Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 8416 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 8416 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 28/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 3736-2019 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– ricorrenti –
contro
NOME COGNOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5180/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 15/11/2018;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato NOME COGNOME evocava in giudizio COGNOME NOME e COGNOME NOME innanzi il Tribunale di Benevento, invocandone la condanna al rilascio di una porzione di terreno occupata senza titolo, alla demolizione dei manufatti edificati sulla stessa ed al risarcimento del danno.
Nella resistenza dei convenuti, che eccepivano l’usucapione dell’area controversa ed invocavano comunque, in subordine, la condanna dell’attore al pagamento di una indennità per le migliorie apportate al bene, il Tribunale, con sentenza n. 1364/2011, accoglieva le domande principali.
Con la sentenza impugnata, n. 5180/2018, la Corte di Appello di Napoli rigettava il gravame interposto dagli odierni ricorrenti avverso la decisione di prima istanza, confermandola.
Propongono ricorso per la cassazione di tale pronuncia COGNOME NOME e COGNOME NOME, affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso COGNOME.
Con istanza del 2.4.2022 il ricorrente COGNOME NOME chiedeva la riunione del presente ricorso a quello, pendente tra le stesse parti, distinto dal numero 24300/2019.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va rigettata l’istanza di riunione, posto che i due ricorsi sono diretti avverse distinte sentenze, sia pure rese tra le stesse parti. Né la parte istante specifica per quali ragioni sussisterebbe l’allegata connessione tra le due impugnazioni.
Passando all’esame dei motivi di ricorso, occorre partire per priorità dall’esame del secondo motivo, con il quale viene posta una questione di carattere processuale. Con esso, il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 307, 291, 297, 170 e 274 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe rigettato l’eccezione con la quale gli odierni ricorrenti avevano invocato la dichiarazione di estinzione del giudizio, a fronte della sua riassunzione, ad opera di COGNOME, originario attore, mediante un atto indicante soltanto il nominativo di COGNOME NOME, e non anche di COGNOME NOME, notificato all’unico difensore dei due predetti soggetti in unica copia.
La censura è infondata.
Nel caso di specie ambedue i convenuti, odierni ricorrenti, erano assistiti nel giudizio di merito da un unico difensore anche domiciliatario (AVV_NOTAIO), al quale è stata pacificamente indirizzata la notificazione dell’atto di riassunzione della causa.
In relazione al contenuto di detto atto, nel motivo non viene indicato che il procuratore dei due odierni ricorrenti abbia mai sollevato alcuna contestazione nel corso del giudizio di merito, come evidenzia anche la parte controricorrente (cfr. pag. 16 del controricorso), con affermazione non contestata neppure mediante memoria (non depositat). Da ciò deriva che, pur ammettendo la configurabilità -in via di mera ipotesi- di un profilo di nullità dell’atto di riassunzione per omessa indicazione, in esso, anche del nominativo di COGNOME NOME, la stessa dovrebbe intendersi sanata per effetto della previsione generale di cui all’art. 156, terzo comma, c.p.c., in virtù del raggiungimento dello scopo dell’atto.
In relazione invece al profilo della notificazione dell’atto di riassunzione in unica copia, va ribadito il principio secondo cui ‘Quando
una stessa persona fisica rappresenta in giudizio più soggetti, ma tale rappresentanza ha carattere unitario ed inscindibile, la notificazione è correttamente eseguita mediante consegna di una sola copia dell’atto al procuratore della parte, non trovando applicazione il principio secondo cui la notifica deve avvenire con la dazione di tante copie quante sono le parti contro cui l’atto è diretto’ (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 15920 del 15/06/2018, Rv. 649096; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4518 del 19/05/1990, Rv. 467246; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4704 del 21/07/1981, Rv. 415430).
Passando all’esame del primo motivo, con esso il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto provati i fatti dedotti da parte attrice a sostegno della domanda di rilascio dell’area controversa, fondando la propria decisione sulla base di produzioni che non aveva a disposizione, perché materialmente non presenti nel fascicolo.
Il motivo è infondato.
Va premesso che la Corte distrettuale ha ritenuto, in particolare, che i motivi di gravame con i quali gli odierni ricorrenti si dolevano dell’accoglimento della domanda proposta in prime cure dal NOME COGNOME non contenevano alcuna motivata critica alla sentenza di primo grado, ma si risolvevano in un rinvio, per relationem , alle contestazioni che erano state mosse alla C.T.U. esperita nel corso del giudizio dinanzi il Tribunale (cfr. pag. 7 della sentenza impugnata). Su tali basi, la Corte di Appello ha ritenuto inammissibile il gravame, dando comunque atto dell’infondatezza della domanda riconvenzionale tesa al riconoscimento di una indennità per le migliorie apportate all’area controversa, posto che le strutture ivi realizzate dagli odierni ricorrenti
versavano in cattivo stato di manutenzione ed erano stati eretti in assenza dei richiesti titoli autorizzativi (cfr. pag. 8 della sentenza).
La parte ricorrente attinge la ricostruzione in fatto operata dal giudice di merito, dolendosi della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ma non considera, al riguardo, che ‘In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01). Mentre, con riferimento alla deduzione relativa alla violazione dell’art. 116 c.p.c., va ribadito che ‘In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa- secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti
in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021, Rv. 661360).
Né si configura, nel caso di specie, alcuna violazione dell’art. 2697 c.c., dovendosi ribadire, sul punto, che ‘La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poichè in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.’ (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17313 del 19/08/2020, Rv. 658541; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006, Rv. 592634; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2935 del 10/02/2006, Rv. 586772; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2155 del 14/02/2001, Rv. 543860).
Nel caso specifico, non vi è stata alcuna inversione dell’onere della prova, avendo semplicemente il giudice di merito optato per una ricostruzione del fatto e delle prove diversa da quella auspicata dalla odierna parte ricorrente. Ad essa, la censura in esame contrappone una lettura alternativa del compendio istruttorio, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24148 del 25/10/2013, Rv. 627790). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire
il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006, Rv. 589595; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014, Rv. 631448; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014, Rv. 631330).
Infine, non è sostenibile che la mancanza, in un diverso giudizio pendente innanzi la stessa Corte di Appello, delle produzioni di parte appellante al momento della decisione possa dimostrare che anche nel presente giudizio si sia verificato identico problema. La stessa parte ricorrente, infatti, propone la questione come mera ipotesi, a sostegno della quale, tuttavia, non allega alcun riscontro concreto.
Peraltro, sul punto, va anche ribadito che ‘In virtù del principio dispositivo delle prove, il mancato reperimento nel fascicolo di parte, al momento della decisione, di alcuni documenti ritualmente prodotti, deve presumersi espressione, in assenza della denuncia di altri eventi, di un atto volontario della parte stessa, che è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di alcuni dei documenti ivi contenuti; ne consegue che è onere della parte dedurre
quella incolpevole mancanza (ove ciò non risulti in maniera palese anche in assenza della parte e di una sua espressa segnalazione in tal senso) e che il giudice è tenuto ad ordinare la ricerca o disporre la ricostruzione della documentazione non rinvenuta solo ove risulti l’involontarietà della mancanza, dovendo, negli altri casi, decidere sulla base delle prove e dei documenti sottoposti al suo esame al momento della decisione.’ (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 10224 del 26/04/2017, Rv. 643996; conf. Cass. Sez. L, Sentenza n. 10819 del 29/10/1998, Rv. 520228). Anche la totale mancanza, al momento della decisione, del fascicolo di parte, perché ritirato e non depositato nei termini di cui all’art. 190 c.p.c. (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8553 del 04/08/1995, Rv. 493569 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15672 del 15/07/2011, Rv. 619232) ovvero perché la parte abbia riservato la produzione, poi non adempiendovi (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18287 del 25/06/2021, Rv. 661744) non esonera il giudice di appello dal dovere di giudicare allo stato degli atti disponibili al momento della decisione.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P .R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
PQM
la Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 4.200,00 di cui € 200,00
per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in ragione del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori tutti come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda