Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7079 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 7079 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 15/03/2024
Oggetto
Rapporto di
lavoro agricolo.
Disconoscimento.
Onere di prova
RNUMERO_DOCUMENTO.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/10/2023
CC
ORDINANZA
sul ricorso 9885-2021 proposto da: COGNOME NOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura Centrale dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME,
NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1320/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/10/2020 R.G.N. 558/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/10/2023 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
con la sentenza impugnata, la Corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda dell’odierno ricorrente volta alla reiscrizione negli elenchi dei lavoratori agricoli per l’anno 2011, da cui era stato cancellato a seguito di accertamento ispettivo condotto dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, che aveva disconosciuto le giornate lavorative svolte presso l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE di Spina Vito;
la Corte, in particolare, ha ritenuto che gravasse sul lavoratore l’onere di provare la sussistenza e la durata del rapporto di lavoro disconosciuto dall’ente previdenziale, escludendo che al provvedimento di cancellazione fosse applicabile la disciplina dell’art. 3 della legge nr. 241 del 1990 e ha ritenuto che a tale onere il lavoratore non avesse nella specie assolto;
avverso tale pronuncia, la parte privata ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura;
l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ha resistito, con controricorso;
il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni dall’adozione della decisione in Camera di consiglio.
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. e dell’art. 3 della legge nr. 241 del 1990, per avere la Corte di merito ritenuto che al provvedimento di cancellazione dagli elenchi anagrafici degli operai agricoli non dovesse applicarsi il precetto che impone che ogni provvedimento amministrativo debba essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e di diritto che lo hanno determinato: ad avviso di parte ricorrente, infatti, l’art. 3 cit. imporrebbe l’obbligo di motivazione dei provvedimenti di cancellazione, tanto più rilevante nel caso di specie, non avendo l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE provveduto a notificargli l’esito dell’ispezione condotta a carico del datore di lavoro, in violazione dell’art. 8, comma 5, d.lgs. nr. 375 del 1993;
con il secondo motivo, il ricorrente deduce, conseguentemente, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per non avere la Corte territoriale valutato la sufficienza e adeguatezza della motivazione del provvedimento di cancellazione al fine di renderlo edotto delle ragioni per le quali era stata disposta la sua cancellazione dagli elenchi;
con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ. per avere la Corte di merito ritenuto che gravasse a suo carico l’onere della prova della sussistenza del rapporto di lavoro che è presupposto dell’iscrizione, esentando l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE dall’onere di dimostrare le ragioni che avevano determinato la sua cancellazione dagli elenchi; per avere attribuito valore di piena prova della simulazione del rapporto di lavoro al provvedimento di cancellazione dell’iscrizione;
con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod.civ. e degli artt. 244,
420 e 421 cod.proc.civ. per avere la Corte territoriale rigettato le richieste istruttorie sul presupposto che il motivato giudizio di inammissibilità e irrilevanza formulato al riguardo dal primo giudice non fosse stato specificamente censurato in sede di gravame, senza esercitare i poteri istruttori con assegnazione alle parti di un termine per porre rimedio alla irregolarità nell’articolazione dei mezzi di prova;
10. in via preliminare, si osserva che Cass. nr. 1295 del 2023 ha scrutinato, in una fattispecie sostanzialmente sovrapponibile alla presente, le questioni oggi devolute al Collegio;
11. le conclusioni cui è giunta la Corte, nel precedente indicato, qui condivise, conducono a disattendere i primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure;
12. come ripetutamente affermato da questa Corte ( ex multis, v. Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022), nella fattispecie in esame si contrappongono, da un lato, la pretesa dell’iscritto nell’elenco dei lavoratori agricoli a mantenere l’iscrizione, al fine di accedere alle prestazioni previdenziali proprie dei lavoratori agricoli e, dall’altro lato, l’obbligo dell’ente previdenziale di assicurare il rispetto della regola della effettività dell’attività connessa all’iscrizione assicurativa;
13. si tratta, come è stato precisato, di situazioni giuridiche che non mettono capo né all’esercizio di alcuna potestà amministrativa di carattere discrezionale da parte dell’ente, né ad alcuna posizione di interesse legittimo in capo al lavoratore assicurato: all’espletamento dell’attività RAGIONE_SOCIALE subordinata per un certo numero di giornate corrisponde infatti il diritto del lavoratore agricolo all’iscrizione, così come all’accertamento di insussistenza di tali presupposti di fatto consegue la cancellazione del lavoratore dagli elenchi;
14. ne deriva l’infondatezza dei rilievi esposti: indipendentemente dalla possibilità o meno di riferire l’intero corpus delle previsioni della legge nr. 241 del 1990 alla sola attività amministrativa in senso stretto, ossia all’agire autoritativo dell’amministrazione (come pure sostenuto da Cass. nn. 27655 e 35548 del 2022, sulla scorta di Cass. nr. 28141 del 2018), dirimente è piuttosto il fatto che, vertendosi in materia di obbligazioni di natura pubblica, che nascono ex lege al verificarsi dei requisiti di volta in volta previsti dall’ordinamento, la funzione del procedimento amministrativo che è preordinato alla loro adozione è di natura meramente ricognitiva: ciò comporta non soltanto che all’inadempimento dell’ente che sia pregiudizievole per il diritto del privato può direttamente porre rimedio il giudice ordinario, dinanzi al quale si fa valere direttamente il rapporto obbligatorio, ma soprattutto che, trattandosi di atti rigidamente vincolati alla regola del rapporto obbligatorio, lo stesso ente previdenziale può sempre prendere, senza formalità alcuna (e dunque anche in giudizio), una diversa posizione in ordine al contenuto dell’obbligazione, non essendo in alcun modo vincolato da altri atti emessi in precedenza, ma soltanto alla legge del rapporto (così espressamente Cass. nr. 2804 del 2003). In ciò risiede «la ragione ultima» per cui gli atti di gestione delle obbligazioni pubbliche in materia previdenziale e assistenziale debbono ritenersi sottratti all’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3 della legge nr. 241 del 1990: si tratta infatti di atti in cui la motivazione non è affatto rilevante; decisivo è soltanto che il comportamento dell’ente si sia uniformato o meno al vincolo obbligatorio che, in presenza dei presupposti di fatto, sorge dalla legge; questa Corte ha da tempo, perciò, affermato che, stante l’indifferenza del procedimento amministrativo rispetto alla consistenza della sua situazione soggettiva, l’assicurato non può, in difetto dei fatti costitutivi della relativa obbligazione, fondare la pretesa giudiziale di
pagamento della prestazione previdenziale su una carente o insufficiente motivazione del provvedimento di diniego della prestazione, potendo semmai in tali casi, ricorrendone in concreto i presupposti, far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni eventualmente cagionatigli dal comportamento dell’ente medesimo (così, espressamente, Cass. nn. 2804 del 2003, cui hanno dato seguito, tra le numerose, Cass. nn. 9986 del 2009, 20604 del 2014 e 31954 del 2019);
15. infondato è anche il terzo motivo: è infatti consolidato il principio di diritto secondo cui la funzione di agevolazione probatoria dell’iscrizione di un lavoratore nell’elenco dei lavoratori agricoli viene meno qualora l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, a seguito di un controllo, disconosca l’esistenza del rapporto di lavoro che ne costituisce il presupposto; in tal caso, il lavoratore che agisce in giudizio ha l’onere di provare l’esistenza, la durata e la natura onerosa del rapporto dedotto a fondamento del diritto di iscrizione e di ogni altro diritto consequenziale di carattere previdenziale che abbia fatto valere (così, tra le più recenti, Cass. nr. 31954 del 2019, cit.); con la conseguenza ulteriore di un esito sfavorevole del giudizio, per il lavoratore, quando le risultanze processuali, come nel caso di specie, non consentano di pervenire alla qualificazione del rapporto nei termini richiesti;
16. sotto questo profilo, come osservato da Cass. nr. 1295 del 2023, richiamata in apertura della presente motivazione, va rettamente intesa l’affermazione contenuta in Cass. S.U. nr. 1133 del 2000 (e poi tralaticiamente ripresa da molte altre successive) secondo cui, quando contesti l’esistenza dell’attività lavorativa o del vincolo della subordinazione, l’ente previdenziale avrebbe l’onere di fornire la relativa prova, cui l’interessato potrebbe a sua volta replicare mediante offerta di altri mezzi di prova: come efficacemente chiarito, l’agevolazione probatoria garantita
dall’iscrizione negli elenchi vale sul presupposto che non vi siano disconoscimenti; viceversa, non può giustificare un’inversione dell’onere della prova a carico dell’ente previdenziale, in caso di cancellazione dell’iscrizione ( che è atto meramente consequenziale al disconoscimento del rapporto di lavoro);
17. in definitiva, in linea con quanto affermato nel recente precedente, più volte citato, l’agevolazione probatoria costituita dall’iscrizione negli elenchi esime l’assicurato (ma non è il caso di specie) dalla prova dei presupposti di fatto utili al riconoscimento del diritto alle prestazioni previdenziali per gli operai agricoli, fino a che sussiste ( id est : fino a che non vi sia stata la cancellazione) e sempre che l’ente previdenziale, convenuto in giudizio, non contesti l’attendibilità delle risultanze documentali richiamando elementi di fatto (come il contenuto di accertamenti ispettivi o la sussistenza di rapporti di parentela, affinità o coniugio tra le parti), idonei a far dubitare dell’effettività del rapporto di lavoro o del suo carattere subordinato: tale contestazione, pur in presenza dell’iscrizione, è infatti sufficiente ad escludere che il giudice possa risolvere la controversia in base al semplice riscontro dell’iscrizione ancora in essere, dovendo invece pervenire alla decisione valutando liberamente e prudentemente tutti gli elementi probatori acquisiti alla causa e, in caso di persistenza del dubbio, tornando ad applicare la regola di giudizio consacrata nell’art. 2697 cod.civ.;
18. infondato, infine, è il quarto motivo. Come pure riconosciuto da parte ricorrente, i giudici territoriali hanno disatteso la richiesta di prova testimoniale reiterata in sede di gravame sul rilievo che il giudizio d’inammissibilità formulato al riguardo dal primo giudice non era stato attinto da specifiche censure (cfr. pagg. 12 e ss della sentenza impugnata). In ogni caso, la Corte di appello ha anche
evidenziato le ragioni per cui la prova offerta non era idonea alla dimostrazione dei fatti controversi («a ciò si aggiunga»);
a fronte di tale motivazione, l’odierno ricorrente ha affermato che i giudici territoriali dovevano in realtà considerare censurata anche l’affermazione della sentenza del Tribunale che aveva dichiarato inammissibili le prove testimoniali, richiamando in proposito stralci di Cass. nr. 139 del 2019, secondo cui l’interpretazione degli atti di parte dovrebbe essere condotta sulla base della lettura dell’atto nella sua interezza, considerati il contenuto sostanziale dell’atto, la natura della vicenda descritta e le finalità che la parte intende perseguire col provvedimento chiesto in concreto;
trattasi, tuttavia, di argomentazioni inidonee a censurare la doppia ratio decidendi della pronuncia impugnata;
da un lato, questa Corte ha costantemente affermato che la parte, la cui prova non sia stata ammessa nel giudizio di primo grado, deve dolersi di tale mancata ammissione attraverso un apposito motivo di gravame (Cass. nr. 4717 del 2014), non essendo sufficiente che egli impugni la sentenza;
dall’altro, la mancata ammissione dei mezzi di prova, per difetto di rilevanza, implicando un giudizio di merito, va denunciato con la puntuale indicazione della decisività delle circostanze di fatto che erano state offerte e che, qualora esaminate, avrebbero condotto, in termini di verosimiglianza, prossima alla certezza, ad un diverso esito della lite; controllo, nella specie, comunque impedito in presenza di una pronuncia cd. «doppia conforme». Restano assorbiti gli ulteriori rilievi;
conclusivamente, il ricorso va rigettato, con le spese che si liquidano come da dispositivo;
tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono anche i presupposti processuali per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater , dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale del 25