Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 15181 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 15181 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 11928/2020 r.g. proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, giusta procura speciale rilasciata in calce al ricorso, unitamente e disgiuntamente, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, le quali richiedono di ricevere le comunicazioni di cancelleria e le notificazioni all’indicato indirizzo di posta elettronica certificata.
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, giusta procura alle liti in calce al controricorso, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, disgiuntamente e congiuntamente, elettivamente domiciliato
presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, sito in Roma, INDIRIZZO, i quali dichiarano di voler ricevere eventuali comunicazioni e notifiche all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato
-controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna n. 600/2020, depositata in data 10 febbraio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/4/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOMEAVV_NOTAIO;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME prestava nell’aprile 2006 al proprio zio NOME COGNOME (fratello della madre NOME COGNOME) la somma di euro 50.000,00, mediante consegna di un assegno bancario tratto dal proprio conto corrente ed intestato al beneficiario COGNOME.
Tale assegno era stato quindi incassato dal COGNOME il 4 aprile 2006, senza provvedere alla restituzione del denaro, nonostante vari solleciti.
Il COGNOME proponeva opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal nipote, non contestando l’avvenuto incasso della somma erogata, ma solo «la causa della dazione».
In base alla ricostruzione del COGNOME, egli avrebbe venduto il 18/2/2005 al nipote NOME COGNOME (ovvero al di lui figlio NOME) una quota di società, sicché la somma di euro 50.000,00, consegnatagli da NOME COGNOME costituiva il pagamento di quella quota ceduta.
L’atto di cessione, però, era stato stipulato, non da NOME COGNOME (quale cedente) e da NOME COGNOME (quale acquirente), ma dalla società RAGIONE_SOCIALE, da
NOME COGNOME e da NOME COGNOME (quali soci della RAGIONE_SOCIALE), in favore di NOME COGNOME, acquirente (figlio di NOME COGNOME), mentre quest’ultimo era rimasto del tutto estraneo alla cessione.
Nell’atto di cessione era poi riportata la quietanza del pagamento integrale del prezzo delle quote cedute alla data del 18 febbraio 2005.
Tra l’altro, il prezzo delle quote era stato indicato nell’atto di cessione in euro 3.700,00.
Il tribunale rigettava l’opposizione, rilevando che era stata accertata l’esistenza della dazione di denaro da parte di NOME COGNOME, documentata dall’assegno e mai contestata da NOME COGNOME.
Aggiungeva che «attraverso le prove testimoniali» era emersa «la esistenza della prova della causa, della ragione, del titolo, della dazione e cioè del prestito, del mutuo ».
La tesi sostenuta dallo zio NOME COGNOME, per cui la somma di euro 50.000,00 sarebbe stata versata a titolo di pagamento della cessione della quota sociale, «era inverosimile, incredibile e non convincente», in quanto «la cessione di quote era avvenuta oltre un anno prima del prestito, l’importo pattuito a corrispettivo per la cessione della quota era assai inferiore a quello in controversia».
Tra l’altro, NOME COGNOME «non avrebbe avuto alcun diritto di riscuotere direttamente il corrispettivo della cessione in quanto egli non avrebbe potuto cedere alcunché in quanto la quota apparteneva ad una società e non a lui direttamente e personalmente».
Avverso tale sentenza proponeva appello NOME COGNOME deducendo che i testi assunti nel giudizio di primo grado erano parenti stretti di NOME COGNOME «e come tali non attendibili», non
risultando quindi provato il mutuo, ma, al contrario era stata dimostrata «la avvenuta cessione di quote».
Inoltre, l’appellante lamentava la violazione da parte del tribunale degli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c. facendo riferimento alla pretesa inattendibilità dei testi di parte opposta.
La Corte d’appello di Bologna accoglieva il gravame articolato da NOME COGNOME, in quanto «il titolo della dazione della somma di denaro non può dirsi fatto non specificamente contestato».
Aggiunge il giudice d’appello che il COGNOME aveva dichiarato di avere stipulato, quale alienante, nel febbraio 2005, un contratto di cessione di quote sociali, in cui l’acquirente sarebbe stato NOME COGNOME, figlio di NOME COGNOME.
Sempre in base a quanto riferito dal COGNOME, in mancanza del versamento del corrispettivo di tale cessione, a distanza di oltre un anno, vi avrebbe provveduto il padre, NOME COGNOME, consegnando l’assegno.
La Corte territoriale reputava che «la sola dazione dell’assegno non può assurgere a prova del titolo del contratto di mutuo, come affermato dal giudice di prime cure, in quanto da tale dazione non può derivarsi l’obbligo della restituzione».
Venivano, poi, riportate le massime di due pronunce della Corte di cassazione, in base alle quali, l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo e tenuto, ai sensi dell’art. 2697 c.c., a dimostrare gli elementi costitutivi della domanda, «e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa», sicché «l’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di danaro» (Cass., sez. 2, 8 gennaio 2018, n. 80; Cass., sez. 2, 24 febbraio 2004, n. 3642).
Ciò, in quanto, la consegna di un assegno bancario poteva avvenire per svariate ragioni, allorquando l’ accipiens -pur
ammettendo la ricezione – «non confermi altresì il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria pretesa ma nei contesti anzi la legittimità».
In tal caso, «essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova».
Pertanto, per la Corte territoriale «il sig. COGNOME non ha in alcun modo provato l’affermato titolo della dazione».
Aggiunge il giudice d’appello che «ciò basta ad accogliere l’appello, restando assorbito il motivo 2».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione, seguito da memoria, NOME COGNOME.
Ha resistito con controricorso NOME COGNOME.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «nullità della sentenza ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., ai sensi dell’art. 132, primo comma, n. 4, c.p.c., per omessa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto posta a fondamento della decisione-motivazione apparente- Error in procedendo».
Per il ricorrente la sentenza della Corte d’appello sarebbe viziata da nullità «perché priva di qualsivoglia indicazione, anche in forma concisa, delle ragioni in fatto e in diritto che hanno contribuito alla formazione del convincimento del giudicante, rendendo impossibile comprendere il fondamento, i presupposti logici, di una simile decisione, la quale peraltro è diametralmente opposta rispetto alla decisione di primo grado».
Pertanto, tale motivazione «non è viziata. Essa proprio non esiste».
La Corte territoriale si sarebbe limitata ad affermare il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del COGNOME.
La questione controversa era, invece, rappresentata dalla «valutazione delle prove acquisite nel corso del giudizio di primo grado».
Il tribunale di Rimini nella motivazione, aveva fornito valutazione favorevole al COGNOME NOME, mentre la Corte d’appello «non ha fornito alcuna valutazione», sicché la sentenza non contiene alcuna motivazione «con conseguente impossibilità per la parte soccombente di comprendere le ragioni che hanno portato alla decisione oggetto della presente impugnazione».
Per il ricorrente «: a) non è dato sapere per quali ragioni la Corte di appello abbia ritenuto non provata l’esistenza del contratto di mutuo , b) non è dato sapere se la Corte di appello abbia effettivamente vagliato le dichiarazioni testimoniali rese nel corso dell’istruttoria orale ed i documenti allegati dalle parti; c) non è dato sapere se la Corte di appello di Bologna abbia effettivamente ritenuto fondata l’eccezione di inesistenza del credito sollevata dal sig. COGNOME», con riferimento al pagamento avvenuto, a titolo di saldo, del corrispettivo dovuto da NOME COGNOME, figlio di NOME COGNOME, per la cessione di quota societaria operata con atto notarile del 18/2/2005; «d) non è dato sapere se la Corte di appello di Bologna abbia, o meno, esaminato il predetto atto notarile datato 18/2/2005 ; e) non è dato comprendere per quali ragioni la Corte di appello di Bologna abbia del tutto disatteso il chiaro e lineare ragionamento operato dal giudice di primo grado, andando a riformare integralmente la sentenza che si presentava giuridicamente corretta, in linea con le risultanze istruttorie e chiara dal punto di vista argomentativo».
Con il secondo motivo di impugnazione ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in riferimento all’art. 2397 c.c., in materia di ripartizione dell’onere della prova dell’esistenza di un contratto di mutuo».
È pacifico che la disciplina generale in materia di onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., impone a chi agisce in giudizio per ottenere la tutela di un diritto di provare i fatti costitutivi della domanda.
Pertanto, quando si agisce per il recupero coattivo di somme date a mutuo, è onere del mutuante dimostrare non solo la effettiva dazione della somma, ma anche il titolo legittimante la dazione stessa.
Tuttavia, l’ accipiens che contesti l’esistenza del contratto di mutuo «è onerato della prova della esistenza di diverso titolo giuridico legittimante l’incameramento di una somma di denaro».
Pertanto, allorché si rigetta la domanda di restituzione dell’asserito mutuante, per mancanza di prova della pattuizione del relativo obbligo, si pone ineludibile il problema della sussistenza di una causa che giustifichi il diritto del denegato mutuatario di trattenere le somme ricevute «qualora questi non deduca alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto, di trattenere la somma ricevuta».
Il ricorrente avrebbe dimostrato, in primo luogo a mezzo prove orali, non solo la effettiva erogazione della somma oggetto di lite, «ma anche il titolo giuridico, la causa contrattuale, e l’esistenza del mutuo».
In particolare, la teste NOME COGNOME, madre di COGNOME NOME e sorella di NOME COGNOME, ha confermato che quest’ultimo «disse a mio figlio che avrebbe restituito i soldi prima possibile».
Quanto al contratto stipulato il 18/2/2005 il ricorrente rileva che né COGNOME NOME, né COGNOME NOME «erano parte di quel contratto».
Tra l’altro, COGNOME NOME aveva acquistato l’8% delle quote della RAGIONE_SOCIALE, di cui solo il 4% appartenevano alla RAGIONE_SOCIALE, di cui COGNOME NOME era mero socio.
Il primo motivo di ricorso è fondato, con assorbimento del secondo.
3.1. Non v’è dubbio che la motivazione della sentenza della Corte d’appello sia meramente apparente, non consentendo in alcun modo di comprendere le ragioni logico-giuridiche sottese alla soluzione adottata, essendosi limitata la Corte territoriale a riportare in corsivo le massime di due pronunce della Corte di cassazione (Cass., sez. 2, 8 gennaio 2018, n. 180; Cass., sez. 2, 24 febbraio 2004, n. 3642), senza aggiungere alcunché in ordine alla disamina degli elementi istruttori, presenti in atti.
La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto fondato il primo motivo di gravame articolato da NOME COGNOME, reputando che, pur non essendo in alcun modo contestata la dazione della somma di euro 50.000,00, dal COGNOME al COGNOME, tuttavia «la sola dazione dell’assegno non può assurgere a prova del titolo del contratto di mutuo, come affermato dal giudice di prime cure, in quanto da tale datazione non può derivarsi l’obbligo della restituzione».
Dopo aver riportato le due massime della Corte di cassazione, la Corte territoriale, lapidariamente, ha affermato che il COGNOME «non ha in alcun modo provato l’affermato titolo della dazione», reputando assorbito il secondo motivo inerente alla pretesa «inattendibilità dei testi di parte opposta».
Insomma, il giudice d’appello, non ha indicato alcun elemento istruttorio – prova testimoniale o documentazione relativa alla
cessione di quote del 18 febbraio 2005 – utilizzato per giungere alla decisione di riforma della sentenza di prime cure.
Ha, dunque, reputato non dimostrato il titolo della dazione (quindi il mutuo), senza indicare in alcun modo le risultanze istruttorie che l’hanno indotta a ritenere non provato il contratto di mutuo.
Neppure ha indicato le ragioni per cui, pur in assenza del mutuo, il ricevente la somma di danaro di euro 50.000,00, ossia NOME COGNOME, abbia legittimamente trattenuto la stessa.
Deve, infatti, tenersi conto della giurisprudenza di questa Corte per cui la parte che chieda la restituzione di somme date a mutuo è tenuta a provare, oltre alla consegna, anche il titolo dal quale derivi l’obbligo di controparte alla restituzione, purché l’attore fondi la domanda su un particolare contratto, senza formulare neppure in subordine una domanda volta a porre in questione il diritto della controparte di trattenere la somma ricevuta, ferma restando, la necessità che il rigetto della domanda di restituzione sia argomentato con cautela, tenendo conto della natura del rapporto e delle circostanze del caso, idonee a giustificare che una parte trattenga senza causa il denaro indiscutibilmente ricevuto dall’altra (Cass., sez. 3, n. 17070 del 2014).
3.2. La Corte d’appello si è limitata a riportare le massime della giurisprudenza di legittimità senza prendere posizione: a) sulle ragioni che l’hanno indotta ritenere non provata l’esistenza del contratto di mutuo, nonostante le deposizioni testimoniali rese dai testi NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, quest’ultima madre dell’opposto NOME COGNOME, e sorella dell’opponente NOME COGNOME; b) sull’effettivo contenuto di tali dichiarazioni testimoniali; c) sulla verosimiglianza della circostanza che la somma di euro 50.000,00 fosse riconducibile al corrispettivo indicato nel
contratto di cessione di quote del 18 febbraio 2005, pari ad euro 3700,00, che risultava già versato al momento della stipulazione dell’atto dinanzi al AVV_NOTAIO; d) sulla individuazione degli effettivi contraenti in relazione all’accordo di cessione di quota del 18 febbraio 2005.
4. Per questa Corte, infatti, l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è tenuto, ai sensi dell’art. 2697, primo comma, cod. civ., a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione; l’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione allorquando l'” accipiens ” – ammessane la ricezione – non confermi altresì il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria pretesa ma ne contesti anzi la legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma ne deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova (Cass., sez. 2, 24 febbraio 2004, n. 3642).
In particolare, si è chiarito (Cass., sez. 3, 28 luglio 2014, n. 17050) che, «qualora la parte deduca in giudizio e dimostri l’avvenuto pagamento di una somma di denaro il convenuto è tenuto quantomeno ad allegare il titolo in forza del quale si ritiene a sua volta legittimato a trattenere la somma ricevuta».
Pertanto, «in mancanza di ogni allegazione in tal senso, il rigetto per mancanza di prova della domanda di restituzione proposta dal solvens va argomentato con una certa cautela e tenendo conto di
tutte le circostanze del caso, al fine di accertare se e fino a che punto la natura del rapporto e le circostanze del caso giustifichino che l’una delle parti trattenga senza causa il denaro indiscutibilmente ricevuto da altri» (Cass., sez. 3, 28 luglio 2014, n. 17050, in motivazione).
5. Per questa Corte, in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass., sez. L, ,14 febbraio 2020, n. 3819; Cass., sez. 5, 20 luglio 2012, n. 12664), non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrare la motivazione con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., sez. 2, 19 novembre 2019, n. 30078).
Del resto, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto
di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass., sez. 3, 12 ottobre 2017, n. 23940; anche Cass., sez. 3, 15 novembre 2019, n. 29721, per cui la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una puro succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione; Cass., sez. 6-3, 25 settembre 2018, n. 22598, per cui l’obbligo di motivazione è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente; Cass., Sez.U., 7 aprile 2014, n. 8053).
Anche prima della modifica legislativa di cui al d.l. n. 83 del 2012, si è ritenuto che, in tema di contenuto della sentenza, la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. nella versione anteriore alla modifica da parte dell’art. 45, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69, non rappresenta un elemento meramente formale, ma un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156, comma 3, cod. proc. civ.), e considerato che lo stesso legislatore, nel modificare l’art. 132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a
fondamento della decisione (Cass., sez. 5, 10 novembre 2010, n. 22845; Cass., sez. 6-5, 20 gennaio 2015, n. 920).
È, dunque, apparente la motivazione quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento (Cass., Sez.U., 9 ottobre 2019, n. 25392; Cass., Sez.U., n. 22232 del 2016).
5.1. Non può neppure farsi applicazione della giurisprudenza di legittimità per cui «in relazione alle prove testimoniali», l’onere di adeguatezza della motivazione «non comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni delle parti, né che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da queste svolte». È, infatti, sufficiente che il giudice esponga, anche in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (Cass., sez. 62, 8 marzo 2019, n. 6759; anche Cass., 20 novembre 2009, n. 24542; Cass., 12 gennaio 2006, n. 407; Cass., 2 agosto 2001, n. 10569).
Pertanto, come detto, la Corte d’appello non ha sostanzialmente motivato le ragioni dell’accoglimento del gravame, limitandosi ad una motivazione di puro stile, senza alcun addentellato alle risultanze istruttorie, platealmente neglette.
Non v’è nessun cenno né alle prove testimoniali espletate, né ai documenti prodotti, e segnatamente al contratto di cessione di quote del 18 febbraio 2005, essendo dunque impossibile comprendere l’iter argomentativo della motivazione della sentenza.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo; dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 aprile 2024