Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19154 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19154 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16534-2021 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME tutti nella qualità di eredi di COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE
– intimata –
avverso la sentenza n. 1746/2020 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 18/12/2020 R.G.N. 2118/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Oggetto
Rapporto di lavoro subordinato
R.G.N.16534/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 27/05/2025
CC
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Bari accoglieva per quanto di ragione l’appello proposto dall’associazione RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza del Tribunale della medesima sede in data 11.6.2018 e, per l’effetto, in parz iale riforma di tale sentenza, condannava detta associazione al pagamento, in favore di COGNOME NOME COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, dell’importo di € 6.039,01, oltre accessori di legge, con decorrenza dalla maturazione di ciascuna componente del credito; condannava, altresì, la stessa associazione al pagamento delle spese di lite del primo grado, che liquidava in € 3.500,00, oltre accessori, da distrarsi in favore del difensore degli appellati; poneva definitivamente a carico dell’ap pellante le spese di CTU espletata in prime cure; compensava integralmente tra le parti le spese processuali del giudizio di gravame.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva: a) che gli attuali ricorrenti per cassazione, quali eredi di COGNOME COGNOME, avevano adito il Tribunale di Bari, deducendo che il loro dante causa, con diploma di ottico optometrista, aveva svolto ininterrottamente attività di docenza in favore del RAGIONE_SOCIALE negli anni scolastici dal 2000-2001 al 2008-2009; b) che essi avevano chiesto la condanna dell’associazione convenuta al pagamento dell’importo di € 72.477,07, oltre accessori, ovvero di quello inferiore deciso dal giudice, a titolo di differenze retributive, comprensiva di 13^, ferie e permessi non goduti, oltre che di TFR; c) che il primo giudice, espletata l’istruttoria richiesta e disposta una CTU contabile, nel pronunziarsi sulle domande proposte dagli attori, aveva accertato che tra NOME COGNOME e l’associazione RAGIONE_SOCIALE subentrata nel rapporto
all’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE di Sardano Nicola, era intercorso un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dall’1.9.2000 al 31.8.2009, con inquadramento nel quinto livello del CCNL Aninsei e osservanza di un orario settimanale pari a 32 ore; d) che il Tribunale aveva condannato, quindi, la convenuta al pagamento di € 70.767,79 (di cui € 5.650,93 a titolo di differenze sul TFR), oltre interessi dal 29.11.2016 e rivalutazione come per legge; ed oltre alla rifusione delle spese di lite, liquidate in € 12.000,00, oltre rimborso e accessori con distrazione;.
Tutto ciò premesso, esposti i due motivi di appello e riesaminate le risultanze processuali, la Corte riteneva fondato solo un punto di censura (articolato dall’appellante nell’ambito del secondo motivo d’appello), con riferimento alla pretesa delle differenze salariali maturate nel periodo anteriore al 2005, in forza di un orario lavorativo articolato in 32 ore settimanali, anziché in 10.
3.1. In particolare, considerava che le valutazioni espresse dal primo giudice circa la sostanziale equivalenza dell’orario osservato nel corso dell’intero periodo lavorativo non erano meritevoli di conferma.
Secondo la Corte, infatti, doveva disporsi la rideterminazione degli importi dovuti agli eredi del COGNOME, relativi al periodo dall’anno 2000 al 2004, alla luce dell’inferiore orario di lavoro svolto dal de cuius , pari a 10 ore settimanali.
3.2. Più nello specifico, ponendo a base del ricalcolo gli importi conteggiati dal primo C.T.U. e operato un parziale scorporo pari a 2/3 delle somme ivi indicate, la Corte perveniva all’individuazione, in capo agli eredi del COGNOME, di un credito
retributivo pari ad € 6.039,01 (di cui € 696,01 a titolo di TFR), oltre accessori, da calcolarsi dalla maturazione di ciascuna componente del credito e sino al soddisfo.
Infine, la Corte, in ordine alle spese di lite, rilevava che la riforma, seppur parziale, della sentenza di primo grado determinava l’automatica caducazione del capo della pronuncia relativa alle spese disposta dal primo giudice, dovendo dunque procedersi ad una nuova regolamentazione in ossequio ai parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto dell’esito complessivo della lite e dunque dell’accoglimento solo parziale della domanda proposta dagli allora appellati, restando a carico dell’appellant e le spese della C.T.U. espletata.
Avverso tale decisione COGNOME NOME COGNOME NOME e COGNOME NOMECOGNOME nella loro spiegata qualità, hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi e successiva memoria.
L’intimata è rimasta tale non avendo svolto difese in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti deducono ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 2733 c.c. e 228 c.p.c. (confessione giudiziale), nonché dell’art. 2735 c.c. (confessione stragiudiziale), anche in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Censurano ‘la sentenza d’appello nella parte in cui il Giudice d’appello ha disatteso la prova legale formatasi in forza di confessione stragiudiziale e giudiziale, dando invece rilievo probatorio alla dichiarazione di un testimone. E ciò in violazione del principio secondo cui costituisce violazione degli
artt. 2733-2735 c.c. – oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c. -la circostanza che il giudice di merito abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali (Cass. 27544/2020; Cass. Sez. Lav. 6754/2020; Cass. 3323/2018; Ca ss. 27000/2016)’.
Con il secondo motivo denunciano ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Censurano ‘la sentenza d’appello nella parte in cui la C. appello, in forza di un’errata interpretazione dell’art. 2697 c.c., ha ritenuto non assolto l’onere probatorio gravante sul ricorrente sol perché, su un aspetto della controversia, erano emerse dichiarazioni di segno diverso; la decisione è sul punto contraria all’insegnamento secondo cui la soccombenza dell’attore consegue all’inottemperanza dell’onere probatorio posto a suo carico soltanto nell’ipotesi in cui le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, non siano sufficienti per provare i fatti che costituiscono il fondamento del diritto che si intende far valere in giudizio (Cass. 13578/2016; 4806/2013; 15162/2008)’.
Con un terzo motivo denunciano ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 2033, 1429-1430, 2077, 2697 c.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Censurano ‘la sentenza d’appello nella parte in cui il giudice d’appello, nel fissare il criterio di calcolo delle somme dovute al ricorrente, ha viola(to) il principio di diritto, già più volte affermato da questa S.C., secondo cui il datore di lavoro non può compensare le somme versate in eccesso al lavoratore con quelle a lui dovute per differenze retributive maturate per altre annualità, salvo che il datore di lavoro deduca e provi la sussistenza di un indebito oggettivo ex art. 2033 c.c. o di un errore essenziale e riconoscibile ex artt. 1429-
1430 c.c. (Cass. 31644/2018; Cass. 818/2017; Cass. 19923/2014). Le somme erogate oltre i minimi contrattuali non danno quindi luogo ad una posizione creditoria in favore della parte datrice e risulta inoperante ogni forma (di) compensazione. Cass. 31644/20 18)’.
Con un quarto motivo denunciano ‘In subordine: nullità della sentenza per irriducibile contrasto fra i criteri in essa fissati per il calcolo delle somme dovute e quanto invece quantificato, anche in dispositivo (art. 360 n. 4 c.p.c.); violazione dell’a rt. 132 n. 4 e 111 Cost. (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Censurano ‘la sentenza d’appello nella parte in cui, anche seguendo il criterio di calcolo fissato dal Giudice, risulta incomprensibile come la Corte sia giunta a quantificare in € 6.039,01 il credito dei deducenti. Emerge quindi un insanabile contrasto fra il criterio che il Giudice indica per il calcolo delle somme dovute e la parte della sentenza -e del dispositivo -nella quale invece la Corte ha fissato l’importo finale. Peraltro, dalla tortuosa e sint etica espressione utilizzata in motivazione non è dato evincere che si tratti di un errore di calcolo o se invece derivi dall’utilizzo di presupposti diversi rispetto a quelli enunciati in motivazione: sì che ricorrono tutti i presupposti per la declaratoria di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. e, comunque, per violazione dell’art. 132, n. 4 c.p.c.’.
Con il quinto motivo denunciano ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 4 co. 1, 5 del D.M. 55/2014 (art. 360 n. 3 c.p.c.)’. Impugnano ‘la sentenza nella parte in cui, con riferimento alla quantificazione delle spese di lite di primo grado di gi udizio, la Corte d’appello ha totalmente omesso di specificare le singole voci prese in esame e, oltre a rendere quindi imperscrutabile il rispetto delle tariffe professionali, ha
fissato comunque un importo del compenso inferiore rispetto ai valori medi. Il tutto in violazione del noto principio secondo cui il giudice deve liquidare l’ammontare separatamente, distinguendo le singole voci, poiché non sono conformi alla legge liquidazioni generiche ed omnicomprensive, in quanto non consentono il controllo sulla correttezza della liquidazione; il suddetto principio vale anche nel caso in cui non sia stata presentata la nota specifica (Cass. 15227/2018; Cass. 4/6/2013, n. 14007)’.
6. Il primo motivo è infondato.
In tale doglianza s’impugna la parte della sentenza di secondo grado in cui la Corte, nell’accogliere l’appello del Centro Studi con riferimento agli orari di lavoro osservati dal lavoratore nel periodo 2000-2004, ha attribuito rilevanza probatoria alle dichiarazioni del testimone della controparte, senza considerare che le circostanze di fatto riferite dal teste -poi poste a fondamento della decisione -erano coperte dalla confessione giudiziale e stragiudiziale, di diverso segno, formulata dalla legale rappresentante del Centro.
Orbene, è sufficiente in contrario osservare che dagli stralci, rispettivamente, della dichiarazione stragiudiziale e di quella giudiziale della legale rappresentante dell’associazione, che gli stessi ricorrenti riportano tra la pag. 7 e la pag. 8 del ricorso, asserendone la natura confessoria, non si riscontra la benché minima affermazione specificamente riferita all’orario di lavoro osservato dal lavoratore nel periodo 2000-2004, oggetto della censura in esame, e men che meno un’affermazione ammissiva del dato che anche in quel periodo lavorativo l’orario sarebbe stato di 32 ore settimanali.
Pertanto, nessuna delle norme di diritto sostanziale e processuale cui si riferiscono i ricorrenti può reputarsi violata o falsamente applicata dalla Corte di merito, la quale, non essendo vincolata ad alcuna prova legale in relazione all’aspetto precipuo oggetto della parziale riforma, ben poteva formare il proprio convincimento a riguardo in base al proprio prudente apprezzamento delle prove assunte.
Parimenti infondato è il secondo motivo, a tratti pure inammissibile.
Nessuna violazione del principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. è riscontrabile nell’impugnata sentenza nella quale la Corte territoriale non ha affatto ‘preteso’, come invece si asserisce in ricorso, ‘l’inesistenza di prove di segno contrario rispetto a quanto prospettato dai ricorrenti’.
La Corte, piuttosto, ‘riesaminando le testimonianze assunte in giudizio’, ha considerato che ‘emerge un evidente profilo di incertezza in ordine all’orario di lavoro osservato dal COGNOME nel corso dei primi anni di servizio, non risultando del tutto esaurienti le dichiarazioni rese su tale aspetto dei testi COGNOME e COGNOME (deposizioni, queste, di cui la stessa Corte aveva dato conto in precedenza nella sua motivazione: cfr. pagg. 5-6 della sua sentenza).
Ha, poi, considerato che ‘in ordine a tale profilo’ l’altro ‘teste NOME COGNOME che, in qualità di collega di lavoro del COGNOME, ha fornito, in merito all’orario di lavoro, un resoconto particolarmente dettagliato’, che è stato riportato testualmente in sentenza.
Ha, infine, considerato che ‘Trattasi di dichiarazioni che, oltre a provenire da soggetto avente una cognizione diretta dei fatti di causa, appaiono sicuramente verosimili sul piano logico, in quanto correlano l’inferiore articolazione dell’orario di lavor o a circostanze di fatto, quale la sussistenza in un primo periodo di diversi docenti abilitati ai corsi di ottica, confermate da altri testi e del tutto coerenti con la prospettazione di parte appellante’.
Incensurabile, pertanto, in diritto è l’ulteriore conclusione tratta in ordine all’incertezza del quadro probatorio complessivo in ordine al ridetto profilo sul quale l’onere della prova senz’altro incombeva sui ricorrenti, attori in giudizio quali eredi aventi causa dal defunto lavoratore. La diversa prospettazione dei ricorrenti è inammissibile, perché sollecita a questa Corte una rivalutazione delle risultanze istruttorie, interdetta in sede di legittimità, in quanto riservata al giudice di merito.
13. Il terzo motivo è inammissibile.
14. A prescindere dalla considerazione che la censura si fonda su conteggi in questa sede operati dai ricorrenti per assumere che ‘la circostanza che il criterio di calcolo stabilito dalla Corte finisca per violare tali principi è presto provata’ (v. pagg. 15-17 del ricorso), e quindi su accertamento fattuale e contabile che non trova riscontro nell’impugnata sentenza, i ricorrenti invocano il principio di diritto, secondo cui il datore di lavoro non può compensare le somme versate in eccesso al lavoratore con quelle a lui dovute per differenze retributive maturate per altre annualità, salvo che egli deduca e provi la sussistenza di un indebito oggettivo (ex art. 2033 c.c.) o la sussistenza di un errore essenziale e riconoscibile.
14.1. Ebbene, a riguardo basti rilevare che i ricorrenti non specificano se, quando e come la controparte, sia pure con formule non sacramentali, avrebbe opposto una compensazione o richiesto una ripetizione di somme asseritamente versate in eccesso o altrimenti non dovute.
Neppure deducono ancor prima che ‘le retribuzioni già corrisposte nel corso del rapporto (pari ad € 78.456,20)’, che la Corte ha detratto dal maggior importo calcolato per giungere alla differenza dovuta al lavoratore per l’intera durata del rapporto, riflettessero, in tutto o in parte, somme versate in eccesso o altrimenti non dovute allo stesso, segnatamente nel periodo lavorativo 2000-2004.
In definitiva, il motivo, non solo difetta di autosufficienza, ma pone altresì in questa sede di legittimità una questione nuova, non risultando assolutamente che nei gradi di merito si fosse discusso di somme versate in eccesso o non dovute al lavoratore.
15.1. Secondo un consolidato indirizzo di legittimità, infatti, in materia di ricorso per cassazione i motivi, a pena di inammissibilità, devono investire questioni comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo ammissibili in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, fatta eccezione per le questioni rilevabili d’ufficio (così, ex plurimis , Cass. civ., sez. trib., 8.4.2022, n. 11468; id., sez. I, 2.9.2021, n. 23792). Inoltre, nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice del merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano
formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello (così, ad es., Cass. civ., sez. lav., 27.8.2003, n. 12571).
16. Pure inammissibile è il quarto motivo.
I ricorrenti, infatti, assumono che, ‘Posto che l’applicazione di regole matematiche’, e non giuridiche, ‘conduce ad una ed una sola -soluzione, è impossibile comprendere come possa la Corte d’appello, applicando il criterio esplicitato in sentenza, esser pervenuta a quantificare in € 6.039,01 l’importo dovuto ai ricorrenti perché, in effetti, non tornano i conti’.
Ebbene, secondo un ormai consolidato indirizzo di questa Corte, più volte espresso anche a Sezioni unite, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto si riferi sce all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Anomalia che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafic o, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (così, ex plurimis , più di recente Cass., sez. un., 21.12.2022, n. 37406).
Dunque, come risulta chiaramente dall’esteso sviluppo della censura in chiave aritmetico-contabile (cfr. pagg. 20-23 del ricorso), i ricorrenti tentano di rappresentare come anomalia motivazionale pretesi errori di calcolo in senso stretto attribuiti ai giudici di secondo grado.
Ora, rilevato che la parte di motivazione che sorregge la parziale riforma della sentenza di primo grado in punto di quantum (cfr. pagg. 10-11 della sentenza) è da leggersi ovviamente alla luce dell’elaborato del C.T.U. nominato in primo grado, cui la Corte ha fatto esplicito e reiterato riferimento (atto, questo, noto alle parti), tutte le deduzioni dei ricorrenti s’incentrano su risultanze processuali estrinseche rispetto alla motivazione come tale in parte qua , e, cioè, alla relazione del C.T.U. ed ai documenti alla stessa allegati (v. nuovamente le cit. pagine del ricorso per cassazione).
E’ infine infondato l’ultimo motivo circa la rideterminazione delle spese processuali di primo grado quanto al compenso ritenuto dovuto al difensore degli attori.
Difatti, i ricorrenti, neanche denunciano che tale nuova liquidazione abbia violato i minimi tabellari applicabili ex D.M. n. 55/2014.
22.1. E, secondo un consolidato orientamento di questa Corte anche di recente confermato (cfr. nella motivazione Cass. n. 22369/2024), in tema di liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo dei parametri previsti, non è soggetto al controllo di legittimità, attenendo pur sempre a parametri indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida
di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo in tal caso necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso (così, tra le altre, Cass. n. 14198/2022).
E’ evidente, inoltre, che tale nuova liquidazione riflette esattamente l’esito complessivo della lite, con una riduzione della condanna da euro 70.767,79 pronunziata dal Tribunale a quella di euro 6.039,01 pronunziata dai Giudici d’appello.
Nulla dev’essere disposto quanto alle spese in difetto di costituzione in questa sede dell’intimata, ma i ricorrenti sono tenuti al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 27.5.2025.
Il Presidente NOME COGNOME