Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22424 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 22424 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1052-2025 proposto da:
NOME COGNOME NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE E DEL MERITO, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;
– resistente con mandato – avverso la sentenza n. 662/2024 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 04/07/2024 R.G.N. 1444/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Fatti di causa :
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N.1052/2025
Ud 02/07/2025 CC
Con sentenza n. 1019/2021 il Tribunale di Siracusa, sezione lavoro, accoglieva la domanda proposta da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME e dichiarava la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra i ricorrenti e l’amministrazione scolastica tra il 2001 e il 2017 sulla base di contratti annuali di collaborazione continuata, con conseguente condanna del Ministero dell’Istruzione al risarcimento dei danni liquidati nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione e delle differenze retributive maturate tra quanto percepito e quanto dovuto in ragione del CCNL di comparto per il periodo dal 2009 al 2019 ed entro l’arco del termine decennale di prescrizione. il Tribunale aveva accolto la domanda degli odierni ricorrenti perché aveva rilevato che tra gli odierni appellanti ed il Ministero erano intercorsi numerosi contratti a termine senza soluzione di continuità di durata annuale tali da ricoprire integralmente l’anno scolastico, da qualificarsi supplenze su organico di diritto, reputava fondata la domanda risarcitoria, sussistendo l’ipotesi dell’ abusivo utilizzo, da parte del datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato aventi la durata complessiva superiore a 36 mesi; respinta la doman da di conversione, atteso l’esplicito divieto sancito in via generale per il pubblico impiego dall’art. 36 c. 2 del D.lgs 165/01 e dall’art. 97 della Costituzione, il Tribunale quantificava il danno ex art. 32 c. 5 della l. n. 183/2010 nella misura di dodici mensilità per ciascun ricorrente.
Il MIUR proponeva appello; NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto dell’impugnazione. Con il primo motivo di appello il Ministero dell’Istruzione lamentava l’erroneità della sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva erroneamente inquadrato il rapporto lavorativo dei ricorrenti tra i rapporti di lavoro
subordinato a termine, laddove invece gli stessi ricorrenti avevano allegato di avere stipulato formalmente una pluralità di contratti di collaborazione, coordinata e continuativa, asserendone la natura subordinata, ma in assenza degli indici rilevatori dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato che non erano stati provati dai ricorrenti.
2.1. La sentenza della Corte di Appello ha accolto questo primo motivo di ricorso e lo ha ritenuto assorbente di ogni altra questione. Il tutto secondo i seguenti passaggi argomentativi: «va rilevato che il Tribunale ha affermato, in contrasto con le allegazioni dei ricorrenti, che gli stessi avevano svolto ‘contratti a termine per supplenze su organico di diritto’, avendo ‘sottoscritto ripetuti contratti di lavoro a tempo determinato in forza dei quali sono stati sistematicamente utilizzati dall’Amministra zione scolastica in attività di collaborazione scolastica, per un periodo superiore ai trentasei mesi’. Il primo giudice non ha compiuto alcuna indagine in merito alla dedotta simulazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dando per scontato che si trattasse di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato (c.d. supplenze). 8. L’onere della prova circa il concreto atteggiarsi del rapporto, in tesi difforme rispetto al tipo contrattuale formalizzato tra le parti, ricade sui ricorrenti e quindi sugli odierni appellati. Il Ministero in primo grado ha contestato le circostanze allegate dai lavoratori, ma questi ultimi, vittoriosi in primo grado, non hanno reiterato la richiesta di prova per testi (non espletata in quel grado d i giudizio) pur essendone onerati ai sensi dell’art. 346 c.p.c. (cfr. Cass. 12366/2003, 3376/2011, 11703/2019). Peraltro in primo grado i ricorrenti si erano riservati di indicare i testimoni da escutere, ma di fatto non li hanno indicati nemmeno costituendosi nel giudizio di appello, facendo valere
ai fini probatori unicamente le risultanze documentali dei contratti di collaborazione coordinata continuativa asseritamente prodotti agli atti di causa». La sentenza ha, di seguito, ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale nel quale si iscriveva la contesa e ha concluso affermando: «14. Nel caso di specie, si ribadisce che risulta incontestato che gli appellati hanno prestato attività lavorativa in favore dell’amministrazione scolastica in virtù di una serie di contratti formalmente stipulati come collaborazioni coordinate e continuative, benché gli appellati non si siano curati nemmeno di produrli. Anzi, invitati da questa Corte a depositare il fascicolo di parte in formato cartaceo asseritamente allegato al ricorso introduttivo del primo grado di giudizio, non hanno inteso adempiere all’onere nel termine assegnato con l’ordinanza del 18.1.2024, né successivamente. Agli atti di causa vi è un unico contratto di collaborazione coordinata e continuativa, stipulato l’1.9.2014 da Ricupero NOME, c he non è parte del presente grado di giudizio, non essendo stato destinatario dell’atto di appello. Risultano invece prodotti agli atti di causa unicamente alcuni cedolini dello stipendio. 15. In difetto della produzione dei contratti e in mancanza di prove di segno contrario non può ritenersi che l’amministrazione scolastica abbia utilizzato la forma di lavoro flessibile prescelta al di fuori dei casi previsti dalla legge».
2.2. Pertanto, con la sentenza n. 662/2024 depositata il 04/07/2024, la Corte di Appello di Catania, sezione lavoro, accoglieva l’appello e per l’effetto rigettava le domande spiegate in via originaria dai ricorrenti.
Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME articolando nove motivi di ricorso. Il Ministero dell’Istruzione ha
ricevuto rituale notifica del ricorso e si è limitato al deposito del mandato.
La parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 -bis . 1 c.p.c.
Il ricorso è stato trattato dal Collegio nella camera di consiglio del 2 luglio 2025.
Ragioni della decisione:
Con il primo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 325 c .p.c. La sentenza impugnata avrebbe « errato nel respingere l’eccezione di inammissibilità dell’appello sollevata dalla difesa degli odierni ricorrenti; infatti a pag. 2 nelle cosiddette ‘specificazioni delle parti della sentenza che si intendono impugnare ‘, è detto ‘la sentenza n.1332/19 vie ne impugnata nei capi indicati ai punti 1-2-3-4 di pag. 2-34’ ».
1.1. Il motivo è infondato. La sentenza della Corte di Appello va esente da censure nella parte in cui ha escluso che l’errore in questione, meramente materiale, potesse determinare l’inammissibilità dell’impugnazione e tanto perché l’ atto di appello, sebbene con questo errore nella indicazione numerica, conteneva altra indicazione esatta del numero della sentenza impugnata, l’esatto nome delle parti e l’esatta indicazione, discorsiva, delle parti della sentenza impugnata sicché era fuori di dubbio che l’ap pello valesse a individuare il provvedimento impugnato.
1.2. In questo modo la sentenza si è uniformata a saldi principi di diritto: «la discordanza tra gli estremi della sentenza appellata, come precisati nell’atto di impugnazione, e i corrispondenti dati identificativi della sentenza prodotta in copia autentica dall’appellante non è di per sé significativa, potendo essere conseguenza di un mero errore materiale, senza comportare incertezza nell’oggetto del giudizio, qualora
la corrispondenza tra la sentenza depositata e quella nei cui confronti è rivolta l’impugnazione sia confermata da una verifica della congruenza tra contenuto della sentenza in atti e motivi dell’appello» (Cass. 24/11/2022, n. 34588 e, nello stesso senso, Cass. 02/10/2014 n. 20828; Cass. 31/07/2007, n. 16921).
Con il secondo motivo il ricorso deduce violazione ed errata interpretazione art. 2946 c.c. assumendo che «nessuna eccezione di prescrizione poteva essere sollevata dal Ministero contumace in primo grado e ricorrente in appello. Quindi è evidente che l’eccezione sulla prescrizione decennale, a favore di quella quinquennale non è ammissibile, e la si eccepisce espressamente, per cui la prescrizione decennale fissata dal Giudice di primo grado, rimane assoluta ed incontestabile».
2.1. Il motivo è inammissibile atteso che la sentenza di appello non si pronuncia circa la prescrizione e il termine applicabile, ma respinge nel merito la domanda degli attori senza prendere in considerazione la determinazione del quantum e la proiezione nel passato del diritto vantato dai ricorrenti.
Con il terzo motivo il ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e 69 d.lgs. 276/03 perché la sentenza impugnata avrebbe errato nel considerare il rapporto dei ricorrenti privo del carattere della subordinazione e non avrebbe rettamente applicato le norme invocate che riguardano i limiti applicativi dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa nella pubblica amministrazione.
3.1. Il motivo è inammissibile nella misura in cui non attinge la ratio decidendi della sentenza impugnata. La corte di Appello muove dal presupposto, corretto, secondo il quale: in tema di pubblico impiego privatizzato, qualora la P.A. faccia
ricorso a successivi contratti formalmente qualificati di collaborazione coordinata e continuativa e il lavoratore ne alleghi l’illegittimità anche sotto il profilo del carattere abusivo della reiterazione del termine, il giudice è tenuto ad accertare se di fatto si sia instaurato un rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato e a riconoscere al lavoratore, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge per la reiterazione, il risarcimento del danno, alle condizioni e nei limiti necessari a conformare l’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea (Cass. 08/05/2018, n. 10951).
3.2. Secondo detto principio, costante nella giurisprudenza della Corte di cassazione, presupposto per la tutela richiesta dai ricorrenti è l’accertamento della natura subordinata del rapporto che il giudice deve compiere per poter eventualmente valutare il carattere abusivo della reiterazione del termine. La sentenza della Corte di Appello, ravvisando una lacuna nella decisione di primo grado, che aveva fatto discendere la natura subordinata del rapporto dalla circostanza che i ricorrenti erano stati adibiti a sostituzione di lavoratori vacanti su organico di diritto senza tenere conto della stessa prospettazione dei ricorrenti, che deducevano di aver prestato collaborazione coordinata e continuativa, ha ritenuto suo dovere accertare la natura subordinata del rapporto. In proposito la Corte territoriale ha rilevato che i ricorrenti non avevano prodotto i contratti di collaborazione continuata e continuativa, non avevano dimostrato le circostanze dalle quali si sarebbe dovuto trarre elementi decisivi circa il carattere subordinato della prestazione e non avevano indicato in primo grado i testi da escutere sui capitoli di prova testimoniale. La sentenza deduce quindi che mancavano gli elementi essenziali per la
stessa applicabilità delle norme invocate dal ricorrente (artt. 61 e 69 d.lgs. 276/2003).
3.3. Il motivo di ricorso, senza contrastare specificamente questi passaggi argomentativi, si limita a opporre una propria valutazione circa la ricorrenza dei requisiti a quella della Corte di Appello, cosi sollecitando una inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio da parte di questa Corte e non rappresentando alcuna violazione di legge.
Con il quarto motivo il ricorso deduce falsa ed errata interpretazione dell’art. 36 del d.l gs. 165/2001; la sentenza impugnata avrebbe errato nel trascurare che i ricorrenti avevano dedotto l’illegittimità della successione di contratti a termine per contrasto con le disposizioni nazionali e di fonte comunitaria sicché la pubblica amministrazione aveva utilizzato i ricorrenti per far fronte a esigenze stabili e non temporanee anche in violazione dell’art. 5, comma 4 -bis , d.lgs. 368/2001. L’incardinamento dei lavoratori nella stabile organizzazione del datore di lavoro pubblico, la sottoposizione di esso a vincoli gerarchici, la disciplina delle malattie e delle ferie, la mancanza di programmi specifici e definiti nei contratti di collaborazione continuativa conclusi per diciassette anni consecutivamente dai ricorrenti, erano elementi istruttori emersi nel giudizio di primo grado e non adeguatamente valutati dalla Corte di Appello.
Con il quinto motivo il ricorso deduce errata applicazione e violazione dell’art. 1 del d.lgs. 276/93 e, ancora una volta, si critica la sentenza impugnata per aver trascurato gli elementi emergenti dalla documentazione in atti, la supplenza su organico di diritto e le circostanze che denotavano un vincolo di subordinazione nei rapporti di lavoro dei ricorrenti, tali da esorbitare dai limiti che l’invocato art. 1 d.lgs. 276/1993 assegna al contratto di collaborazione continuativa.
5.1. In realtà il riferimento normativo è errato. Il riferimento è da intendersi al d.lgs. 276/2003, abrogato e ritenuto applicabile ratione temporis .
Con il sesto motivo il ricorso deduce violazione e mancata applicazione dell’art. 2094 c.c. lamentando che la Corte di Appello avrebbe errato nell’escludere la natura subordinata della prestazione di lavoro e del rapporto intercorso tra i ricorrenti e il Ministero.
I tre motivi di ricorso possono essere analizzati congiuntamente perché muovono la medesima critica alla sentenza impugnata, quella cioè di non aver apprezzato e rilevato adeguatamente il materiale istruttorio in atti che induceva a ravvisare tutti i presupposti della subordinazione, con conseguente violazione e falsa applicazione delle disposizioni invocate che definiscono la natura del co.co.co. e del vincolo di subordinazione.
7.1. In proposito va ricordato, con riguardo alle norme invocate, che l’art. 61 d.lgs. 276/2003 stabiliva: 1. Ferma restando la disciplina per gli agenti e i rappresentanti di commercio, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’articolo 409, n. 3, del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa. L’a rt. 69 d.lgs. 276/2003 stabiliva: 1. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai
sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. Le due disposizioni sono state di seguito abrogate dalla legge 15/06/2015, n. 81 ma sono invocate in quanto applicabili alla fattispecie.
7.2. Orbene, è certo che alla luce di detta disciplina che i contratti di collaborazione continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, dovessero essere considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.
7.3. La Corte di Appello ha affermato, tuttavia, che nel caso in questione i ricorrenti non avevano depositato nemmeno i contratti conclusi e che non avevano adempiuto a tale onere di deposito nemmeno dopo specifica richiesta del giudice. Dunque i ricorrenti, secondo l’apprezzamento in fatto della C orte, sono venuti meno al fondamentale onere probatorio su di essi gravante. I ricorrenti, rilevava la sentenza impugnata, non avevano chiesto in primo grado di escutere i testi (mai indicati), nè avevano riproposto in secondo grado l’istanza di prova testimoniale. Pertanto, in questa sede di legittimità, piuttosto che dedurre violazione di legge il ricorso sollecita una nuova istruttoria.
7.4. La Corte di Appello ha tenuto presente gli elementi in fatto che i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare per poter invocare la natura subordinata del rapporto e le conseguenze stabilite dalla giurisprudenza di questa Corte nell’esame del quadro normativo.
In tema di pubblico impiego privatizzato, qualora si accerti che la prestazione lavorativa resa in favore di un ente pubblico non economico, in forza di un contratto
formalmente qualificato di collaborazione autonoma ex art. 7 del d.lgs. n. 165 del 2001, ha di fatto assunto i caratteri della subordinazione, sulla base di indici sintomatici quali la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione datoriale e l’assenza dei presupposti di legittimità richiesti dallo stesso art. 7, sussiste a carico dell’ente l’obbligo di versamento della contribuzione previdenziale e assistenziale, che trova fondamento nell’art. 2126 c.c. (Cass. 05/02/2019, n. 3314 del 05/02/2019). Ed ancora: la sussistenza dell’elemento della subordinazione nell’ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità. Tale principio è applicabile anche in caso di attività svolta da una lavoratrice legata da vincolo di coniugio e di affinità ai titolari della società datrice di lavoro, laddove venga ravvisata l’irrilevanza del vincolo di familiarità rispetto alle concrete modalità della prestazione nel contesto aziendale (Cass. 10/07/2015, n. 14434).
7.5. Sulla base di una esatta ricostruzione della fattispecie, mancata in primo grado, la Corte di Appello ha verificato in fatto l’insussistenza della prova dei presupposti per la applicazione della invocata tutela.
7.6. I motivi, allora, di là della loro formale enunciazione, sono inammissibili perché non illustrano in alcun modo le ragioni per le quali sarebbero state violate le plurime disposizioni indicate in rubrica; nella deduzione del vizio di violazione di legge o di disposizioni di contratto collettivo è onere del
ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 17570/2020; Cass. n. 16700/2020); come già rilevato, i motivi, per come formulati, sollecitano un accertamento di fatto (inammissibile in sede di legittimità) sulla complessiva ricostruzione del rapporto tra i ricorrenti e la p.a.
Con il settimo motivo il ricorso deduce violazione ed errata interpretazione dell’ articolo 3 della Costituzione perché la sentenza impugnata -nel negare ai ricorrenti la tutela richiesta nonostante diciassette anni di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione -avrebbe violato l’art. 3 della costituzione e il principio di uguaglianza.
8.1. Il motivo è infondato atteso che non risulta dimostrato il presupposto di esso e cioè che i ricorrenti abbiano lavorato secondo un vincolo di subordinazione e pertanto non si può ravvisare la dedotta disuguaglianza senza presupporre una valutazione della prova contrastante con quella svolta dalla Corte di Appello.
C on l’ottavo motivo il ricorso deduce violazione e mancata applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, dell’art. 421 c .p.c. perché la Corte di Appello avrebbe errato nel non ritenere assolto l’onere della prova circa la subordinazione
nel rapporto di lavoro, dal momento che detta prova era esistente in via documentale agli atti.
9.1. Sotto questo profilo il motivo è inammissibile perché contrappone alla valutazione delle prove condotta dal giudice di merito una opposta valutazione condotta dal ricorrente ma si tratta di accertamento in fatto irriferibile alla Corte.
9.2. In senso contrario rispetto a quanto dedotto nel ricorso, va poi osservato che la decisione impugnata non ha omesso di valutare la documentazione in atti perché con essa si è confrontata (cedolini, buste paga) e ha concluso per l’assenza di univoca riconducibilità ad un rapporto di lavoro subordinato dei documenti in questione.
9.3. Con questo motivo si critica poi la sentenza perché avrebbe rilevato che i ricorrenti, all’esito della sentenza favorevole di primo grado non avevano reiterato specificamente le istanze di prova e non avevano comunque indicato i testi da escutere nemmeno in appello. Tale passaggio della motivazione della decisione impugnata va esente da censure in diritto: nel rito del lavoro, l’appellante che impugna in toto la sentenza di primo grado, insistendo per l’accoglimento delle domande, non ha l’onere di reiterare le istanze istruttorie pertinenti a dette domande, ritualmente proposte in primo grado, in quanto detta riproposizione è insita nella istanza di accoglimento delle domande, mentre la parte appellata, vittoriosa in primo grado, non riproponendo alcuna richiesta di riesame della sentenza, ad essa favorevole, deve manifestare in maniera univoca la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver
riproposto l’istanza di ammissione della prova (Cass. 03/05/2019, n. 11703).
Con il nono motivo il ricorso deduce travisamento ed errata valutazione della documentazione prodotta e mancata applicazione e violazione art. 183 c.p.c. e 213 c.p.c.
10.1. Il motivo, genericamente dedotto, non critica in modo specifico la sentenza ma si dilunga in una serie di doglianze circa lo sviluppo processuale (mutamento collegio, presenza fascicolo di parte in atti), senza dedurre alcun travisamento della prova.
10.2. Peraltro occorre sottolineare che: «il travisamento della prova, per essere censurabile in Cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., postula: a) che l’errore del giudice di merito cada non sulla valutazione della prova ( demonstrandum ), ma sulla ricognizione del contenuto oggettivo della medesima ( demonstratum ), con conseguente, assoluta impossibilità logica di ricavare, dagli elementi acquisiti al giudizio, i contenuti informativi che da essi il giudice di merito ha ritenuto di poter trarre; b) che tale contenuto abbia formato oggetto di discussione nel giudizio; c) che l’errore sia decisivo, in quanto la motivazione sarebbe stata necessariamente diversa se fosse stata correttamente fondata sui contenuti informativi che risultano oggettivamente dal materiale probatorio e che sono inequivocabilmente difformi da quelli erroneamente desunti dal giudice di merito; d) che il giudizio sulla diversità della decisione sia espresso non già in termini di possibilità, ma di assoluta certezza (Cass. 06/04/2023, n. 9507).
10.3. Si lamenta, ancora, la circostanza secondo la quale non potrebbe essere imputato ai ricorrenti di non aver insistito
nella prova testimoniale perché già considerata irrilevante dalla sentenza di primo grado. Tale affermazione è, però, errata in diritto per la giurisprudenza già richiamata in sede di delibazione del motivo precedente sub. 9.3.
10.4. Si critica, infine, la sentenza impugnata per avere rilevato l’assenza dei contratti e del fascicolo di parte nel fascicolo di ufficio al momento della decisione della causa mentre questi, almeno al momento del deposito del ricorso in appello e della costituzione degli appellati, erano in atti.
10.4.1. Il motivo è infondato perché la sentenza della Corte di Appello accerta che i contratti mancavano all’atto della decisione della causa; è anche accertato che -non ravvisandoli -la corte aveva dato un termine agli appellati per produrli o riprodurli e che questo termine era rimasto senza esito. Pertanto la decisione della Corte va esente da censure, perché: nell’ipotesi di perdita del fascicolo d’ufficio e dei fascicoli di parte in esso contenuti, la parte ha l’onere di richiedere al giudice il termine per ricostruire il proprio fascicolo e, disposte infruttuosamente le opportune ricerche tramite la cancelleria, può – entro il termine assegnato – depositare nuovamente atti e documenti, a condizione che dimostri di averli già ritualmente prodotti. (Nella specie, in applicazione dell’anzidetto principio, la SRAGIONE_SOCIALE. ha confermato la decisione della corte territoriale di accoglimento della domanda del lavoratore atteso che, all’esito della procedura di ricostruzione del fascicolo d’ufficio -andato perso perché mandato al macero nelle more del giudizio -, la parte convenuta aveva omesso di depositare copia della memoria che asseriva di aver già prodotto e con la quale aveva eccepito la prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro ex art. 2948 cod. civ.) (Cass. 08/02/2013, n. 3055).
10.4.2. E comunque, ove il fascicolo vi fosse stato e fosse stato trascurato dal Collegio, si sarebbe configurato un motivo di revocazione e non di ricorso per cassazione (Cass. 28/09/2016, n. 19174).
10.5. Si critica, in ultimo, la sentenza impugnata per non avere esercitato i poteri ai sensi dell’art. 213 c.p.c. chiedendo alla p.a. l’esibizione dei contratti e dei documenti di rilievo.
10.5.1. Il motivo è infondato anche sotto questo profilo e tanto perché tale potere del giudice di merito può essere sindacato quando si tratti di atti che non sono nella disponibilità della parte privata e che non rientrano nel suo onere probatorio: la facoltà, da parte del giudice, di richiedere informazioni alla pubblica amministrazione può essere esercitata qualora egli abbia conoscenza del possesso da parte di quest’ultima di documenti costituenti elemento decisivo ed essenziale ai fini del decidere, la cui produzione in giudizio non sia nella potestà della parte interessata, alla quale, quindi, non può addebitarsi il mancato assolvimento del relativo onere probatorio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimamente acquisiti dal giudice, ai sensi dell’art. 213 c.p.c., gli originali – detenuti dall’amministrazione – dei documenti necessari per la decisione della controversia, a fronte della produzione delle relative copie da parte dell’attore) (Cass. 24/05/2023, n. 14374). Ed ancora: l’ordine di esibizione, subordinato alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118, 119 c.p.c. e 94 disp. att. c.p.c., costituisce uno strumento istruttorio residuale, che può essere utilizzato soltanto in caso di impossibilità di acquisire la prova dei fatti con altri mezzi e non per supplire al mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico dell’istante e che è espressione di una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento
del giudice di merito, il cui mancato esercizio non può, quindi, formare oggetto di ricorso per cassazione, per violazione di norma di diritto (Cass. 03/11/2021, n. 31251).
In conclusione il ricorso deve essere integralmente respinto.
Nulla in ordine alle spese in difetto di costituzione del Ministero.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
nulla per le spese;
a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione