Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15332 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15332 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 12648-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, NOME COGNOME, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 944/2022 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 29/11/2022 R.G.N. 1107/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
27/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 12648/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 27/02/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Palermo, con la sentenza in atti, in parziale riforma della impugnata sentenza, emessa dal tribunale di Palermo ha condannato Poste Italiane RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di NOME dell’ulteriore importo dovutogli a titolo di indennità supplementare in misura pari a 20 mensilità retributive oltre alle spese del giudizio, come liquidate in sentenza.
A fondamento della sentenza la Corte d’appello ha sostenuto che il contenuto delle e-mail oggetto di contestazione disciplinare – appena cinque in un arco temporale di tre anni in cui peraltro COGNOME non è mai risultato essere il mittente -doveva considerarsi (quand’anche conosciuto dal predetto) del tutto inidoneo a dimostrare la responsabilità del medesimo. Poste italiane non aveva fornita la prova circa la fondatezza degli addebiti mossi al lavoratore dirigente licenziato per giusta causa, né della riconducibilità degli stessi al lavoratore con la contestazione disciplinare pervenutagli in data 29/1/2016 .
Con riferimento alle e-mail del 3 agosto 2007 e del 6 novembre 2007- nelle quali COGNOME tra i numerosi soggetti indicati, figura come destinatario solo per conoscenza – non era dato evincersi alcuno scambio di informazioni circa le modalità di invio di consegna delle lettere, non essendo indicato alcun tempo e luogo di consegna e, in generale, alcuna informazione utile sulle identificazione della spedizione. In assenza di altri elementi e fatti sintomaticamente univoci tali da far ritenere da un lato che le e-mail in questione fossero riconducibili al denunciato fenomeno illecito, dall’altro, sussistente un coinvolgimento diretto dell’COGNOME nell’attività di intercettazione delle lettere, le due e-mail dovevano, piuttosto, ricondursi ad una segnalazione di contenuto generico,
proveniente dalle strutture centrali divisionali preposte al monitoraggio della corrispondenza.
Nè ha diverse conclusioni poteva pervenirsi sulla scorta del fatto che il lavoratore avrebbe violato in ragione della posizione ricoperta e dei compiti assegnatigli, il dovere di controllare e assicurare il rispetto delle procedure aziendali da parte dei soggetti a lui sottoposti, poiché tale condotta presupponeva la prova (nel caso di specie del tutto insussistente) che COGNOME avesse consapevolezza che tali e-mail (solo cinque nell’arco di ben tre anni) rappresentassero il fenomeno illecito, poi prospettato dalla parte datoriale
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE con due motivi di ricorso ai quali ha resistito NOME COGNOME con controricorso. Le parti hanno depositato memorie prima dell’udienza ed il Collegio ha autorizzato il deposito dei motivi nel termini di 60 giorni dalla decisione.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si deduce ex articolo 360 n. 3 c.p.c. violazione falsa e applicazione degli articoli 2119, 1175, 1375, e 2104 -2105 c.c. nonché dell’articolo 115 c.p.c. per avere la sentenza impugnata affermato che il contenuto dell’ema il oggetto di contestazione disciplinare (aventi l’illecita finalità di far risultare una qualità del servizio di recapito divergente da quella reale) dovesse considerarsi (anche laddove conosciuto dal predetto) del tutto inidoneo a dimostrare la responsabilità del medesimo. Dalla semplice lettura dello scambio di e-mail riportate nella lettera di addebito, emergerebbe invece in modo evidente come COGNOME fosse pienamente consapevole del sistema di intercettazione delle lettere test che le strutture e i suoi sottoposti avevano consegnato e delle attività che essi quotidianamente ponevano
in essere falsando i dati del recapito, essendo documentalmente provato, che egli avesse ricevuto un numero consistente di comunicazioni in cui si fa esplicito riferimento a quelle attività ed ai meccanismi utilizzati.
1.1. Il primo motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile perché -come comprova la riproduzione al suo interno di tutte le e-mail e i documenti di causa – con esso la ricorrente intende in realtà contestare il merito della vicenda, chiedendo una nuova valutazione sul contenuto e sulla rilevanza disciplinare delle email in discorso.
Com’è noto spetta invece al giudice del merito accertare i fatti sulla base delle prove acquisite nel giudizio e questa Corte non potrebbe sostituirsi ad esso affermando che l’COGNOME fosse pienamente consapevole del sistema di intercettazione delle lettere test, come si pretende nel motivo, oltre tutto in una fattispecie di doppia conforme .
Il motivo mira infatti alla contestazione ed alla rivalutazione delle risultanze istruttorie ed alla rivisitazione del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 13676/16; Cass. 13625/18); laddove costituisce ius receptum che spetti in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (ex multis, Cass. n. 742/2015).
1.2. Va ricordato che -fatto salvo il vizio di motivazione o la mancata valutazione del fatto decisivo qui non sollevati – il controllo demandato a questa Corte in materia di valutazione del licenziamento disciplinare si arresta alla congruenza del
giudizio di sussunzione del fatto all’interno della clausola generale (costituita dalla giusta causa o del giustificato motivo soggettivo).
La “giusta causa” di licenziamento ex art. 2119 c.c. integra infatti una clausola generale che l’interprete deve concretizzare tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla norma e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (Cass. n. 7029 del 09/03/2023). E questa Corte ha pure precisato che ‘ L’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale’ (Cass. n. 135 34/2019).
2.- Con il secondo motivo, si deduce ex articolo 360 numero 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. per avere la sentenza impugnata affermato che la parte datoriale non avesse fornito la prova circa la fondatezza degli addebiti mossi oltre che la riconducibilità degli stessi all’COGNOME; l’errore che si lamenta è non aver la Corte d’appello di Palermo, considerato che Poste italiane non poteva avere alcun onere probatorio in ordine ai fatti oggetto della
contestazione disciplinare, così come risultanti dallo scambio di e-mail allegate alla lettera di addebito.
Come già rilevato nel ricorso in appello l’account in questione era quello aziendale del dottor COGNOME che non ne ha mai contestato la natura e la piena funzionalità, come pure la sua diretta disponibilità e costante utilizzazione, neanche in sede disciplinare; ne discende una volta provato l’invio di tali messaggi a lui indirizzati presso tale account, deve presumersi la conoscenza del relativo contenuto da parte del destinatario, posto che le comunicazioni, una volta regolarmente pervenute nella sfera di conoscibilità del ricevente per principio generale si danno per conosciute a prescindere dall’effettiva conoscenza.
2.1. Anche tale motivo è inammissibile perché la Corte di appello, analizzando il contenuto delle e-mail ricevute da COGNOME ha escluso, da una parte, che esse fossero riconducibili al denunciato fenomeno illecito (‘non è dato evincersi alcuno scambio di informazioni’) e che (in considerazione del loro ristretto numero, essendo state solo cinque in tre anni) il lavoratore avesse consapevolezza del fatto che rappresentassero il fenomeno illecito, poi prospettato dalla parte datoriale.
In sostanza la Corte di appello non ha escluso la ricezione delle mail ed ha invece escluso, con giudizio in fatto incensurabile in questa sede, qualsivoglia responsabilità del lavoratore perché in ragione del contenuto delle mail analizzate e della mera materiale ricezione di cinque e-mail in tre anni – si doveva escludere ‘in assenza di altri elementi’ che il lavoratore (quand’anche a conoscenza delle mail) fosse consapevole del fenomeno illecito in oggetto e avesse potuto pertanto violare i propri doveri secondo la contestazione rivoltagli dalla datrice di lavoro.
2.2. Avendo effettuato un accertamento negativo sul punto, la Corte non ha certamente violato il criterio legale sulla ripartizione dell’onere della prova; anche perché il datore di lavoro è tenuto a provare per intero la fattispecie di giusta causa imputata al lavoratore anche nei presupposti psicologici che ne costituiscono elemento costitutivo, la cui ricorrenza i giudici di merito hanno ripetutamente escluso con una ‘doppia conforme’ pronuncia.
3.- In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
4.- Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori dovuti per legge, Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio 27.2. 2025
Il Presidente dott.ssa NOME COGNOME