Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8943 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8943 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 18858-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
DI NOME COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 182/2023 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 19/07/2023 R.G.N. 89/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
R.G.N. 18858/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 28/01/2025
CC
RILEVATO CHE
1.La Corte d’Appello di Caltanissetta, con sentenza n. 182/2023 pubblicata il 19 luglio 2023, ha rigettato il reclamo proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza n. 225/2023 del Tribunale di Enna, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato a NOME COGNOME per uso indebito della r ete internet durante l’orario di lavoro.
La Corte territoriale, pur ritenendo provato che il lavoratore avesse utilizzato il computer aziendale per finalità personali, ha ritenuto non adeguatamente dimostrata la durata media giornaliera della navigazione su internet, pari a tre ore, come indicata nella contestazione disciplinare, escludendo così la proporzionalità della sanzione espulsiva in assenza di prova certa di tale durata.
La Corte, altresì, ha rilevato che la società non aveva adempiuto in modo preciso e circostanziato al proprio onere di provare non solo l’accesso a internet per fini personali, ma anche la frequenza e la durata degli accessi, osservando che la relazione tecnica prodotta dalla società non forniva dati univoci e oggettivi circa la durata effettiva della navigazione, limitandosi a una ricostruzione parziale e priva di elementi certi.
Sul principio di immutabilità della contestazione disciplinare, la Corte ha ritenuto che l’addebito contestato dovesse essere valutato nella sua formulazione originaria, senza possibilità di reinterpretazione in corso di causa, escludendo l’ammissibilità nel corso di giudizio di una diversa lettura della contestazione disciplinare per sopperire alla mancata dimostrazione della durata effettiva dell’accesso a internet, né di un ampliamento del profilo della contestazione in relazione a generiche negligenze lavorative.
Conseguentemente, in difetto della dimostrazione della sistematicità e della gravità della condotta contestata, la Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento, conformandosi alle statuizioni del Tribunale di Enna in ordine alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e alla condanna della società al risarcimento del danno in favore del dipendente.
Per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso l’azienda agricola, con 3 motivi, cui resiste con controricorso il lavoratore; la ricorrente ha depositato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ ordinanza;
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., per omesso rilievo del giudicato formatosi sulla mancata contestazione dei fatti addebitati al lavoratore.
In particolare, sostiene che il giudice di merito avrebbe errato nel riesaminare l’accertamento del Tribunale di Enna, il quale aveva rilevato che il fatto storico dell’accesso alla rete internet aziendale ‘per navigare su siti non aventi una correlazione con le mansioni di pertinenza’(cfr. pag 8 ricorso) non era stato contestato dal lavoratore.
Secondo la società, la mancata impugnazione di tale statuizione avrebbe determinato il passaggio in giudicato della stessa, precludendo ogni ulteriore scrutinio della questione in appello. La Corte d’Appello, pertanto, riesaminando tale profilo, avrebbe violato il principio di intangibilità del giudicato interno e il divieto di ultrapetizione.
Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla relazione tecnica di parte prodotta dalla società e dalle note difensive che ne chiarivano il contenuto (note di trattazione scritta depositate nel giudizio di appello).
In particolare, si duole che la corte di appello abbia ritenuto ‘l’assoluta insignificanza dell’elencazione dei collegamenti’ omettendo di considerare adeguatamente la relazione tecnica, che avrebbe consentito di quantificare con precisione la durata giornaliera dei collegamenti del lavoratore alla rete internet, giacchè elencava in modo dettagliato tutti i collegamenti effettuati dal dipendente, specificando data, orario e durata, e la sua valutazione avrebbe dimostrato l’effettività del superamento delle tre ore giornaliere di navigazione.
Inoltre, la Corte avrebbe ignorato le note difensive della società, nelle quali veniva chiarito il metodo di calcolo dei tempi di connessione, violando il principio del contraddittorio.
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e 7 della legge n. 300/1970, per errata interpretazione della lettera di contestazione disciplinare.
In particolare, sostiene che il giudice di merito avrebbe errato nell’attribuire rilievo determinante alla durata giornaliera (indicata in tre ore) della navigazione, mentre la reale volontà del datore di lavoro sarebbe stata quella di contestare l’uso reiterato della rete internet aziendale per fini personali, indipendentemente dalla durata esatta della connessione.
Secondo la società, la Corte d’Appello avrebbe dovuto interpretare la contestazione disciplinare nel suo complesso, valorizzando il dato centrale della distrazione del lavoratore
dall’attività lavorativa, piuttosto che il mero elemento quantitativo delle tre ore giornaliere, senza limitarsi al senso letterale delle parole.
Avrebbe errato, altresì, la Corte sottolineando che la contestazione non poteva essere mutata nel corso del giudizio, poiché nella prospettazione della ricorrente non era intervenuto alcun mutamento, in quanto il nucleo essenziale dell’addebito disciplinare riguardava l’uso improprio del PC aziendale e la conseguente negligenza professionale, e non esclusivamente la durata esatta della navigazione.
La Corte, concentrandosi sul dato numerico, avrebbe quindi finito per alterare il contenuto della contestazione, fornendo un’interpretazione restrittiva e non conforme ai criteri legali di ermeneutica contrattuale.
7. Il ricorso è infondato.
Parte ricorrente, pur presentando censure promiscuamente formulate con riferimento non solo al vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma anche al vizio di nullità della sentenza e del procedimento ( articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4) , nonché di violazione di norme, articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4, formula, in sostanza una mera critica della sentenza impugnata, laddove la stessa ha ritenuto illegittimo il licenziamento in assenza di prova sulla sistematicità e gravità della condotta, per come contestata.
All’evidenza si tratta di censure di merito che attengono alla ricostruzione della vicenda storica quale svolta dalla Corte di Appello ed alla valutazione del materiale probatorio operata dalla medesima, traducendosi nella sostanza in un diverso convincimento rispetto a quello espresso dai giudici del merito, non ammissibile nella presente sede di legittimità.
7.1. In particolare, quanto al primo motivo, con cui la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2909 c.c., assumendo che la Corte
d’Appello avrebbe omesso di rilevare il giudicato formatosi sulla mancata contestazione, da parte del lavoratore, dei fatti addebitati nel corso del giudizio di primo grado, deve esserne rilevata l’inammissibilità per difetto di autosufficienza, in quanto la società ricorrente non ha provveduto a trascrivere integralmente gli atti su cui fonda la propria doglianza, impedendo così alla Corte di verificare la sussistenza della denunciata violazione. Dalla parziale trascrizione riportata in ricorso, peraltro, emerge che la non contestazione riguarda esclusivamente l’uso della rete internet aziendale, ma non la durata giornaliera della navigazione, elemento essenziale per la valutazione della legittimità del licenziamento. Nel caso di specie, il Tribunale aveva espressamente affermato che, quand’anche il lavoratore non avesse contestato l’uso del computer per navigazione privata, ciò non avrebbe esonerato la società dal fornire la prova che tale condotta avesse effettivamente determinato errori nello svolgimento della prestazione lavorativa.
2. Il secondo motivo di ricorso, con cui si deduce l’omesso esame della consulenza tecnica di parte (CTP) nella parte in cui essa consentirebbe di ricostruire la durata effettiva di ciascun collegamento a internet, è infondato.
La Corte d’Appello ha esaminato la relazione tecnica depositata dalla società, ritenendola non idonea a fornire una prova attendibile circa la durata giornaliera della navigazione in rete. In particolare, la sentenza impugnata ha evidenziato come i dati contenuti nella relazione non consentissero di accertare il tempo effettivo trascorso dal lavoratore sui siti web indicati, ma solo il numero degli accessi e l’orario dell’ultimo collegamento. Ne consegue che la doglianza si traduce, in realtà, in una diversa lettura del materiale probatorio, inammissibile in sede di legittimità (Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24148).
Né assume rilievo l’ asserito omesso esame delle note difensive, atteso che esse non integrano un ‘fatto storico’ rilevante ai fini dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., ma si risolvono in mere argomentazioni difensive.
Deve inoltre rilevarsi che la sentenza impugnata è conforme alla decisione di primo grado (c.d. doppia conforme), con conseguente inammissibilità del motivo ex art. 348-ter, comma 5, c.p.c., se il ricorrente non indica specificamente le ragioni di fatto poste a fondamento delle due decisioni e non dimostra che esse siano tra loro divergenti (v. Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 20944 del 2019; Cass. n. 268 del 2021; Cass. n. 29002 del 2021; Cass. n. 25027 del 2021). Nel caso di specie, il ricorrente si limita ad affermare genericamente (pag. 8) che le motivazioni sono diverse, ma non illustra né spiega le differenze tra le rationes decidendi dei due giudici del merito, con conseguente inammissibilità del motivo.
In ogni caso, come rilevato dalla Corte territoriale, la società non ha fornito alcun elemento oggettivo idoneo a comprovare la durata media giornaliera dei collegamenti, elemento indicato nella contestazione disciplinare come pari a circa tre ore. Al contrario, la relazione di parte si è limitata a riportare elenchi di accessi senza fornire indicazioni attendibili circa la durata effettiva delle connessioni giornaliere, né la relazione spiega perché tale dato non fosse rilevabile. La Corte d’Appello ha evi denziato, in proposito, che l’addebito disciplinare, come formulato, individuava proprio nella durata media dei collegamenti uno degli elementi essenziali della condotta sanzionata e che, pertanto, l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro non poteva ritenersi assolto in assenza di una quantificazione chiara e documentata.
La sentenza ha altresì osservato che la condotta contestata, per essere idonea a giustificare il recesso, doveva presentare
carattere di sistematicità e rilevanza temporale, e che, nella specie, tale profilo risultava indimostrato, come indimostrata era la sussistenza di errori professionali imputabili causalmente all’indebita navigazione in rete. Sul punto, la Corte ha precisa to che, pur se evocati nella contestazione disciplinare, gli errori erano stati considerati dalla datrice di lavoro come circostanza accessoria e rafforzativa rispetto al nucleo centrale dell’addebito, rappresentato dalla sistematica utilizzazione della re te aziendale per fini personali, durante l’orario di lavoro.
In conclusione, la doglianza si risolve in una richiesta di nuova valutazione del materiale istruttorio e, peraltro, non individua un fatto storico decisivo non esaminato, né si confronta con la ratio decidendi effettiva della sentenza impugnata. Va anche ribadito, in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che le conclusioni contenute in una perizia stragiudiziale -anche se ritualmente prodotta in giudizio -non hanno valore di prova in senso tecnico, ma costituiscono meri elementi indiziari sottoposti al libero apprezzamento del giudice del merito (Cass. civ., Sez. III, 23 novembre 2022, n. 34450).
7.3. Il terzo motivo di ricorso, con cui si deduce la violazione degli artt. 1362 c.c. e 7 Stat. Lav., censurandosi l’interpretazione della lettera di contestazione operata dalla Corte d’Appello (secondo la ricorrente la Corte avrebbe dovuto ritenere che la volontà datoriale fosse quella di contestare il fatto che il lavoratore, dedicandosi alla navigazione in internet, non prestava adeguata attenzione ai propri compiti lavorativi a prescindere dalla durata) è inammissibile per difetto di specifica deduzione della violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale. La ricorrente, infatti, si limita a proporre una lettura alternativa della contestazione disciplinare, senza individuare specificamente in quali punti la Corte d’Appello
avrebbe errato nella sua interpretazione, né quali principi ermeneutici sarebbero stati violati.
Inoltre, l’argomentazione della società ricorrente si scontra con l’accertamento di fatto operato dal giudice di merito, il quale ha ritenuto che il nucleo essenziale dell’addebito fosse costituito dalla durata della navigazione su internet e che, non essendo stata provata una media giornaliera di tre ore, il licenziamento risultava privo di giusta causa. Tale accertamento è insindacabile in sede di legittimità, se sorretto -come nel caso di specie -da una motivazione logica e congrua (Cass. SS.UU., 07/04/2014, n. 8053).
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’avvocato del controricorrente per dichiarato anticipo, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Con distrazione .
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, 28 gennaio 2025
Dott.ssa NOME COGNOME