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Onere della prova raccomandata: a chi spetta?

Un lavoratore ha impugnato il licenziamento sostenendo che la raccomandata ricevuta non contenesse la lettera di recesso. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando il principio secondo cui l’onere della prova raccomandata spetta al destinatario. Questi deve dimostrare che la busta era vuota o conteneva un documento differente. Essendo tardiva l’impugnazione stragiudiziale, il ricorso è stato respinto.

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Onere della Prova Raccomandata: La Cassazione Conferma la Responsabilità del Destinatario

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale in materia di comunicazioni formali, in particolare riguardo all’onere della prova raccomandata. La questione, centrale in un caso di licenziamento, chiarisce definitivamente su chi ricada la responsabilità di dimostrare il contenuto di una busta ricevuta per posta. Questa pronuncia offre spunti cruciali per lavoratori e datori di lavoro sulla gestione delle comunicazioni e sull’importanza della prova documentale.

I Fatti del Caso: Il Licenziamento e la Presunta Mancata Ricezione

La vicenda trae origine dal licenziamento di un lavoratore da parte di una società agricola. Il datore di lavoro aveva inviato la lettera di recesso tramite raccomandata, recapitata all’indirizzo del dipendente in data 29 ottobre 2019. Il lavoratore, tuttavia, sosteneva di non aver mai trovato tale lettera nella busta e di aver ricevuto la comunicazione del licenziamento solo a mano, in data 6 febbraio 2020. Di conseguenza, aveva impugnato il licenziamento basandosi su quest’ultima data.

Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello avevano dichiarato inammissibile il ricorso del lavoratore per intervenuta decadenza. I giudici di merito avevano ritenuto che il termine per impugnare il licenziamento decorresse dalla data di ricezione della raccomandata, presumendone la conoscenza da parte del destinatario. Il lavoratore, non convinto, ha proposto ricorso in Cassazione.

L’Onere della Prova Raccomandata secondo la Cassazione

Il fulcro della decisione della Suprema Corte ruota attorno al primo motivo di ricorso, con cui il lavoratore lamentava l’errata attribuzione dell’onere della prova raccomandata. Secondo la sua tesi, spettava al datore di lavoro dimostrare che la busta inviata contenesse effettivamente la lettera di licenziamento.

La Corte di Cassazione ha respinto categoricamente questa argomentazione. I giudici hanno confermato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui la spedizione di una comunicazione a mezzo raccomandata genera una presunzione di conoscenza da parte del destinatario, ai sensi dell’art. 1335 del codice civile. Per superare tale presunzione, non è sufficiente una generica contestazione. Al contrario, spetta proprio al destinatario che ne contesta il contenuto fornire la prova rigorosa che il plico ricevuto non conteneva alcun atto o ne conteneva uno diverso da quello che il mittente sostiene di aver spedito.

Il Secondo Motivo di Ricorso: Inammissibile per Difetto di Interesse

Il lavoratore aveva sollevato un secondo motivo relativo ai termini per l’avvio della causa, invocando le sospensioni introdotte durante l’emergenza sanitaria (Decreto ‘Cura Italia’). Tuttavia, la Corte ha dichiarato questo motivo inammissibile per difetto di interesse. Poiché il primo motivo era stato rigettato, era stato accertato che il termine di 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento era già scaduto ben prima dell’entrata in vigore delle normative emergenziali. Di conseguenza, qualsiasi discussione sui termini successivi era diventata irrilevante: anche se il secondo motivo fosse stato accolto, la decadenza iniziale avrebbe comunque reso il ricorso improcedibile.

Le Motivazioni della Corte

La Corte ha motivato la sua decisione basandosi sul principio di certezza nei rapporti giuridici. La presunzione di conoscenza legata alla ricezione di una raccomandata all’indirizzo del destinatario è uno strumento essenziale per garantire stabilità ed efficacia alle comunicazioni formali. Invertire l’onere della prova, come richiesto dal ricorrente, creerebbe una situazione di grave incertezza, in cui il mittente si troverebbe nell’impossibilità pratica di dimostrare il contenuto di una busta ormai nella disponibilità del solo destinatario. La reiezione del primo motivo ha consolidato la decisione dei giudici di merito sulla tardività dell’impugnazione stragiudiziale. Questo ha reso superfluo l’esame di ogni altra questione, poiché l’azione del lavoratore era già preclusa alla radice.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza rafforza un importante monito per tutti i soggetti coinvolti in rapporti che prevedono comunicazioni formali. Per i lavoratori, significa che ignorare o contestare genericamente il contenuto di una raccomandata è una strategia rischiosa e processualmente debole. Chiunque riceva un atto che ritiene non conforme o una busta vuota deve attivarsi immediatamente per costituire una prova oggettiva di tale circostanza. Per i datori di lavoro, la sentenza conferma la validità e l’affidabilità della raccomandata come strumento di comunicazione, a condizione di conservare diligentemente le ricevute di spedizione e di avvenuta ricezione, che costituiscono prova sufficiente dell’invio.

A chi spetta l’onere della prova sul contenuto di una raccomandata?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere di provare che una raccomandata ricevuta era vuota o conteneva un documento diverso da quello indicato dal mittente spetta al destinatario.

Cosa deve fare un lavoratore se sostiene che la raccomandata di licenziamento era vuota?
Il lavoratore non può limitarsi a una semplice negazione. Deve fornire una prova concreta e specifica a sostegno della sua affermazione per superare la presunzione di conoscenza legata alla ricezione della raccomandata al proprio indirizzo.

Perché il secondo motivo di ricorso sui termini processuali è stato dichiarato inammissibile?
È stato dichiarato inammissibile per difetto di interesse. Una volta stabilito che l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento era stata effettuata oltre il termine di 60 giorni, la causa era già persa. Pertanto, il lavoratore non aveva più alcun interesse giuridico a far esaminare le questioni successive, poiché l’esito finale non sarebbe cambiato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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