Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 11190 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 11190 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18982/2021 R.G. proposto da: NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE);
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME (CODICE_FISCALE);
– controricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI CATANZARO n. 676/2021 depositata il 14/05/2021;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/10/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME conveniva innanzi al Tribunale di Vibo Valentia NOME per chiederne la condanna alla restituzione della somma di € . 7.400,00. A sostegno della pretesa, l’attore deduceva di aver consegnato detta somma al NOME tramite bonifico bancario a titolo di prestito personale, al fine di consentirgli la copertura di assegni altrimenti sforniti di provvista; era stata, quindi, convenuta tra le parti la restituzione della somma nell’arco di poco tempo.
Costituitosi in giudizio, NOME confermava di aver ricevuto la consegna del denaro con bonifico, ma eccepiva che la somma non gli era stata consegnata a titolo di prestito personale o mutuo, bensì essa rappresentava il corrispettivo di lavori che egli aveva fatto per conto dell’attore.
Il Tribunale di Vibo Valentia accoglieva la domanda e condannava il NOME alla restituzione della somma in contestazione, oltre interessi della domanda al soddisfo.
Avverso detta decisione interponeva appello NOME innanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro che, con sentenza n. 676/2021 qui impugnata, accoglieva il gravame e rigettava la domanda, così motivando:
-la contestazione del COGNOME riguardo alla sussistenza di un’obbligazione restitutoria a suo carico ha imposto all’attore in restituzione di dimostrare il titolo costitutivo della propria pretesa, non limitato alla dazione della somma ma esteso al titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione;
mentre non può dirsi raggiunta la prova del titolo costitutivo della domanda formulata dal NOME, ossia che inter partes sia intercorso un contratto di mutuo, ha trovato riscontro probatorio l’assunto dedotto dal COGNOME di aver ricevuto la somma a titolo di retribuzione per avere egli eseguito prestazioni lavorative per conto del COGNOME: pertanto, il
riscontro fattuale dell’esistenza del dedotto rapporto di lavoro intercorso inter partes , idoneo a legittimare in capo all’odierno appellante la percezione di denaro a titolo di retribuzione, posto in correlazione con la mancata prova del titolo costitutivo dell’azione per una diversa causa, neutralizza la domanda di restituzione formulata dal COGNOME che, pertanto, merita di essere rigettata.
Avverso la predetta sentenza ricorre per la cassazione il NOME, affidando il ricorso a quattro motivi, illustrato da memoria.
Resiste con controricorso NOME COGNOME.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4) cod. proc. civ. -nullità della sentenza per motivazione contraddittoria e/o perplessa e/o apparente, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. Nella prospettazione del ricorrente la sentenza non menziona i fatti principali o secondari dai quali il giudice avrebbe tratto il suo convincimento, limitandosi al dato assertivo che il convenuto aveva lavorato per il NOME. La domanda relativa ai diritti eterodeterminati, quali i diritti di credito, al pagamento del corrispettivo di prestazioni lavorative richiede l’allegazione e la prova dei fatti storici sui quali essa si fonda, pena la sua nullità. La Corte d’Appello ha omesso di individuare in concreto il fatto storico, ossia la sussistenza della prestazione lavorativa, sul quale il diritto si fonda.
Il motivo è infondato.
La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5) cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale
che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (tra le varie, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 Rv. 629830).
Sulla scorta di tali premesse, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio di motivazione apparente ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante: Cass Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639 -01; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145; Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526).
Nel caso che ci occupa, l a Corte d’Appello di Catanzaro ha individuato il fatto storico, ossia la sussistenza della prestazione lavorativa sul quale si fonderebbe il diritto del NOME a percepire la somma in contestazione, basandosi sulle risultanze istruttorie costituite da prove testimoniali (v. sentenza p. 9, 4° capoverso): non ricorre, dunque, il vizio di motivazione apparente; né è consentito contrapporre, alla ricostruzione del fatto e delle prove prescelto dal
giudice di merito, una lettura alternativa del compendio istruttorio, poiché il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790).
2. Con il secondo motivo si deduce vizio di motivazione per omessa valutazione circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. A giudizio del ricorrente, il fatto discusso tra le parti, omesso nella valutazione del giudice di seconde cure, non era quello di accertare che il convenuto avesse svolto una qualche prestazione per conto dell’attore, ma di accertare in concreto se questi avesse compiuto prestazioni tali da giustificare il pagam ento a titolo di corrispettivo per € . 7.400,00. Il giudice d’appello, precisa il ricorrente, non ha valutato – né ha fatto alcun riferimento a – tutte le circostanze ricavabili delle risultanze probatorie, quali: la qualifica di NOME COGNOME; il fatto che le prestazioni non fossero mai avvenute autonomamente, ma sempre con l’ausilio degli operai dipendenti dell’impresa RAGIONE_SOCIALE, la mancanza di documenti fiscali relativi alle prestazioni e all’acquisto di eventuale materiale. Ne deriva l’illogicità dell’affermazione per cui un’attività durata complessivamente poco più di tre ore, non supportata da alcun documento fiscale, varrebbe a giudizio della Corte d’Appello ben 7.400,00€.
Il motivo è infondato.
Il fatto ritenuto decisivo (se il NOME avesse compiuto prestazioni tali da giustificare il pagamento a titolo di corrispettivo per € 7.400,00: v. pag. 12 ricorso) non è rilevante, posto che spettava all’a llora appellante dimostrare – a fronte delle contestazioni del convenuto – che
si trattava di somme date a mutuo, come meglio si dirà nell’esame del terzo e quarto motivo.
Con il terzo motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729, 2222, 2225 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. Il ricorrente lamenta l’errata applicazione delle presunzioni semplici, che non possono considerarsi precise, perché gli indizi dovevano essere apprezzati con riferimento alle attività lavorativa in concreto svolta del presunto prestatore d’opera, al tempo impiegato, alle eventuali direttive impartite del committente e alla materia impiegata; non possono neanche considerarsi concordanti, poiché nella specie gli elementi acquisiti al processo non sono convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto da provare.
Con il quarto motivo si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 2697, 1325 n. 2, 2033 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ.- violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ. La giurisprudenza citata e fatta propria dalla Corte di merito dovrebbe misurarsi con la tenuta del principio causalistico, che tutela in modo generale e primario il promittente incauto. Poiché la causa onerosa é la regola, la prova della dazione del denaro, unitamente all’allegazione del contratto di mutuo quale titolo dell’azione medesima, è idonea a fondare il convincimento del giudice sull’esistenza del diritto alla restituzione nella misura in cui il convenuto non sia in grado di fornire elementi tali da far ritenere verosimile che la consegna sia avvenuta ad altro titolo. Non può, pertanto, condividersi l’impostazione per cui l’eccezione del convenuto in restituzione non comporta un’inversione dell’onere della prova, incombendo sempre e comunque sull’attore provare che l’azione integra un mutuo. Nel caso di specie, l’attore ha
allegato che l’azione di restituzione si fondava su un mutuo scaduto e, in subordine, che la ripetizione era la conseguenza di una donazione nulla per difetto di forma o, ancora, di dazione scevra di qualsivoglia titolo giustificativo. Era, pertanto, onere della controparte provare la causa adquirendi in virtù del principio di vicinanza della prova. In effetti, una volta proposta una domanda di ripetizione di indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa delle attribuzioni patrimoniali compiute in favore del convenuto, ma solo con riferimento ai rapporti specifici tra essi intercorsi e dedotti in giudizio, costituendo una prova diabolica esigere dall’attore la dimostrazione dell’inesistenza di ogni qualsivoglia causa di dazione tra solvens e accipiens .
Il terzo e il quarto motivo vanno esaminati congiuntamente, in quanto entrambi sollevano la questione della distribuzione e portata dell’onere della prova in materia di richiesta restituzione di somme a titolo di mutuo.
Essi sono infondati.
E’ principio consolidato di questa Corte quello per cui i l mutuo va annoverato tra i contratti reali, il cui perfezionamento avviene, cioè, con la consegna del denaro o delle altre cose fungibili che ne sono oggetto; ne consegue che la prova della materiale messa a disposizione dell’uno o delle altre in favore del mutuatario e del titolo giuridico da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione costituisce condizione dell’azione, la cui dimostrazione ricade necessariamente sulla parte che la res oggetto del contratto di mutuo chiede in restituzione, non valendo ad invertire tale onere della prova la deduzione, ad opera del convenuto, di un diverso titolo implicante l’obbligo restitutorio, non configurandosi siffatta difesa quale eccezione in senso sostanziale (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 35959 del 22/11/2021, Rv. 662908 -01;
in motivazione, punto 2.2.; Cass. n. 30944 del 2018; Cass. n. 9541/2010; Cass. n. 9209/2001).
Nel caso in esame, la Corte d’Appello non si è discostata da tali principi e quindi la censura non coglie nel segno, ma si risolve in una critica sull’apprezzamento delle risultanze processuali.
In conclusione, il ricorso va respinto con inevitabile addebito di spese secondo la regola della soccombenza, con distrazione in favore del difensore che ne ha fatto richiesta.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore del controricorrente, che liquida in € . 2.5 00,00 per compensi, oltre ad € . 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%, con distrazione in favore del procuratore antistatario.
Si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda