Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2866 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 2866 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 30767-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE IN AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
Oggetto
Licenziamento disciplinare per giusta causa
R.G.N. 30767/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 06/12/2023
CC
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIOCOGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1972/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 05/10/2020 R.G.N. 1770/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/12/2023 dal AVV_NOTAIO
COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto da RAGIONE_SOCIALE in amministrazione straordinaria contro la sentenza del Tribunale di Civitavecchia n. 250/2020 che pure aveva respinto la sua opposi zione all’ordinanza del medesimo Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, aveva annullato il licenziamento disciplinare per giusta causa intimato alla dipendente COGNOME NOME, condannando la società convenuta a reintegrarla nel posto di lavoro e a corrisponderle un’indennità risarcitoria corrispondente a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre agli accessori e alla rifusione delle spese di lite.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che, a sostegno del gravame, la reclamante lamentava l’erroneità della decisione di primo grado lì dove non avrebbe tenuto conto che l’oggetto della contestazione disciplinare di cui al comminato licenziamento riguardava il
continuo allontanamento dal luogo di lavoro e/o la sospensione dell’attività lavorativa senza la preventiva autorizzazione dei superiori gerarchici ed in assenza di esigenze di servizio e non già lo svolgimento di attività extralavorative durante l’orario di lavoro. Cosicché, sempre secondo l’allora reclamante, l’errata interpretazione del contenuto della contestazione disciplinare avrebbe indotto il primo giudice -altrettanto erroneamente -a ritenere che la società datrice non avesse fornito adeguata prova dello svolgimento da parte della signora COGNOME di attività extralavorativa durante l’orario di lavoro piuttosto che dimostrare -così come avvenuto attraverso le risultanze del sistema di rilevazione della presenza predisposto per motivi di controllo e di sicurezza -che negli orari indicati nella contestazione disciplinare la COGNOME si era indebitamente allontanata dal luogo di lavoro. La stessa Corte, nel giudicare infondata tale censura, dopo ampio ed adesivo richiamo alla motivazione della sentenza di primo grado, confermativa, per la parte relativa alla tutela reintegratoria, dell’ordinanza resa all’esito della fase sommaria, e all’esito di ulteriori proprie considerazioni, confermava che la reclamante non aveva fornito alcuna prova esaustiva e convincente circa la sussistenza del fatto oggetto di contestazione, vale a dire, l’allontanamento arbitrario o privo di autorizzazione dal luogo di lavoro. Giudicava, altresì, priva di pregio l’argomentazione posta a base del motivo principale di censura, secondo cui il Tribunale avrebbe travisato il contenuto della contestazione disciplinare.
Avverso tale decisione, l’RAGIONE_SOCIALE in amministrazione straordinaria ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso e successiva memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ.’. Censura la sentenza della Corte d’appello in quanto dall’esame della motivazione emerge come sia stato invertito l’onere probatorio. Secondo la ricorr ente, infatti, sarebbe stato onere del lavoratore fornire la prova del c.d. fatto negativo rispetto a quanto ascritto e risultante dalle risultanze delle timbrature. In particolare, SAI aveva l’onere di dimostrare i fatti posti a fondamento della contestazione disciplinare (c.d. fatto costitutivo), mentre sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare il fatto impeditivo, rappresentato -secondo la prospettazione di controparte -dall’essersi allontanata ripetutamente e per brevi periodi dal luogo di lavoro per asserite esigenze di servizio.
Con un secondo motivo si ‘denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 in quanto la Corte di Appello di Roma non si è pronunciata in ordine al motivo di impugnazione proposto rispetto alla mancata pronuncia da parte del Giudice di primo grado sull’impossibilità di
condannare COGNOME in amministrazione straordinaria al pagamento di somme di denaro’.
3. Il primo motivo è infondato.
Invero, alcuna inversione del principio dell’onere della prova, neanche in via surrettizia, è dato riscontrare nell’impugnata sentenza.
4.1. La censura in esame, essenzialmente riproduttiva di quella già formulata in sede di reclamo, non è, infatti, aderente all’effettiva ratio decidendi della sentenza di secondo grado.
4.2. In particolare, come già accennato in narrativa, la Corte distrettuale ha anzitutto richiamato, e fatto propria, ampia parte della motivazione del primo giudice, nella quale, tra l’altro, si era considerato che: ‘5.2. L’opponente pertanto non contesta che dalle risultanze dell’orologio marcatempo (cfr. doc. n. 13 e 14 fasc. RAGIONE_SOCIALE prima fase), ovvero dal meccanismo predisposto per il monitoraggio e la verifica dell’orario di lavoro, non risulti alcun inadempimento della lavoratrice dell’orario contrattualmente previsto. 5.3. Ma, se così è, sarebbe stato onere della società dimostrare che, malgrado l’orario di lavoro sia stato ‘formalmente rispettato’, in realtà la lavoratrice abbia svolto attività diverse dall’esercizio della prestazione lavorativa. 5.4. Tale conclusione non può desumersi dalla mera timbratura del badge all’entrata e all’uscita della palazzina, in carenza di prova il cui onere grava sul datore di lavoro -della sospensione dell’attività che sarebbe stata posta in essere negli intervalli temporali di cui si tratta. In altre parole, come rilevato nell’ordinanza
opposta, sarebbe stato onere di RAGIONE_SOCIALE provare che, malgrado la lavoratrice fosse presente sul luogo di lavoro nell’orario lavorativo, si stesse, in realtà, dedicando ad attività estranee alla propria prestazione lavorativa’.
4.4. Indi, per proprio conto, la Corte di merito ha aggiunto che: ‘In sostanza, l’asserito inadempimento sarebbe documentato dagli estratti dei tabulati di timbratura ai tornelli, ma tali risultanze non sono sufficienti da sole a dimostrare la mancata prestazione lavorativa, mancando per vero la prova che in quei determinati intervalli temporali, individuati dall’Azienda per contestare la sussistenza di un debito orario, la ricorrente di prime cure abbia effettivamente ed indebitamente sospeso la prestazione lavorativa e tantomeno la datrice di lavoro ha fornito la prova che la stessa si sia allontanata dal luogo di lavoro arbitrariamente ovvero senza l’autorizzazione dei superiori gerarchici’.
4.5. Dopo ulteriori considerazioni, basate su deposizioni testimoniali, la Corte di merito, come pure già premesso, ha confermato che la reclamante non ha fornito alcuna prova esaustiva e convincente circa la sussistenza del fatto oggetto di contestazione vale a dire l’allontanamento arbitrario o privo di autorizzazione dal luogo di lavoro.
4.6. Ha aggiunto, infine, che ‘l’argomentazione posta a base del motivo principale di censura, secondo cui il tribunale avrebbe travisato il contenuto della contestazione, non basato sullo svolgimento di un’attività extralavorativa durante l’orario di lavo ro bensì sul reiterarsi di episodi di allontanamento arbitrario dal luogo
di lavoro, si risolve in un mero artificio retorico poiché sulla base della condotta censurata alla lavoratrice vi sarebbe pur sempre l’inadempimento consistente in una procurata riduzione della misura della prestazione lavorativa rispetto a quella dovuta che, tuttavia, per quanto sopra ribadito, non risulta affatto dimostrata. Né può darsi credito alla tesi che, trattandosi perlopiù di allontanamenti brevi, non risulterebbero per ciò solo privi di giustificazione laddove invece è stato chiarito che proprio i movimenti temporanei di breve durata del personale da una palazzina all’altra non richiedevano affatto alcuna autorizzazione’.
E’ pertanto evidente che i giudici di merito del doppio grado di giudizio, a fronte delle risultanze dell’orologio marcatempo, vale a dire del meccanismo appositamente predisposto per il monitoraggio e la verifica dell’orario di lavoro di fatto osservat o dai dipendenti (risultanze, ritenute come tali incontestate dalla datrice di lavoro, ed attestanti l’osservanza del previsto orario di lavoro), anche alla luce delle deposizioni testimoniali, hanno apprezzato come insufficienti le emergenze in diverso senso delle mere timbrature del badge in entrata e in uscita dalla palazzina in cui prestava prevalentemente la propria opera la lavoratrice, trattandosi di timbrature ai tornelli inerenti al ‘sistema di rilevazione della presenze predisposto per motivi di controllo e di sicurezza’, vale a di re, per finalità differenti dalla verifica dell’orario di lavoro osservato, come peraltro tuttora fatto presente dall’attuale ricorrente per cassazione.
E tale apprezzamento probatorio della Corte d’appello, confermativo di quello espresso dai giudici della
doppia fase del primo grado, attiene indubbiamente a fatti la cui dimostrazione ricadeva integralmente nell’onere probatorio incombente sulla datrice di lavoro, in quanto erano i fatti integranti la causale del licenziamento disciplinare per giusta causa intimato alla lavoratrice in base alla contestazione in precedenza elevata; onere probatorio che la Corte ha ribadito non essere stato assolto dalla parte sulla quale faceva carico. Non ha, per contro, ritenuto che la stessa parte non avesse fornito la dimo strazione dell’assenza delle esigenze di servizio allegate dalla lavoratrice.
7. Inammissibile è il secondo motivo.
La doglianza si riferisce al fatto che l’attuale ricorrente aveva censurato ‘la sentenza di primo grado, per l’omessa pronuncia in ordine a quanto dedotto nel ricorso in opposizione, laddove si è lamentato l’errore del Giudice della prima fase nella parte in cui ha condannato RAGIONE_SOCIALE in amministrazione straordinaria al pagamento di somme di danaro’. Infatti, nel corso del primo grado il procedimento era stato interrotto e poi riassunto dalla lavoratrice appunto a seguito della sopravvenuta sottoposizione della società datrice di lavoro a detta procedura concorsuale.
Ebbene, al di là della difettosa formulazione di tale censura, la quale fa riferimento nel contempo ai differenti mezzi di cui ai nn. 3) e 5) del primo comma dell’art. 360 c.p.c., in relazione alla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., violazione che andava piuttosto fatta valere ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c. (dovendosi, quindi,
dedurre anche la nullità della sentenza in parte qua ), essa è comunque inammissibile per difetto d’interesse.
9.1. Pur prospettando a riguardo un’ ‘omessa motivazione’, la ricorrente in realtà denuncia un’omessa pronuncia della Corte di merito sul motivo di reclamo con il quale riproponeva l’assunto del suo motivo d’opposizione all’ordinanza del primo grado resa n ella fase sommaria, secondo il quale il giudice di quella fase erroneamente aveva condannato SAI al pagamento di somme di danaro, nonostante la sua sopravvenuta soggezione ad amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi.
9.2. Risulta, tuttavia, che l’attrice già nel corso della fase a cognizione piena del primo grado aveva rinunciato alla domanda di condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria, che aveva trovato accoglimento in prima fase, e tanto appunto a motivo della sottoposizione della convenuta a detta procedura nel corso del primo grado, rendendo così inutile una pronuncia d’improcedibilità in parte qua , vale a dire, riferita a tale precipua domanda di condanna.
Va da sé, perciò, che la ricorrente è priva di qualsiasi interesse attuale, concreto e giuridicamente apprezzabile a far valere ora un’omessa formale pronuncia ex art. 112 c.p.c. della Corte di merito in ordine a un motivo di reclamo che riguardava il manc ato rilievo d’improcedibilità circa una domanda di condanna non più in essere già prima della conclusione del primo grado.
La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della
contro
ricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del