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Onere della prova nel mobbing: la guida completa

Un lavoratore ha citato in giudizio la sua ex azienda per mobbing, richiedendo un cospicuo risarcimento. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto le sue richieste. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, chiarendo che l’onere della prova nel mobbing spetta interamente al dipendente. Quest’ultimo deve dimostrare non solo i comportamenti vessatori, ma anche l’intento persecutorio del datore di lavoro. Il ricorso è stato giudicato un tentativo di riesaminare i fatti, non consentito in sede di legittimità.

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Onere della Prova nel Mobbing: a Chi Spetta Dimostrare i Fatti?

L’onere della prova rappresenta uno dei pilastri del nostro sistema giuridico e assume un’importanza cruciale nelle cause per mobbing. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce con fermezza su chi grava la responsabilità di dimostrare i comportamenti persecutori in ambiente lavorativo. Analizziamo insieme questa decisione per comprendere le sue implicazioni pratiche per lavoratori e aziende.

I Fatti di Causa

Un lavoratore citava in giudizio la sua ex azienda, una società di servizi, lamentando di aver subito una condotta mobbizzante per un lungo periodo, dal 1996 fino al suo collocamento in quiescenza. A sostegno della sua tesi, chiedeva un risarcimento danni di oltre un milione di euro, oltre al risarcimento per il presunto mancato versamento di alcuni contributi previdenziali.

La sua domanda veniva rigettata sia in primo grado che in appello. I giudici di merito, infatti, concludevano che non era stata raggiunta la prova di una “protratta e sistematica emarginazione” mossa da un “intento persecutorio”. In altre parole, mancavano gli elementi costitutivi del mobbing. Per quanto riguarda i contributi, l’azienda aveva dimostrato di averli versati, e il lavoratore non aveva contestato tale documentazione.

Insoddisfatto, il dipendente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando principalmente due aspetti: la nullità della sentenza d’appello per un’errata ricostruzione delle testimonianze e la violazione delle norme sull’onere della prova.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, rigettandolo e confermando la decisione della Corte d’Appello. La decisione si fonda su due principi cardine del diritto processuale e del diritto del lavoro.

L’onere della prova nel mobbing è a carico del lavoratore

Il punto centrale della sentenza riguarda proprio l’onere della prova. I giudici hanno chiarito che, per configurare il mobbing lavorativo, non basta lamentare una serie di comportamenti ostili. È necessario che il lavoratore, che chiede il risarcimento, dimostri la sussistenza di elementi precisi:

1. Elemento oggettivo: Una pluralità di comportamenti vessatori e persecutori posti in essere dal datore di lavoro o da suoi preposti.
2. Elemento soggettivo: L’intento persecutorio del datore di lavoro, ovvero la volontà specifica di danneggiare ed emarginare il dipendente.
3. Il danno: La prova del danno subito (patrimoniale o non patrimoniale).
4. Il nesso causale: Il legame diretto tra i comportamenti subiti e il danno lamentato.

Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva correttamente applicato questa regola, concludendo che il lavoratore non era riuscito a fornire la prova di un’emarginazione o di un intento persecutorio. Di conseguenza, nessuna violazione delle norme sull’onere della prova poteva essere imputata ai giudici di merito.

La valutazione delle prove non è sindacabile in Cassazione

Per quanto riguarda la presunta errata interpretazione delle testimonianze, la Cassazione ha ribadito un altro principio fondamentale: il ricorso in Cassazione serve per contestare errori di diritto, non per ottenere una nuova valutazione dei fatti o delle prove. Il ricorrente, lamentando un travisamento delle dichiarazioni dei testimoni, stava in realtà chiedendo ai giudici di legittimità di riesaminare il materiale probatorio, un’attività che è riservata esclusivamente ai giudici di primo e secondo grado.

La Suprema Corte può intervenire sulla valutazione delle prove solo in casi eccezionali di motivazione illogica o totalmente assente, circostanze che non sono state riscontrate in questa vicenda.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si basano sulla distinzione netta tra giudizio di merito e giudizio di legittimità. Il compito di accertare come si sono svolti i fatti e di valutare l’attendibilità delle prove spetta ai Tribunali e alle Corti d’Appello. La Corte di Cassazione, invece, ha il compito di assicurare la corretta applicazione e interpretazione della legge.

Nel caso del mobbing, la legge (e la consolidata giurisprudenza) impone che l’onere della prova gravi sul lavoratore. Egli deve costruire un quadro probatorio solido, capace di dimostrare non solo di aver subito atti ostili, ma anche che tali atti erano parte di un disegno unitario finalizzato a perseguitarlo. La Corte ha ritenuto che i giudici di merito avessero fatto buon governo di questi principi, escludendo la responsabilità del datore di lavoro in assenza di prove sufficienti.

Conclusioni

Questa ordinanza offre un importante monito per chiunque intenda avviare una causa per mobbing. Non è sufficiente sentirsi vittima di ingiustizie sul posto di lavoro; è indispensabile raccogliere prove concrete e circostanziate che dimostrino tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. La decisione riafferma che il principio dell’onere della prova non può essere aggirato e che la Cassazione non è una terza istanza di giudizio dove poter ridiscutere i fatti. Per le aziende, sottolinea l’importanza di una gestione trasparente del personale e di una corretta documentazione delle decisioni organizzative per potersi difendere da accuse infondate.

Chi deve provare il mobbing in una causa di lavoro?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova spetta interamente al lavoratore che si dichiara vittima. È lui che deve dimostrare in giudizio tutti gli elementi che configurano il mobbing.

Cosa deve dimostrare esattamente il lavoratore vittima di mobbing?
Il lavoratore deve provare l’esistenza di una pluralità di comportamenti ostili e vessatori (elemento oggettivo), l’intento persecutorio del datore di lavoro (elemento soggettivo), il danno subito e il nesso di causalità tra i comportamenti e il danno.

È possibile contestare in Cassazione come un giudice ha valutato le testimonianze?
No, di regola non è possibile. La valutazione delle prove, incluse le dichiarazioni dei testimoni, è un’attività riservata ai giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello). Il ricorso in Cassazione è ammesso solo per contestare errori di diritto e non per ottenere un nuovo esame dei fatti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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