Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 17622 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 17622 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 30/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 18325 – 2019 proposto da:
NOMECOGNOME elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dalla quale è rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, con indicazione de ll’ indirizzo pec;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE. di RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME dai quali è rappresentata e difesa con gli avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura in calce al controricorso, con indicazione degli indirizzi pec;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2476/2018 del TRIBUNALE di TREVISO, pubblicata il 6/12/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
2/7/2024 dal consigliere NOME COGNOME
letta la memoria della ricorrente.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 4 aprile 2012, l’avv. NOME COGNOME convenne in giudizio, dinnanzi al Giudice di pace di Montebelluna, la RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE chiedendone la condanna al pagamento in suo favore della somma di Euro 2.768,40, oltre interessi e rivalutazione monetaria, a titolo di compensi per la prestazione d’opera professionale svolta in suo favore, quale avvocato domiciliatario.
L’RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE & COGNOME RAGIONE_SOCIALE eccepì il suo difetto di legittimazione passiva e contestò in ogni caso che in suo favore fossero state prestate le attività professionali per cui era stato chiesto compenso.
Con sentenza n. 121/2013, il Giudice di pace di Montebelluna accolse parzialmente la domanda, escludendo soltanto alcune tra le voci dei compensi richiesti e condannando la società convenuta al pagamento della somma di Euro 1.414,04, oltre interessi, quale residuo dovuto al netto della detrazione degli acconti già versati; infine, compensò per il 50% le spese di lite, ponendo il residuo 50% a carico della convenuta.
Il giudice di primo grado rilevò che la società, conferendo mandato alle liti all’avv. COGNOME del foro di Como, aveva espressamente riconosciuto a quest’ultimo la facoltà di «sostituire a sé altri procuratori con propri poteri, nominare sostituti e/o procuratori, anche domiciliatari» e ritenne accertato che la società convenuta fosse consapevole che gli acconti versati fossero stati corrisposti all’avv.
COGNOME per l’attività svolta quale domiciliatario; ritenne pure accertato che l’avv. COGNOME non si fosse limitata a svolgere mere funzioni di domiciliataria, ma avesse partecipato ad alcune udienze svolgendo le relative attività procuratorie necessarie.
L’RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE propose appello dinnanzi al Tribunale di Treviso, reiterando l’eccezione di difetto di legittimazione passiva e la contestazione della sussistenza della prova dell’attività professionale asseritamente svolta.
NOME COGNOME propose appello incidentale, chiedendo la condanna della convenuta al pagamento dell’intero importo preteso di Euro 2.768,40, come portato dalla parcella.
Con sentenza n. 2476/2018 il Tribunale di Treviso accolse l’appello principale, rigettando la domanda, con assorbimento dell’appello incidentale e condannò NOME COGNOME al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio.
In particolare, rilevò che NOME COGNOME si era limitata a produrre in giudizio la copia della procura speciale conferita dalla società appellante all’avv. COGNOME che l ‘ aveva designata come domiciliataria, delegandole alcune attività, ma non aveva assolto l’onere probatorio su di lei incombente, quale attrice, di dimostrare l’attività effettivamente svolta.
Avverso la sentenza n. 2476/2018 del Tribunale di Treviso, NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi, illustrati da successiva memoria; l ‘RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, NOME COGNOME ha lamentato, in riferimento al n.5 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ. , l’omessa valutazione, da parte del Tribunale, del la condotta della società in corso di esecuzione del contratto e, in particolare, l’avvenuto
versamento di più acconti e la negazione del rapporto intercorso soltanto con la costituzione in giudizio; non sarebbe stato neppure considerato che era stato contestato soltanto il suo ruolo di codifensore e che con il pagamento degli acconti la società aveva comunque riconosciuto il suo debito; infine, non sarebbe stata esaminata la conferma dell’attività da lei svolta come riportata dallo stesso avv. COGNOME nelle due missive a sua firma prodotte dalla società, nonché la mancata contestazione specifica delle singole attività dettagliate nel preavviso di parcella e, infine, l’accoglimento integrale della sua pretesa in una causa d’appello «gemella» (così in ricorso), da lei instaurata nei confronti di un’altra società pure riconducibile a NOME COGNOME
1.2. Con il secondo motivo, NOME COGNOME ha sostenuto, in riferimento al n.5 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., che il Tribunale avrebbe violato il disposto degli artt. 115 e 167 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. non considerando che era stato prodotto un preavviso di parcella dettagliato per tipologia di adempimenti e che la controparte non aveva formulato alcuna contestazione, corrispondendo invece, in sua esecuzione, alcuni acconti: in conseguenza, il Tribunale avrebbe erroneamente trascurato che a una specifica allegazione deve corrispondere una contestazione altrettanto specifica la cui mancanza dispensa dalla prova.
1.3. Con il terzo motivo, la ricorrente ha denunciato, in riferimento al n.4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per errore di valutazione delle prove documentali: in particolare, anche con questa censura, ella ha sostenuto che il Tribunale di Treviso non avrebbe dato conto della valenza probatoria del la documentazione attestante l’attività svolta per la società e da quest’ultima incontestata , quali il preavviso di fattura in cui erano state descritte nel dettaglio le attività prestate e le missive a
fir ma dell’avv. COGNOME allegate dalla stessa società, con cui è stato confermato il lavoro svolto.
I tre motivi, che possono essere trattati congiuntamente per continuità di argomentazione, sono inammissibili.
La Corte d’appello ha motivato il rigetto della domanda dell’avv. COGNOME rimarcando innanzitutto che l’avvocato istante non aveva offerto prova di avere effettivamente svolto l’attività indicata nella nota allegata alla diffida di pagamento e che in tal senso non fosse risultata rilevante la prova testimoniale da lei offerta in primo grado, ammessa dal Giudice ed espletata, in quanto vertente soltanto sull’avvenuto conferimento dell’incarico.
La domanda è stata, invero, fondata su un preavviso di fattura che, in sé, per la sua formazione unilaterale, ha quale unica funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto e s’inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, ma non può, proprio per questa sua formazione e struttura, costituire prova del contratto tanto dei suoi elementi costitutivi quanto della corrispondenza della prestazione indicata come eseguita con quella pattuita; al più, infatti, può costituire indizio dell’esistenza del credito in essa riportato.
Certamente, dunque, l’onere probatorio del credito al compenso non può dirsi assolto con la sola produzione del preavviso di parcella, atteso che la convenuta società ha, con la sua comparsa di risposta, specificamente contestato le voci pretese, riproponendo questa contestazione in appello.
Per quanto detto, contestato in giudizio l’importo da parte del destinatario del preavviso di fattura, incombeva certamente sull’avvocata emittente l’onere di provare l’esatto ammontare del proprio credito.
Tale regola non muta solo perché il debitore convenuto, oltre a contestare la cifra fatturata, risulta aver già pagato una somma diversa e inferiore.
In conseguenza, è del tutto inconferente l’invocazione dell’onere di specifica contestazione di cui all’art. 115 cod. proc. civ. in riferimento al pagamento degli acconti, in quanto riferibile, invece, alla contestazione in sede giudiziale: il principio di non contestazione, con conseguente relevatio dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a prendere posizione (Cass. Sez. 3, n. 3023 del 17/02/2016; Sez. 2, n. 20525 del 29/09/2020).
Nella fattispecie, invece, come argomentato nella sentenza impugnata, alla contestazione sia della sussistenza di un mandato che dell’effettivo svolgimento dell’attività di difesa l’avvocata istante non ha prodotto alcuna prova, limitandosi ad articolare una prova per testi soltanto sull’avvenuto conferimento del mandato.
In tal senso, come è stato specificato da questa Corte anche rispetto alla parcella vistata dal Consiglio dell’ordine, ove vi sia contestazione da parte del cliente in ordine all’effettività e alla consistenza delle prestazioni eseguite o all’applicazione della tariffa pertinente ed alla rispondenza ad essa delle somme richieste – e a tal fine è sufficiente anche una contestazione di carattere generico – il giudice è investito del potere-dovere di verificare il quantum debeatur senza incorrere nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e sull’avvocato, incombono i relativi oneri probatori ex art. 2697 cod. civ. (cfr. Cass. Sez. 6 – 2, n. 712 del 15/01/2018; Sez. 2, n. 40633 del 17/12/2021).
Quanto all’omessa valutazione delle missive del difensore della società, di là della loro valenza probatoria in quanto provenienti da un terzo, dal contenuto riportato in ricorso non emerge affatto la loro decisività, posto che vi è confermato soltanto che l’avvocata ricorrente è stata domiciliataria.
Quanto, infine, all ‘argomentazione relativa alla asserita valenza probatoria della documentazione nella sentenza indicata come «gemella», è evidente la mancanza di decisività, sol che si consideri che la decisione e i documenti concernevano un diverso rapporto professionale.
Tutta la costruzione delle tre censure, in riferimento al n. 5 le prime due e al n. 4 la seconda, si traduce, in conclusione, in una critica al mancato utilizzo del ragionamento presuntivo da parte della Corte d’appello da fondarsi sui prospettati indizi trascurati.
Per essere sindacabile, tuttavia, il vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo deve essere prospettato in riferimento all’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, non certamente -come accaduto nella specie -come sola prospettazione di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito che avrebbe potuto essere fondato su un elemento indiziario invece trascurato.
Invero, spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alla presunzione, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge; è, pertanto, escluso, secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato da tempo risalente, che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (Sez. 1, Sentenza n. 764 del 05/04/1960, Sez. L, Sentenza n. 15737 del 21/10/2003, Sez. L, Ordinanza n. 22366 del 05/08/2021; cfr. Sez. 2, n. 9054 del 21/03/2022).
Il ricorso è perciò respinto, con conseguente condanna del l’avv. NOME COGNOME al rimborso delle spese processuali in favore dell’ RAGIONE_SOCIALE di COGNOME RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, liquidate in dispositivo in relazione al valore.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna NOME COGNOME al pagamento, in favore dell’RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda