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Onere della prova incarico: chi lo deve dimostrare?

Una sentenza del Tribunale di Roma chiarisce che in un incarico professionale, l’onere della prova dell’adempimento spetta al professionista che richiede il compenso. Nel caso esaminato, un consulente ha perso la causa perché non è riuscito a dimostrare di aver svolto alcuna attività in un mandato congiunto con un avvocato, il quale aveva gestito l’intera pratica. Il Tribunale ha riformato la decisione di primo grado, rigettando la richiesta di pagamento del consulente.

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Pubblicato il 22 ottobre 2024 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Onere della prova incarico: chi dimostra il lavoro svolto?

Nell’ambito dei contratti professionali, una delle questioni più delicate riguarda il pagamento del compenso. Cosa succede se il cliente contesta il lavoro svolto? Una recente sentenza del Tribunale di Roma ha ribadito un principio fondamentale: l’onere della prova dell’incarico e del suo corretto adempimento grava interamente sul professionista che richiede il pagamento. Se non si riesce a dimostrare di aver eseguito l’attività pattuita, la richiesta di compenso può essere respinta.

I fatti di causa

Il caso nasce da un mandato conferito da alcuni clienti a una coppia di professionisti: un avvocato e un consulente. L’obiettivo era gestire e definire in via transattiva alcune pendenze debitorie con istituti bancari. A seguito della conclusione positiva di una trattativa, il consulente emetteva un decreto ingiuntivo per ottenere il pagamento del suo compenso.

I clienti si opponevano, sostenendo che il consulente non avesse svolto alcuna attività, attribuendo tutto il merito del lavoro all’avvocato. Il Giudice di Pace, in primo grado, aveva dato parzialmente ragione al consulente. I clienti, insoddisfatti, hanno proposto appello.

L’onere della prova dell’incarico secondo il Tribunale

Il Tribunale di Roma, in sede di appello, ha completamente ribaltato la decisione iniziale. I giudici hanno chiarito che, a fronte della specifica contestazione dei clienti (la cosiddetta eccezione di inadempimento), spettava al consulente dimostrare, con prove concrete, di aver adempiuto alla propria obbligazione.

Il principio è chiaro: chi chiede un pagamento deve provare il titolo su cui si basa la sua pretesa. Nel caso di un professionista, questo significa non solo provare l’esistenza del contratto, ma anche e soprattutto di aver eseguito le prestazioni concordate.

La valutazione delle prove

L’analisi delle prove raccolte durante il processo è stata decisiva. Sia la documentazione (come le lettere degli istituti di credito) sia le testimonianze hanno confermato la tesi dei clienti. Tutti i rapporti, le trattative e le comunicazioni erano intercorsi esclusivamente con l’avvocato. Il nome del consulente non appariva in alcun documento rilevante, né i testimoni, inclusi quelli della controparte, hanno potuto confermare un suo coinvolgimento attivo.

La semplice comunicazione finale dell’accettazione del piano di rientro da parte della banca, peraltro indirizzata unicamente all’avvocato, non è stata ritenuta una prova sufficiente del lavoro svolto dal consulente.

Le motivazioni

La motivazione della Corte si fonda su un pilastro del diritto civile: l’articolo 1218 del codice civile sull’inadempimento delle obbligazioni e il correlato principio sull’onere della prova. Il Tribunale ha stabilito che non basta affermare di aver lavorato; è necessario provarlo. In un mandato che prevede attività di consulenza e assistenza, il professionista deve essere in grado di documentare i passi compiuti, le trattative intraprese e il proprio contributo specifico al raggiungimento del risultato. L’assenza totale di prove che colleghino l’attività del consulente all’esito positivo della pratica ha reso la sua richiesta di compenso infondata. Anche in un incarico congiunto, ogni professionista deve poter dimostrare la propria parte di lavoro per poter legittimamente pretendere il relativo compenso.

Le conclusioni

Questa sentenza offre un’importante lezione pratica per professionisti e clienti. Per i professionisti, sottolinea la necessità di mantenere una documentazione accurata e dettagliata del proprio operato, specialmente quando si lavora in team. Email, verbali di riunione e report sono essenziali per tutelarsi in caso di contestazioni. Per i clienti, conferma il diritto di contestare una richiesta di pagamento se si ritiene che la prestazione non sia stata eseguita e che, in tal caso, sarà il professionista a dover dimostrare il contrario. In definitiva, il compenso non è dovuto per il solo conferimento di un incarico, ma per l’effettivo e provato svolgimento dello stesso.

In un incarico professionale, chi deve dimostrare di aver eseguito la prestazione per ottenere il compenso?
Secondo la sentenza, l’onere della prova spetta interamente al professionista che richiede il pagamento. È lui che deve dimostrare di aver adempiuto agli obblighi derivanti dal mandato.

Cosa succede se un professionista non riesce a provare di aver svolto l’attività per cui chiede un compenso?
Se il professionista non fornisce prove sufficienti del proprio operato a fronte di una contestazione del cliente, la sua domanda di pagamento viene rigettata, come accaduto nel caso di specie.

In un incarico congiunto, il raggiungimento del risultato è sufficiente per dare diritto al compenso a tutti i professionisti coinvolti?
No. La sentenza chiarisce che ogni professionista deve dimostrare il proprio specifico contributo. Il solo fatto che il risultato sia stato raggiunto, principalmente per opera di un altro, non dà automaticamente diritto al compenso a chi non ha provato di aver partecipato attivamente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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