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Onere della prova rapporto di lavoro: chi deve provare?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 6742/2024, ha stabilito che l’onere della prova del rapporto di lavoro spetta sempre al lavoratore, anche quando il contenzioso nasce dall’opposizione del datore di lavoro a una diffida accertativa dell’Ispettorato. La mancata contestazione esplicita del rapporto da parte del datore non è sufficiente a invertire tale onere se la difesa si basa su circostanze che non ne presuppongono l’esistenza.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Onere della Prova nel Rapporto di Lavoro: La Cassazione Chiarisce a Chi Spetta

L’onere della prova nel rapporto di lavoro è una questione cruciale che determina l’esito di molte controversie. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: spetta sempre al lavoratore dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato, anche quando è il datore di lavoro a iniziare la causa per contestare una pretesa. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Il caso ha origine da una diffida accertativa emessa dalla Direzione Territoriale del Lavoro (DTL), con cui si intimava a un datore di lavoro il pagamento di oltre 32.000 euro a una lavoratrice a titolo di retribuzioni, ratei di tredicesima e quattordicesima, contributi non versati e TFR per un periodo di circa due anni e mezzo. Sulla base di tale diffida, era stato emesso anche un decreto ingiuntivo.

Il datore di lavoro si opponeva, e il Tribunale di primo grado accoglieva la sua richiesta, revocando il decreto ingiuntivo e dichiarando illegittima la diffida. La Corte d’Appello confermava la decisione, sottolineando due punti chiave:

1. La DTL non ha il potere di emettere una diffida accertativa se prima non è stata accertata in modo inequivocabile l’esistenza di un rapporto di lavoro.
2. Nel corso del giudizio, la lavoratrice non aveva fornito prove sufficienti e certe per dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato nel periodo contestato.

Insoddisfatta della decisione, la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione.

Il Ricorso e l’Onere della Prova nel Rapporto di Lavoro

La ricorrente basava la sua difesa su un argomento principale: il datore di lavoro, nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo, non avrebbe mai negato esplicitamente l’esistenza del rapporto di lavoro. Secondo la sua tesi, ciò avrebbe dovuto far scattare il principio di non contestazione, sollevandola dall’onere di provare il rapporto stesso. In sostanza, un fatto non contestato dovrebbe essere considerato come ammesso.

La lavoratrice contestava inoltre la valutazione delle testimonianze fatta dalla Corte d’Appello, ritenendola carente.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo chiarimenti decisivi sull’onere della prova nel rapporto di lavoro. I giudici hanno spiegato che, di fronte a un’azione di accertamento negativo del credito (come quella intentata dal datore di lavoro per opporsi al pagamento), l’onere probatorio ricade interamente sulla parte che vanta il credito, ovvero la lavoratrice. Quest’ultima deve dimostrare non solo l’ammontare del credito, ma anche il fatto costitutivo dello stesso, cioè l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato.

La Corte ha smontato la tesi del principio di non contestazione. Ha osservato che la Corte d’Appello aveva correttamente evidenziato come il datore di lavoro avesse impostato la sua difesa allegando “circostanze neutre”, ovvero una difesa che non presupponeva necessariamente l’ammissione del rapporto di lavoro. Per far scattare il principio di non contestazione, non basta una mancata negazione esplicita; è necessaria un’allegazione specifica dei fatti da parte di chi agisce, a cui segua una contestazione altrettanto specifica da parte di chi si difende. In questo caso, tale dinamica non si era verificata.

Infine, la Cassazione ha ribadito un principio cardine del nostro ordinamento: la valutazione delle prove, come le testimonianze, è un’attività riservata ai giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello). In sede di legittimità, la Suprema Corte non può riesaminare i fatti o sostituire la propria valutazione a quella dei giudici precedenti, a meno che non vi siano vizi logici o giuridici macroscopici, che nel caso di specie non sono stati riscontrati.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un principio fondamentale: il lavoratore che reclama un credito derivante da un rapporto di lavoro ha sempre l’onere della prova sull’esistenza di tale rapporto. Questo onere non viene meno neanche se il procedimento giudiziario è avviato dal datore di lavoro tramite un’opposizione a un decreto ingiuntivo. La semplice mancanza di una negazione esplicita da parte del datore non è sufficiente a considerare provato il rapporto se la linea difensiva non lo ammette implicitamente. La decisione sottolinea l’importanza per i lavoratori di raccogliere e presentare prove solide e concrete a sostegno delle proprie pretese fin dalle prime fasi del contenzioso.

In un’opposizione a un decreto ingiuntivo basato su una diffida accertativa, su chi ricade l’onere della prova dell’esistenza del rapporto di lavoro?
L’onere della prova ricade sulla lavoratrice, la quale deve dimostrare non solo il credito vantato ma anche l’esistenza del rapporto di lavoro da cui tale credito deriva, che ne costituisce il fatto fondante.

Il principio di non contestazione si applica se il datore di lavoro non nega esplicitamente il rapporto di lavoro?
No. Secondo la Corte, il principio non si applica se il datore di lavoro, pur non negando espressamente, imposta la propria difesa su “circostanze neutre” che non presuppongono l’esistenza del rapporto. La non contestazione richiede una specifica allegazione dei fatti da una parte e una mancata specifica contestazione dall’altra.

La Corte di Cassazione può riesaminare la valutazione delle prove, come le testimonianze, fatta dal giudice di merito?
No, la valutazione delle risultanze istruttorie è un compito che spetta al giudice di merito (Tribunale e Corte d’Appello) e non è sindacabile in sede di legittimità, a meno che non emergano vizi procedurali specifici o un’argomentazione palesemente illogica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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