21/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Cessione ramo
azienda – uso
aziendale –
R.G.N.2796/2021
COGNOME
Rep.
Ud 21/05/2025
CC
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Napoli ha respinto l’appello di NOME COGNOME, confermando la sentenza di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda del lavoratore, aveva condannato la RAGIONE_SOCIALE al pagamento del superminimo per il periodo da marzo a dicembre 2013.
La Corte territoriale ha premesso: che il COGNOME ha lavorato presso il Grand Hotel Telese dall’1.8.1996 fino al 31.12.2013 con mansioni di cuoco; che dall’1.8.1996 al 31.3.2011 ha prestato attività alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE; che a far data dall’1.4.2011 e fino al 12.3.2013 ha lavorato alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE a seguito di affitto di ramo d’azienda e, a decorrere dal 13.3.2013 e fino al dicembre dello stesso anno è stato nuovamente assunto dall’RAGIONE_SOCIALE per effetto della retrocessione del ramo ceduto; che il predetto ha percepito dall’anno 2008 e fino al 31.3.2011 un superminimo ad personam dell’importo di euro 600,00; che tale superminimo non gli è stato più corrisposto, se non per poche mensilità, dalla RAGIONE_SOCIALE e neanche dalla RAGIONE_SOCIALE dopo la retrocessione del ramo d’azienda; che il lavoratore ha agito in giudizio per ottenere la condanna di quest’ultima società al pagamento del superminimo non più erogatogli dall’ottobre 2011 e fino al dicembre 2013, data del licenziamento a seguito di procedura di mobilità.
I giudici di appello hanno negato il riconoscimento del diritto azionato (al di là di quanto riconosciuto dal tribunale) sulla base delle seguenti argomentazioni: anzitutto, perché nel verbale di accordo concluso il 24.3.2011, ai sensi dell’art. 47 della l egge n. 428 del 1990, concernente il trasferimento del ramo d’azienda, era espressamente riconosciuto in favore dei
lavoratori trasferiti il mantenimento del trattamento economico e normativo in vigore ma non era contemplata la voce ‘superminimo’; ove anche qualificato il superminimo come uso aziendale, e perciò quale fonte eteronoma del contratto individuale equiparabile ad un contratto collettivo aziendale, la conservazione di tale emolumento in occasione della cessione di ramo di azienda avrebbe dovuto trovare espressa previsione di salvezza negli accordi sindacali ex art. 47 cit.; mancavano i presupposti per ritener e esistente una continuità nell’uso aziendale presso la cessionaria RAGIONE_SOCIALE non risultando comprovati la spontaneità del comportamento datoriale, la reiterazione del comportamento nel tempo e la persistenza o invarianza dell’assetto normativo positivo (legale o contrattuale) o delle condizioni organizzative aziendali originariamente alla base della concessione liberale; nel caso di specie, per molto tempo ed esattamente dall’ottobre 2011 e fino al 2013, fatta eccezione per pochi mesi iniziali, non vi era stata corresponsione del superminimo da parte di WWT e nulla era allegato sulla identità delle condizioni organizzative aziendali.
La sentenza impugnata ha evidenziato come il lavoratore non avesse fornito prova della continuità dell’uso aziendale presso la cessionaria; che l’onere di prova della vigenza presso RAGIONE_SOCIALE di una autonoma contrattazione integrativa non potesse essere addossato alla cedente RAGIONE_SOCIALE (unica evocata in giudizio), priva di cognizione diretta della gestione attuata da RAGIONE_SOCIALE; che, in ogni caso, il fatto della corresponsione del superminimo per soli quattro mesi costituiva esso stesso indice della adozione da parte della cessionaria di un autonomo regolamento aziendale, operante con effetti sostitutivi rispetto a quello vigente presso la cedente, ai sensi dell’art. 2112, comma 3 c.c.
La Corte di merito ha, infine, escluso ogni ipotesi di rinuncia della RAGIONE_SOCIALE alla clausola di assorbimento del superminimo ed ha confermato la compensazione impropria operata dal tribunale tra la somma liquidata a titolo di superminimo dovuto dalla RAGIONE_SOCIALE e quanto indebitamente pagato al lavoratore a titolo di premio di anzianità decennale.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME con quattro motivi. La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in riferimento alla interpretazione dell’accordo intervenuto nel corso della procedura di cui all’articolo 47 della legge n. 428 del 1990 e la medesima censura è formulata come violazione dell’articolo 1362 c.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. Il ricorrente allega che l’accordo citato (trascritto alle pp. 11 e 12 del ricorso) prevedeva il mantenimento del trattamento economico e normativo in vigore per i lavoratori trasferiti e richiama la comunicazione del 31.3.2011 inviatagli dalla società (trascritta a p. 12) nella quale si precisava che la posizione lavorativa sarebbe rimasta ‘invariata nei contenuti e nella retribuzione’; sottolinea la valenza di tale comunicazione, unitamente al versamento da parte della cessionaria, per alcune mensilità, del superminimo di euro 600,00, quale comportamento complessivo delle parti, successivo alla stipula
dell’accordo, utile a far emergere la loro comune intenzione ai sensi dell’art. 1362 c.c.
Il motivo di ricorso è fondato nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 1362 c.c., risultando inammissibile, per effetto della cd. doppia conforme, il vizio denunciato in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.
Il superminimo rappresenta una eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari, individualmente pattuito (cfr. Cass. n. 19750 del 2008; n. 14689 del 2012; n. 26017 del 2018), sicché non è dubbia la appartenenza di esso al trattamento economico del lavoratore.
L’accordo concluso il 24.3.2011, ai sensi dell’art. 47 della legge n. 428 del 1990, tra l’RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE (trascritto alle pp. 11 e 12 del ricorso per cassazione) prevedeva che ‘il fitto non modificherà l’attuale trattamento economico -normativo dei lavoratori interessati dalla operazione, complessivamente pari a 11’ e che ‘I contratti di lavoro dei suddetti dipendenti prevedono il mantenimento della anzianità aziendale maturata nonché dell’attuale trattamento economico normativo in vigore’.
La Corte d’appello ha escluso che il superminimo fosse compreso nel trattamento economico-normativo assicurato ai dipendenti ceduti in quanto non espressamente citato nell’accordo ex art. 47, in tal modo disattendendo, nella ricostruzione della volontà negoziale, sia il senso letterale delle espressioni usate, che imponeva di considerare il ‘superminimo’, in quanto eccedenza rispetto alla retribuzione minima tabellare, parte del ‘trattamento economico in vigore’, e sia il comportamento complessivo delle parti anche successivo all’accordo, comprensivo della corresponsione, ad opera della cessionaria, nel primo periodo, di un superminimo di euro
600,00, corrispondente per importo e titolo a quanto erogato dalla cedente.
Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte d’appello attribuito al lavoratore, anziché alla cedente poi retro cessionaria (la sola citata in giudizio), l’onere di provare che la WWT non applicasse una propria contrattazione aziendale; il ricorrente osserva come, ai sensi dell’art. 2112, terzo comma, c.c., il cessionario sia tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo il fatto impeditivo costituito dalla sostituzione della contrattazione applicabile presso la cessionaria e afferma che l’onere di prova non può che gravare su chi eccepisce tale fatto impeditivo, nella specie sulla cedente, anche per il principio di vicinanza della prova.
Anche il secondo motivo è fondato.
Sul tema trattamenti economici e normativi applicabili dal cessionario in caso di cessione di azienda o di ramo di azienda, questa Corte (cfr. Cass. n. 37291 del 2021) ha già precisato che l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 (secondo cui ‘Dopo il trasferimento, il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell’entrata in vigore o dell’a pplicazione di un altro contratto collettivo’), come interpretato dalla Corte di Giustizia, ‘mira ad assicurare il mantenimento di tutte le condizioni di lavoro conformemente alla volontà delle parti contraenti del contratto collettivo e ciò nonostante il trasferimento di impresa. Per contro questa stessa disposizione non è idonea a derogare alla volontà di dette parti
così come manifestata nel contratto collettivo. Di conseguenza, se le parti contraenti hanno stabilito di non garantire talune condizioni di lavoro oltre una determinata data, l’art. 3 n. 3 della direttiva 2001/23 non può imporre al cessionario l’obbligo di rispettarle posteriormente alla data convenuta di scadenza del contratto collettivo, giacché, al di là di questa data, il contratto collettivo di cui trattasi non è più in vigore. Ne consegue che l’art. 3 n. 3 non impone al cessionario di garantire il mantenimento delle condizioni di lavoro stabilite con il cedente oltre la data della scadenza del contratto collettivo (v. sentenza Corte Giustizia del 27.11.2008, C-396/07, punti 33 e 34).
Nella sentenza del 6.9.2011, C-108/10 (NOME COGNOME, la Corte di Giustizia ha ribadito che ’73. la norma prevista dall’art. 3, n. 2, secondo comma, della direttiva 77/187 (ndr., coincidente con l’art. 3 n. 3 direttiva 2001/23) non può privare di contenuti il primo comma del medesimo numero. Pertanto, questo secondo comma non osta a che le condizioni di lavoro enunciate in un contratto collettivo che si applicava al personale interessato prima del trasferimento cessino di essere applicabili al termine di un anno successivo al trasferimento, se non addirittura immediatamente alla data del trasferimento, quando si realizzi una delle ipotesi previste dal primo comma di detto numero, ossia la risoluzione o la scadenza di detto contratto collettivo oppure l’entrata in vigore o l’applicazione di un altro contratto collettivo (v. sentenza 9 marzo 2006, causa C-499/04, Werhof, Racc. pag. I-2397, punto 30, nonché, in tema di art. 3, n. 3, della direttiva 2001/23, sentenza 27 novembre 2008, causa C-396/07, Juuri, Racc. pag. I-8883, punto 34). 74. Di conseguenza, la norma prevista dall’art. 3, n. 2, primo comma, della direttiva 77/187, ai sensi della quale «il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto
collettivo nei termini previsti da quest’ultimo per il cedente, fino alla data (…) applicazione di un altro contratto collettivo», dev’essere interpretata nel senso che il cessionario ha il diritto di applicare, sin dalla data del trasferimento, le condizioni di lavoro previste dal contratto collettivo per lui vigente, ivi comprese quelle concernenti la retribuzione’.
In coerenza con i principi dettati dalla direttiva citata, come interpretata dalla Corte di Giustizia, questa S.C. ha statuito che, in caso di cessione di ramo d’azienda, ai dipendenti ceduti trova applicazione, ai sensi dell’art. 2112, comma 3, c.c., il contratto collettivo in vigore presso la cessionaria, anche se più sfavorevole, atteso il loro inserimento nella nuova realtà organizzativa e nel mutato contesto di regole, anche retributive, restando in vigore l’originario contratto collettivo nel solo caso in cui presso la cessionaria i rapporti di lavoro non siano regolamentati da alcuna disciplina collettiva (v. Cass. n. 10120 del 2024; n. 37291 del 2021 cit.; n. 19303 del 2015; n. 10614 del 2011; n. 5882 del 2010, a proposito di fusione o incorporazione di società; v. anche Cass. n. 20918 del 2020 in materia di pubblico impiego contrattualizzato).
Con specifico riferimento all’uso aziendale, fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sostituendo alle clausole contrattuali e a quelle collettive in vigore quelle più favorevoli dell’uso aziendale, a norma dell’art. 2077, secondo comma, c.c., questa Corte ha, inoltre, sottolineato che, in caso di cessione di azienda o di un suo ramo, ai lavoratori ceduti va riconosciuto il trattamento previsto dal contratto aziendale o dall’uso aziendale in essere presso la cedente ed avente la stessa efficacia della contrattazione collettiva integrativa aziendale, sempre che
presso la cessionaria non trovi applicazione alcuna contrattazione di pari livello (Cass. n. 10120 del 2024).
Nella fattispecie oggetto di causa, la Corte d’appello ha ritenuto che l’uso aziendale in vigore presso la (originaria) cedente, RAGIONE_SOCIALE concernente il superminimo ad personam pari ad euro 600,00 ed avente efficacia di contratto aziendale, fosse venuto meno a seguito del trasferimento di azienda alla RAGIONE_SOCIALE in difetto di prova, di cui era onerato il lavoratore, della mancata applicazione presso la cessionaria di una propria contrattazione aziendale. La sentenza impugnata argomenta c ome l’onere di dimostrare la vigenza presso la cessionaria di una propria contrattazione aziendale non potesse addossarsi ‘alla RAGIONE_SOCIALE (unica evocata in giudizio) che non può avere alcuna cognizione diretta di fatti risalenti al periodo di gestione de lla RAGIONE_SOCIALE
La statuizione d’appello integra la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c.
Il motivo in esame interroga sul regime di distribuzione dell’onere della prova della sostituzione dei contratti collettivi applicati dal cessionario a quelli in vigore presso la cedente, ai sensi dell’art. 2112, comma 3 c.c., al fine di individuare il trattamento economico e normativo dei lavoratori ceduti.
Occorre cioè stabilire su chi grava l’onere di dimostrare l’applicazione presso la cessionaria di un proprio contratto collettivo, che si sostituisca a quello, di pari livello, in vigore presso la cedente.
Posto che, rispetto al lavoratore che rivendichi il trattamento goduto presso la cedente, l’esistenza di una autonoma contrattazione collettiva, di pari livello, applicata dalla cessionaria assume la veste di fatto impeditivo del diritto azionato in virtù del citato art. 2112, comma 3 c.c., non pare
possa esservi dubbio sulla incombenza in capo alla cessionaria del relativo onere probatorio (cfr. in tema di subentro nell’appalto, Cass. n. 31491 del 2023).
La soluzione non può essere diversa nella fattispecie oggetto di causa, nonostante la peculiarità della stessa atteso che il lavoratore rivendica la corresponsione del superminimo, già goduto presso la cedente e non corrisposto dalla cessionaria, citando in causa unicamente la originaria cedente in quanto divenuta retro cessionaria del ramo d’azienda. È infatti acclarato che, a far data dal 13.3.2013, il ramo d’azienda sia stato retrocesso dalla RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE. Viene pertanto in rilievo l’a rt. 2112, comma 2, c.c., che sancisce la responsabilità solidale della cessionaria con la cedente ‘per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento’; disposizione che mira a proteggere i crediti del lavoratore rispetto agli eventi circolatori delle imprese realizzati dai datori di lavoro. La RAGIONE_SOCIALE è citata in causa quale retro cessionaria, responsabile in solido per i crediti che il lavoratore aveva nei confronti della retro cedente all’epoca della retrocessione.
In ragione del vincolo di solidarietà passiva, la retro cessionaria si colloca nella medesima posizione della retro cedente obbligata principale – e potrà quindi opporre al creditore le eccezioni opponibili dal debitore principale (eccetto quelle persona li, ai sensi dell’art. 1297 c.c., cfr. Cass. n. 14861 del 2001) quindi i fatti estintivi o impeditivi del credito azionato, sopportando il relativo onere probatorio.
Ciò in sintonia col principio di vicinanza della prova, che riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto da provare (così Cass. n. 12910 del 2022), possibilità configurabile
in capo alla attuale controricorrente quale parte dei plurimi rapporti circolatori conclusi con la RAGIONE_SOCIALE.
La Corte d’appello non si è attenuta ai principi di diritto finora richiamati ed ha, al contrario, addossato al lavoratore l’onere di dimostrare la mancata applicazione, presso la cessionaria, di una propria contrattazione aziendale, in grado di sostituirsi a quella, del medesimo livello (e nella specie comprensiva dell’uso aziendale avente l’efficacia di un accordo aziendale), in vigore presso la cedente, così violando il disposto dell’art. 2697 c.c. Dal che discende l’accoglimento del secondo motivo.
3. Con il terzo motivo si addebita alla sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, nonché la violazione dell’art. 1362 c.c. in riferimento a lla interpretazione della comunicazione datoriale del 15.7.2009. Con tale comunicazione l’Impresa RAGIONE_SOCIALE aveva informato del ripristino del superminimo di euro 600,00, senza specificare se lo stesso fosse o meno assorbibile. La società, in occasione dei successivi aumenti retributivi, il primo dei quali risalente al gennaio 2011, non aveva esercitato la facoltà di assorbire il superminimo individuale. A parere del ricorrente, aveva errato la Corte d’appello a non considerare il comportamento concludente posto in essere dalla società come significativo di una tacita rinuncia alla clausola di assorbibilità.
Il motivo è inammissibile nella parte in cui invoca il vizio contemplato dall’art. 360 n. 5 c.p.c. in ragione della disciplina della cd. doppia conforme di merito; è infondato nella parte in cui denuncia la violazione delle regole ermeneutiche. La Corte d’ appello ha interpretato le missive inviate dalla COGNOME al lavoratore e rilevato come in quella di aprile 2009 si dichiarava espressamente assorbibile il superminimo e in quella successiva
di luglio 2009 si comunicava il ripristino del superminimo, senza nulla precisare sulla assorbibilità o meno dello stesso; ha ritenuto che la mancanza di qualsiasi specificazione nella seconda lettera lasciasse ferma la regola della assorbibilità espressa nella prima lettera, corrispondente al principio generale vigente nell’ordinamento, secondo cui il superminimo è di regola soggetto ad assorbimento per effetti di successivi aumenti contrattuali. Le censure mosse col motivo in esame, ai sensi dell’art. 136 2 c.c., sollecitano una diversa interpretazione senza, tuttavia, evidenziare errori di diritto e si rivelano infondate.
In base ai principi enunciati da questa Corte, l’interpretazione degli atti negoziali, ed anche degli atti unilaterali, si sostanzia in un accertamento di fatto (cfr. Cass. n. 9070 del 2013; n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 22318 del 2023; n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006); il sindacato di legittimità è in tal caso limitato alla verifica del rispetto dei canoni ermeneutici, oltre che al controllo di sussistenza di una motivazione logica e coerente (cfr. Cass. n. 21576 del 2019; n. 20634 del 2018; n. 4851 del 2009; n. 3187 del 2009; n. 15339 del 2008) ed esige la specifica indicazione del modo attraverso cui si è realizzata la violazione delle regole interpretative o l’insanabile contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito. Da ciò discende che le censure veicolate col ricorso in cassazione non possono esaurirsi nella prospettazione di una interpretazione alternativa, fondata sulla valorizzazione di alcune espressioni piuttosto che di altre, ma deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la lettura data dal giudice del merito, cui l’attività di interpretazione dell’atto è riservata (cfr., Cass. n.
18214 del 2024; n. 15471 del 2017; n. 27136 del 2017; n. 18375 del 2006).
4. Con il quarto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per omessa parziale pronuncia sul secondo motivo di appello con cui il COGNOME aveva chiesto, in via subordinata e tenuto conto dell’unico aumento retributivo contrattuale intervenuto dopo il 15.7.2009 (esattamente nel gennaio 2011) per l’importo di euro 25,00, il riconoscimento per il periodo da marzo a dicembre 2013 di un superminimo individuale pari ad euro 575,00 mensili, in luogo della diversa somma riconosciuta di euro 471,98 mensili. Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, la deduzione della omessa pronuncia su un motivo di appello integra un error in procedendo che legittima il giudice di legittimità all’esame degli atti del giudizio, in quanto l’oggetto di scrutinio attiene al modo in cui il processo si è svolto, ossia ai fatti processuali che quel vizio possono aver provocato; tale deduzione presuppone, comunque, che la censura sia stata formulata dal ricorrente in conformità alle regole fissate, al riguardo, dal codice di rito, in particolare negli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c. (Cass. n. 16028 del 2023; n. 41465 del 2021).
Nel caso in esame tali requisiti non risultano soddisfatti in quanto il ricorrente non ha allegato e non ha documentato di avere, fin dal ricorso introduttivo di primo grado, proposto la domanda subordinata su cui sarebbe stata omessa qualsiasi pronuncia. Il motivo in esame fa esclusivo riferimento al ricorso in appello ma nulla specifica con riferimento agli atti del giudizio di primo grado, il che impedisce di escludere che i giudici di appello abbiano implicitamente respinto, perché nuova, la domanda subordinata.
5. Le ragioni finora esposte conducono all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso e al rigetto dei residui motivi. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie facendo corretta applicazione dei canoni ermeneutici e della regola di distribuzione dell’onere della prova, e provvederà inoltre alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso nell’adunanza camerale del 21 maggio 2025