Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25305 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25305 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21011/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliato in presso lo studio dell’avvocato COGNOME che lo rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME rappresentat a e difesa dall’avvocato COGNOME;
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di NAPOLI n. 403/2022 depositata il 02/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/04/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2013 la società RAGIONE_SOCIALE e il sig. NOME COGNOME convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, la società RAGIONE_SOCIALE per far dichiarare la risoluzione del contratto di cessione di crediti stipulato in data 20.12.2005 (modificato e integrato da contratti successivi: del 5.7.2007, del 13.11.2007, dell’11.7.2008, del 1.12.2008), per cui il COGNOME aveva prestato fideiussione, deducendo il grave inadempimento della convenuta in relazione all’attività di gestione e di recupero dei crediti ceduti. Chiedevano altresì che il giudice dichiarasse, per l’effetto, non dovute le commissioni di factoring, di plus factoring e di gestione addebitate alla società attrice in costanza di rapporto.
In via subordinata, previa declaratoria di nullità delle clausole che prevedevano la corresponsione delle commissioni di gestione, chiedevano al Tribunale di: a) rideterminare tutte le somme percepite dalla convenuta nel corso del rapporto; b) accertare l’eventuale usurarietà dei tassi di interesse applicati; c) condannare la convenuta al pagamento di un compenso per l’attività di gestione e di recupero, infine necessariamente svolta dalla stessa società cedente, nonché al risarcimento dei danni subiti a cagione del dedotto inadempimento della controparte, da quantificare anche a mezzo c.t.u.
A fondamento della sua pretesa, parte attrice deduceva che: a) il 20.12.2005 la società istante concludeva con la convenuta un contratto di cessione dei crediti vantati dalla prima nei confronti
della ASL Napoli 1 – per il valore di Euro 2.087.169,33 – nonché di tutti i crediti futuri nei confronti dell’azienda sanitaria per prestazioni da erogare; b) la cessionaria-factor si era resa inadempiente per non avere mai compiuto alcun atto di gestione o di recupero dei crediti ceduti, o comunque alcun tentativo in tal senso, pur continuando a percepire gli interessi passivi e le commissioni mensili per l’attività di incasso e di recupero dei crediti, cui avrebbe dovuto provvedere; c) il Centro di Riabilitazione, da un lato, non risultava più titolare dei detti crediti, avendoli ceduti; dall’altro, non poteva restituire alla società di factoring le anticipazioni ricevute e recedere dal contratto, a causa del mancato incasso da parte dello stesso factor dei crediti ceduti; d) l’intera gestione finanziaria dei suddetti rapporti di factoring veniva contabilizzata in due rapporti di conto corrente, evincendosi, alla data della citazione, un formale saldo negativo per la società cedente di Euro 3.614.550,91, per il primo conto corrente, e di Euro 1.655.105,95, per il secondo; e) l’importo complessivo addebitato dal factor alla cedente era pari ad Euro 1.316.856,17 per un’attività di gestione del credito mai svolta, cui si aggiungeva l’importo di Euro 1.383.217,21, a titolo di interessi passivi addebitati alla cedente sui due conti; f) i menzionati interessi dovevano ritenersi usurari ai sensi della L. n. 108 del 1996, poiché il TAEG applicato superava il c.d. ‘tasso soglia’ previsto nei decreti ministeriali del M.E.F. per la specifica categoria di operazioni di factoring.
Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 9379/2017, dichiarava la improponibilità della domanda relativa alla violazione della L. n. 108/1996, poiché generica e indeterminata, e rigettava la domanda di risoluzione per grave inadempimento; per l’effetto, condannava gli attori alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta.
Avverso la sentenza del Tribunale proponeva appello il Centro di Riabilitazione, deducendo la erroneità e chiedendo la riforma della
sentenza impugnata, in accoglimento delle conclusioni rassegnate in primo grado.
In particolare, l’appellante assumeva che: a) con riferimento all’accertamento della usurarietà degli interessi, parte attrice aveva proposto tale domanda sin dall’atto di citazione, e non già per la prima volta nella memoria integrativa ex art. 164, comma 5, c.p.c.; b) con riferimento alla domanda di risoluzione per grave inadempimento, il Giudice di prime cure non avrebbe tenuto conto né della unicità della vicenda contrattuale, realizzata con il contratto del 2005 e con gli accordi successivi, né della esistenza, a carico della cessionaria, dell’obbligazione di gestione dei crediti ceduti, curandone l’incasso, invero prevista dall’art. 8 delle condizioni generali di contratto.
La Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 403/2022, rigettava l’interposto gravame, confermando integralmente la sentenza impugnata; di poi, condannava l’appellante al pagamento delle spese processuali del grado.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società RAGIONE_SOCIALE affidando le sorti dell’impugnazione ad un unico motivo.
3.1. Ha resistito con controricorso Bper Banca S.p.A.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo ed unico motivo, articolato in tre distinte censure, si prospetta: violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1815 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99 e/o 112 c.p.c., 1418 e/o 1421 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.; omesso esame circa un fatto decisivo della controversia
che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
Affidando le doglianze a una trattazione unitaria del motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per avere il giudice d’appello acriticamente recepito le argomentazioni della decisione di primo grado, limitandosi a reiterarne le statuizioni senza svolgere una autonoma valutazione delle risultanze istruttorie. In particolare, si contesta che la Corte territoriale abbia affermato l’omessa indicazione dei tassi applicati nella consulenza tecnica di parte, senza esaminare effettivamente il contenuto della stessa né confrontarsi con i rilievi critici formulati dall’appellante.
In tal modo, la Corte territoriale ha escluso l’ammissione della consulenza tecnica d’ufficio in materia contabile, ritenendo non assolto l’onere di allegazione in capo all’appellante quanto alla specifica misura dei tassi di interesse applicati. Ha quindi motivato il diniego sostenendo che, in assenza di precise indicazioni sul punto, la richiesta di c.t.u. avrebbe avuto carattere meramente esplorativo, e pertanto inammissibile, per difetto di un’adeguata base fattuale posta dall’onerata parte a fondamento della domanda.
Deduce, in proposito, che, già con la memoria integrativa depositata il 29.7.2013 in primo grado, l’attore aveva prodotto in allegato la consulenza tecnica contabile di parte, concernente proprio, e in modo specifico, la verifica della usurarietà del tasso di interesse effettivo (TEG) applicato al rapporto controverso.
Sostiene che in tale consulenza – poi depositata nuovamente in grado d’appello – il consulente tecnico di parte avrebbe dato specificamente conto dei tassi di interesse effettivi applicati dalla cessionaria sui conti correnti oggetto di giudizio (pagg. 6-8
della consulenza), raffrontandoli con i ‘tassi soglia’, ed indicando anche lo scostamento tra il TEG e il tasso soglia di periodo, il tutto per ciascun trimestre.
Ritiene, pertanto, che già il Giudice di prime cure – come pure il Giudice d’appello – avrebbe dovuto pronunciarsi nel merito della domanda di accertamento della violazione della L. n. 108/1996 e, in ogni caso, rilevare d’ufficio la suddetta violazione, provvedendo, in applicazione dell’art. 1815 c.c., a dichiarare non dovuti tutti gli interessi e competenze passive specificamente individuati nella consulenza di parte, peraltro mai contestata dalla controparte.
Asserisce – ancora – che, se il Giudice di primo grado non avesse voluto tenere conto della consulenza tecnica di parte, avrebbe dovuto ammettere la ‘richiesta’ c.t.u. contabile, per la verifica del superamento (e -in caso positivo -per la quantificazione) degli interessi e delle competenze passive addebitati sui due conti correnti, con rideterminazione del saldo effettivo dei rapporti. Riferisce, a tal proposito, che la consulenza tecnica d’ufficio contabile era stata specificamente ‘richiesta’ in primo grado dall’attrice con la memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.
La censura riprende, in proposito, l’arresto di Cass. civ., SS.UU., sent. 12/12/2014 n. 26242, secondo il cui principio il giudice, nel giudizio d’appello e in quello di Cassazione, in caso di mancata rilevazione ufficiosa in primo grado di una nullità contrattuale, può procedere ad un siffatto rilievo, il quale sarebbe sempre obbligatorio, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata ragione più liquida.
5.1. Il motivo – nelle distinte censure in cui si articola – risulta in parte inammissibile e in parte infondato.
5.1.1. Preliminarmente, deve dichiararsi l’inammissibilità del la censura nella parte in cui è dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella sua attuale formulazione (che si deve all’art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134/2012), introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza intesa in senso storiconaturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti, avente carattere decisivo, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente questioni ed argomentazioni difensive (cfr., per tutti, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
È appena il caso di osservare, in proposito, che l’omesso esame deve avere per oggetto ‘un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storiconaturalistico’ (Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014), un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Sez. U, Sentenza n. 5745 del 23/03/2015). Esulano, dunque, dalla nozione di ‘fatto’, il cui omesso esame possa integrare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., le argomentazioni o le deduzioni difensive (Sez. 2, Sentenza n. 14802 del 14/06/2017), gli elementi istruttori (nel senso che la consulenza tecnica d’ufficio non sia un ‘fatto storico’: Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12387 del 24/06/2020), una moltitudine di fatti e circostanze, ovvero il ‘vario insieme dei materiali di causa’ (Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018).
Ed invero, la doglianza mira, al fondo, a mettere in discussione il giudizio di fatto con cui la Corte partenopea, nel suo prudente
apprezzamento (art. 116 c.p.c.), ha esaminato e valutato la consulenza tecnica di parte riversata in atti, laddove ha dichiarato (a pagg. 6 ss. della sentenza impugnata) che in essa non potesse ravvisarsi alcun univoco ed espresso richiamo alle determinazioni pattizie accettate dalla parte cedente, così ritenendo che una siffatta deficienza allegatoria non potesse che riversarsi in danno all’attore. Ciò in quanto la prova grava su colui che asserisce, nella sua prospettazione, la natura usuraria degli interessi (a tal proposito, la Corte di merito ha evocato il precedente di Cass. n. 19282/2014).
Nel caso di specie, le censure veicolate dal ricorrente mirano non soltanto a contrapporre una propria valutazione dell’assetto probatorio, diversa da quella operata dalla Corte di merito, non conforme alle sue aspettative (v. Sez. 3, Sentenza n. 20322 del 20/10/2005), ma soprattutto a sollecitare a questa Corte di legittimità una rivalutazione del corredo istruttorio, che sia alternativa a quella compiuta dal giudice del merito, pur se a questi riservata, e in quanto tale non sindacabile, nel suo intrinseco contenuto fattuale, in questa sede, non potendo il giudizio di legittimità assurgere a giudizio di merito di terzo grado (in tal senso, di recente, Sez. 3, Ordinanza n. 33125 del 18/12/2024).
Ne discende che, al di là della formale intestazione del motivo, nella sostanza non viene dedotto né il vizio di omesso esame propriamente inteso, ut supra descritto, né il vizio di motivazione costituzionalmente rilevante per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
Costituisce infatti apprezzamento propriamente fattuale quello in cui la Corte di merito ha dichiarato (a pag. 6): « é gli interessi applicati sono indicati dal consulente di parte, che si è limitato, nelle proprie operazioni di calcolo, ad estrapolare ‘tutti
gli interessi passivi trimestrali applicati nel corso del rapporto’ (pag. 10), senza indicare le ragioni della ritenuta illiceità per usurarietà degli stessi ».
E ciò fermo il fatto che – si osserva ad abundantiam – ove la doglianza in esame integrasse effettivamente la specifica fattispecie dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., pure questa sarebbe inammissibile ex art. 348ter , ult. comma, c.p.c., qui ratione temporis applicabile, in quanto si sarebbe in presenza di una insuperabile doppia conforme, non avendo la parte dimostrato che, nella specie, le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione d’appello differiscano da quelle poste a base della sentenza di primo grado (v., Sez. 5, Ordinanza n. 5445 del 01/03/2025; Sez. 3, Ordinanza n. 26934 del 20/09/2023; Sez. 3, Ordinanza n. 5947 del 28/02/2023; Sez. 1, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016; Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014).
5.1.2. Alla luce delle esposte considerazioni, fermo l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte di merito, deve ritenersi infondato il motivo nella parte in cui è poi denunciata stavolta in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione degli artt. 1418, 1421 e 1815 c.c.
Sul punto, risultano infruttuosamente evocati dal ricorrente, a sostegno della censura de qua , i precedenti di Cass. civ., SS.UU., sentt. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243 (cc.dd. ‘sentenze gemelle in tema di impugnativa negoziale’), con le quali si è affermato che il giudice ha l’obbligo di rilevare la nullità del contratto in qualsiasi stato e grado del giudizio (e, quindi, anche di rigettare la domanda giudiziale), in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale, muovendo dalla constatazione per cui l’oggetto del processo è qui costituito non dal diritto potestativo (come veniva qualificato in dottrina) fondato sul singolo motivo dedotto in giudizio ( i.e. , motivo di annullamento,
di rescissione, di risoluzione, di nullità), bensì il contratto in se stesso considerato, con il rapporto giuridico sostanziale che da questo scaturisce. È in quest’ottica che si è pure riconosciuto il potere-dovere del giudice di trasformare la domanda tardiva di nullità in eccezione di nullità, rilevabile d’ufficio.
Una simile soluzione non può ritenersi applicabile al caso di specie, risultando chiaramente inconferente rispetto alla fattispecie dedotta in giudizio.
Giova, infatti, ribadire -come peraltro puntualizzato nei summenzionati arresti – che il rilievo ufficioso della nullità contrattuale non può giammai supplire a deficienze allegatorie o assertorie che gravano sulle parti. Del resto, nei casi in cui la rilevazione di una nullità contrattuale sia inscindibilmente connessa alla allegazione o alla prova di parte – come è a dirsi per l’usura – un siffatto accertamento ufficioso è, a più forte ragione, precluso al giudice in radice.
Orbene, venendo all’esame della fattispecie, la decisione impugnata non si discosta dall’indirizzo di legittimità (qui applicabile, ancorché affermato in relazione all’usura rispetto agli interessi moratori), che il Collegio condivide e che intende ribadire, secondo cui, nelle controversie relative alla spettanza e alla misura degli interessi moratori, l’onere della prova, ai sensi dell’art. 2697 c.c., si atteggia nel senso che il debitore che intenda dimostrare l’entità usuraria degli stessi è tenuto a dedurre il tipo contrattuale, la clausola negoziale relativa agli interessi moratori e quelli applicati in concreto, l’eventuale qualità di consumatore, la misura del TEGM nel periodo considerato, nonché gli altri elementi contenuti nel decreto ministeriale di riferimento, mentre la controparte dovrà allegare e provare i fatti modificativi o estintivi dell’altrui diritto (v. Sez. U, Sentenza n. 19597 del 18/09/2020 -Rv. 658833 – 03).
A fronte di tali premesse, questa Corte, da ultimo con Ordinanza n. 8669 del 01/04/2025, ha ancora precisato che «’onere di allegazione, peraltro, non può ritenersi neutralizzato dalla rilevabilità d’ufficio dell’usura, poiché il rilievo d’ufficio costituisce una valutazione di diritto, operata dal giudice ed ulteriore rispetto a quella delle parti, che tuttavia può trovare applicazione solo in relazione ad un fatto già compiutamente allegato, e non consente in alcun modo, in forza del principio dispositivo, di rilevare fatti non allegati dalle parti (cfr. Cass., SU, n. 26242 del 2014). La ragione di ciò è evidente: in mancanza di uno specifico parametro di fatto, è impossibile qualunque valutazione di diritto».
Pertanto, la Corte partenopea ha fatto piena e corretta applicazione dei principi sopra illustrati.
Invero, i Giudici d’appello – dopo aver rilevato (a pag. 6 della sentenza impugnata) che gli interessi applicati non fossero stati neppure indicati dal consulente di parte -hanno poi correttamente concluso che «s iffatta deficienza allegatoria non può che riversarsi in danno dell’attore, rendendo inammissibile la domanda per indeterminatezza della causa petendi, e meramente esplorativa la sollecitata -e giustamente negata -c.t.u. La nullità ex art. 1815, secondo comma, cod. civ. della clausola di previsione degli interessi, richiede, invero, la prova del loro carattere usurario ai sensi dell’art. 644, terzo comma, secondo periodo, cod. pen., ossia la dimostrazione della sproporzione degli interessi convenuti (con uno squilibrio contrattuale, per i vantaggi conseguiti da una sola delle parti, che alteri il sinallagma negoziale e per il cui apprezzamento il parametro di riferimento è dato dal superamento del tasso medio praticato per operazioni similari). La prova grava, evidentemente, su colui che afferma la natura usuraria degli interessi (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19282 del
12/09/2014). Date queste premesse, alcuno spazio vi era, nella specie, per l’esercizio degli invocati poteri officiosi del giudice sul presupposto della rilevabilità d’ufficio dell’usurarietà dei tassi applicati, essendo precluso il relativo accertamento in mancanza di indicazione specifica della misura degli stessi. Il giudizio in punto di usurarietà si basa sempre sul raffronto tra un dato concreto (lo specifico TEG applicato nell’ambito del contratto oggetto di contenzioso) e un dato astratto (il TEGM rilevato con riferimento alla tipologia di appartenenza del contratto in questione) (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12965 del 2016). Nel caso di specie, la mancata allegazione del dato concreto preclude ogni verifica. Correttamente il primo giudice ha, pertanto, dichiarato inammissibile la domanda, e negato l’espletamento di una c.t.u. che, a fronte della prospettazione di una usurarietà solo eventuale dei tassi applicati, avrebbe avuto chiara finalità esplorativa » (a pag. 7 della sentenza impugnata).
5.1.3. Del pari, non coglie nel segno la doglianza relativa alla mancata disposizione da parte della Corte di merito della c.t.u. contabile, pur sollecitata dall’appellante.
In proposito, è opportuno precisare che il provvedimento che disponga, o meno, la consulenza tecnica, rientrando nel potere discrezionale del giudice del merito, è incensurabile in sede di legittimità, purché costui abbia adeguatamente motivato la decisione adottata, non potendo il giudice rifiutare ‘ sic et simpliciter ‘ o con argomentazioni di stile e prive di reale consistenza il ricorso ad essa (v. Sez. 1, Sentenza n. 10007 del 16/04/2008).
Sono queste le ragioni per cui la parte può soltanto ‘sollecitare’ (non già ‘richiedere’) la c.t.u., rientrante nella istruzione probatoria (come dimostra la collocazione topografica della disciplina dell’istituto), ma non qualificabile come mezzo di prova stricto sensu a disposizione delle parti, assurgendo
piuttosto a risorsa probatoria, a favore del giudice, per la qual cosa essa non risulta preclusa neppure per la prima volta in appello, non ricadendo nell’ambito applicativo dell’art. 345, comma 3, c.p.c.
A tal riguardo, la Corte partenopea ha specificamente motivato, in relazione al diniego de quo , che l’espletamento di una c.t.u., a fronte della prospettazione di usurarietà solo eventuale dei tassi applicati, avrebbe avuto chiara ed esclusiva finalità esplorativa.
I Giudici d’appello si sono così uniformati all’indirizzo accolto da questa Corte, ai sensi del quale, in relazione alla finalità propria della c.t.u. ( i.e. , aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze), tale mezzo di indagine non può essere disposto dal giudice al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume; di talché, la c.t.u. è legittimamente negata dal giudice qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni, o offerte di prova, ovvero a compiere un’attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 7097 del 06/04/2005; Sez. 3, Sentenza n. 19458 del 15/07/2008).
Tale argomento riceve ulteriore conferma alla luce dei criteri elaborati in seno alla giurisprudenza di legittimità in tema di c.t.u. e relativi non già all’ammissibilità ex ante della consulenza, ma allo svolgimento e alla valutazione ex post della stessa.
Sul punto, questa Corte ha infatti precisato che, laddove il Giudice del merito abbia (già) disposto la consulenza tecnica d’ufficio, l’acquisizione, ad opera del consulente, di documenti diretti a provare i fatti principali, dedotti dalle parti a fondamento della domanda e delle eccezioni, che è onere solo
delle parti provare, è sanzionata da nullità relativa ex art. 157 c.p.c., rilevabile ad iniziativa di parte nella prima difesa o istanza successiva all’atto viziato o alla notizia di esso (in tal senso, Sez. 3, Ordinanza n. 17916 del 01/06/2022).
In tal guisa, le Sezioni Unite di questa Corte, con la Sentenza n. 3086 del 01/02/2022, hanno specificato che il consulente nominato dal giudice, nei limiti delle indagini commessegli e nell’osservanza del contraddittorio delle parti, può accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite, il cui accertamento si renda necessario al fine di rispondere ai quesiti sottopostigli, a condizione che non si tratti dei fatti principali che è onere delle parti allegare a fondamento della domanda o delle eccezioni e salvo, quanto a queste ultime, che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio (ciò che è da escludersi nel caso di specie, come specificato infra al punto 5.1.2).
5.1.4. È invece inammissibile il motivo con specifico riferimento all’asserita violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 99 e 112 c.p.c., poiché inosservante, in parte qua , gli oneri di specificità e di autosufficienza prescritti dall’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., che impone al ricorrente, a pena d’inammissibilità della censura, di indicare puntualmente le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente ad indicare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastino col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa officiosa che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongano in contrasto con essa (Sez. U, Sentenza n. 23745 del 28/10/2020).
In particolare, il ricorrente neppure ha provveduto alla illustrazione della censura in esame rispetto alle norme di cui
denuncia la violazione nella (sola) rubrica del motivo, insufficiente a far comprendere l’effettiva portata della critica ivi veicolata, non specificandosi – peraltro – se, per tale via, si intendesse lamentare un vizio di omessa pronuncia o, piuttosto, un vizio di ultrapetizione ovvero di extrapetizione.
Pertanto, la Corte rigetta il ricorso.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 15.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater, dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione in data 14 aprile 2025.
Il Presidente NOME COGNOME