Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24118 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 24118 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso 19563-2019 proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1529/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/04/2019 R.G.N. 3313/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
16/05/2024 dal AVV_NOTAIO Dott. COGNOME.
Oggetto
Qualificazione rapporto privato
R.G.N. 19563/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 16/05/2024
CC
RILEVATO CHE
Con la sentenza n. 1529/2019 la Corte di appello di Roma ha rigettato il gravame proposto avverso la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede, con la quale erano state respinte le domande proposte da NOME COGNOME, nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, dirette al riconoscimento della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale dal 24.3.2004 al giugno 2013 e la condanna della società al pagamento della somma i euro 554.521,30 a titolo di differenze retributive, come da conteggio allegato all’atto introduttivo del giudizio.
I giudici di seconde cure, a fondamento della decisione, hanno rilevato, conformemente a quanto precisato dal Tribunale, che la genericità delle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo era inidonea a comprovare, anche se confermate in sede testimoniale, a sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE.
Avverso la decisione di secondo grado NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi; la società intimata ha resistito con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, degli artt. 230 bis, 2094, 2095 e 2222 cc. Egli deduce che, sulla base dei dati di fatto accertati, la Corte di appello aveva erroneamente ritenuto che il rapporto di lavoro da esso prestato fosse da considerarsi come prestazione di lavoro in ambito familiare, resa in maniera gratuita, senza rapporto di subordinazione bensì quale prestazione autonoma d’opera, così incorrendo nella violazione dell’art. 230 bis cod. civ.
Con il secondo motivo si censura la violazione degli artt. 132 comma 2 n. 4 e 183 comma 7 cpc, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 4
cpc, per il mancato svolgimento dell’attività istruttoria richiesta da esso ricorrente nelle precedenti sedi di merito e inopinatamente respinta dai giudici di merito.
Il primo motivo non è meritevole di accoglimento.
Per meglio comprendere la vicenda in fatto, va evidenziato che il COGNOME aveva dichiarato di avere lavorato, presso la RAGIONE_SOCIALE, dal marzo del 2004 (data in cui sarebbe stato verbalmente assunto dal proprio fratello NOME COGNOME, marito della amministratrice unica dell’epoca) al 30 giugno 2013 (data in cui sarebbe stato licenziato, sempre verbalmente, dal proprio nipote NOME COGNOME) e di avere svolto, sia prima che dopo il decesso del fratello, avvenuto nell’ottobre del 2011, mansioni di dirigente di impresa.
Orbene, entrambi i giudici del merito (Tribunale e Corte di appello) hanno ritenuto che le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo fossero inidonee a comprovare tra le parti la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra il RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE.
La Corte territoriale -oltre ad avere sottolineato che nulla era stato allegato in ricorso in ordine: a) alla eterodirezione delle prestazioni e alla sussistenza di vincoli di orario e/o di presenza, b) alla sussistenza di direttive di carattere generale ricevute dal COGNOME; c) ai controlli operati sulla attività lavorativa o ad eventuali richiami attuati nello svolgimento di essa; d) alle modalità del licenziamento intimatoha in aggiunta specificato l’evenienza che, in ipotesi di prestazioni res in ambito familiare, opera la presunzione di gratuità delle prestazioni stesse che può essere superata fornendo una prova rigorosa della subordinazione.
La decisione della Corte capitolina, pertanto, si fonda essenzialmente sul difetto di idonea allegazione sulla eterodirezione e, solo in aggiunta, è stato precisato che, in occasione di prestazioni rese in ambito familiare, la prova sulla subordinazione doveva essere particolarmente rigorosa.
Le censure di cui al motivo, tutte incentrate sul fatto che la Corte territoriale aveva erroneamente qualificato il rapporto di lavoro tra le parti come reso in ambito familiare (e pertanto non di natura
subordinata) non sussistendo, invece, i presupposti per la collaborazione familiare, non è pertinente alla ratio decidendi della gravata sentenza che ha ravvisato, in primo luogo, un decisivo difetto di allegazione sulla pretesa natura subordinata del rapporto di lavoro e, solo in secondo luogo, ha fatto riferimento ad una prestazione lavorativa resa in ambito familiare con la quale si sarebbe dovuta confrontare una prova rigorosa.
Va, al riguardo, ribadito che è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione con il quale si contesti esclusivamente l’avvenuto rilievo in motivazione, da parte del giudice di appello, dell’inammissibilità dei motivi di impugnazione, ove tale rilievo sia avvenuto “ad abundantiam” e costituisca un mero “obiter dictum” , che non ha influito sul dispositivo della decisione, la cui “ratio decidendi” è, in realtà, rappresentata dal rigetto nel merito del gravame per infondatezza delle censure (Cass. n. 30354/2017).
Il secondo motivo è infondato.
In tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 3819/2020).
Nella fattispecie, invece, la Corte territoriale ha specificato le ragioni per cui ha ritenuto inutile la richiesta di ammissione della prova testimoniale articolata, perché se anche le circostanze fossero state confermate, per la genericità delle allegazioni comunque la natura subordinata del rapporto di lavoro non avrebbe potuto essere dimostrata; quanto alla documentazione prodotta, poi, la Corte distrettuale comunque ha considerato non idonea la stessa al fine richiesto perché le mail allegate in atti non provenivano dall’indirizzo della RAGIONE_SOCIALE bensì da altra società, la RAGIONE_SOCIALE.
Si tratta di un accertamento di fatto sulla rilevanza delle prove, adeguatamente motivato, che pertanto resiste alle doglianze articolate nel motivo.
Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 16 maggio 2024