Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 13095 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 13095 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2024
Oggetto
Locazione uso diverso – Canone – Ammontare – Onere della prova
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27622/2021 R.G. proposto da COGNOME NOME e COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: EMAIL);
-ricorrenti –
contro
NOME e COGNOME NOME, rappresentate e difese dall’AVV_NOTAIO (p.e.c.: EMAIL);
-controricorrenti – e nei confronti di
NOME;
-intimata –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia, n. 1511/2021, depositata il 20 luglio 2021. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 marzo 2024 dal
Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
la società RAGIONE_SOCIALE (cui sono poi succeduti, dopo la cancellazione, gli ex soci odierni ricorrenti) chiedeva e otteneva, nel 2018, dal Tribunale di Vicenza, l’emissione di decreto ingiuntivo nei confronti di NOME COGNOME per il pagamento della somma di Euro 29.584,50, pretesa a titolo di canoni non pagati dal 2009 al 2013 con riferimento ad una locazione commerciale iniziata nel 1989;
vi si opponeva il COGNOME, eccependo, tra l’altro, e per quanto ancora interessa, l’insussistenza del presunto credito;
sopravvenuto il decesso dell’opponente, si costituirono in giudizio le eredi, NOME COGNOME e NOME COGNOME, e, chiamata in causa dalle stesse, anche l’altra erede, NOME COGNOME;
con sentenza n. 1941 del 2019 il Tribunale rigettò l’opposizione, condannando queste ultime alle spese;
in accoglimento del gravame interposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME e in totale riforma della decisione di primo grado la Corte d’appello di Venezia, con sentenza n. 1511/2021 resa pubblica il 20 luglio 2021, ha revocato il decreto ingiuntivo, dichiarando che nulla è dovuto dagli eredi di COGNOME NOME per canoni e condannando gli appellati, NOME e NOME COGNOME, alla rifusione in favore delle appellanti delle spese di entrambi i gradi di giudizio;
ha infatti rilevato che, nel contratto di locazione, il canone risulta quantificato solo al momento dell’inizio del rapporto e che non vi è alcun documento prodotto dal creditore che ne giustifichi la quantificazione nella misura maggiore richiesta, pur considerando l’evoluzione temporale del rapporto; né vi è -ha soggiunto- un aggancio specifico ad eventuali clausole contrattuali о alla legge sull’equo canone che disciplina il rapporto; il credito vantato, infatti, risulta portato esclusivamente da fatture, documenti fiscali che costituiscono, di per sé, atti di parte privi di valenza probatoria diretta;
ha inoltre osservato come l’andamento del canone preteso fosse « ondivago » e non agganciato ad alcun documento che lo giustificasse ed ha escluso che la mancata contestazione immediata delle fatture potesse di per sé considerarsi indicativa dell’accettazione degli importi, che erano stati specificamente contestati, per contro, in giudizio, nel momento in cui erano stati pretesi;
avverso tale sentenza NOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione affidato ad unico motivo, cui resistono NOME COGNOME e NOME COGNOME depositando controricorso;
l’altra intimata è rimasta tale;
è stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti;
non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero;
i ricorrenti hanno depositato memoria;
considerato che:
la notifica del ricorso nei confronti dell’intimata NOME COGNOME, litisconsorte necessaria rimasta contumace nel giudizio di appello, risulta avvenuta a mezzo p.e.c. indirizzata al difensore costituito nel giudizio di primo grado (AVV_NOTAIO);
poiché, però, non risulta provato ─ e nemmeno dedotto ─ che nella specie la procura o anche solo l’eventuale elezione di domicilio siano stati conferiti anche per il successivo grado di giudizio, la notifica medesima deve considerarsi nulla, anche se non inesistente;
il collegamento del domiciliatario alla parte evocata in causa almeno nel primo grado comporta infatti la nullità e non la inesistenza della notificazione del ricorso (v. ex multis Cass. Sez. U. n. 14916 del 20/07/2016; Cass. Sez. U, Ordinanza interlocutoria n. 10817 del 29/04/2008; Cass. n. 11485 del 11/05/2018; n. 16952 del 25/07/2006; n. 7818 del 04/04/2006);
l’esito reiettivo in rito del ricorso, che si va appresso a evidenziare, rende tuttavia ultroneo ed inutilmente dilatorio l’altrimenti necessario ordine di rinnovazione della notifica;
il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone, infatti, al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a produrre i suoi effetti; ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superfluo, pur potendone sussistere i presupposti, disporre la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (v. Cass. Sez. U. 22/03/2010, n. 6826; Cass. 21/05/2018, n. 12515; 10/05/2018, n. 11287; 17/06/2013, n. 15106);
con l’unico motivo il ricorrente denuncia « violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1362, 2723, 2724, 2727 e 2729 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c.); omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c.); illogicità della motivazione in ordine alla mancata considerazione della condotta extraprocessuale di parte opponente in primo grado »;
premessa una sintesi della motivazione della sentenza impugnata e di quella di prima grado, l’illustrazione del motivo è affidata essenzialmente alle seguenti considerazioni:
─ l’opponente in primo grado non solo non ha disconosciuto il contratto, ma, ricevute le diffide di pagamento non ha altresì contestato sia l’importo del debito complessivo ivi esposto, che l’importo delle singole mensilità portate dalle fatture via via emesse, limitandosi a richiedere solo la copia di una singola fattura, a proprio dire non ricevuta;
─ tale richiesta dimostra incontrovertibilmente come il debitore fosse concorde con il locatore sugli importi dovuti a titolo di canoni di locazione;
─ omettendo di considerare la rilevanza di tale condotta extraprocessuale la Corte ha violato anche il disposto degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.;
─ l’opponente e i suoi eredi non hanno fornito prova alcuna di aver estinto le proprie obbligazioni;
─ le fatture azionate, alcune delle quali volontariamente e spontaneamente saldate all’atto del loro ricevimento, senza che fosse stata sollevata alcuna eccezione in relazione alla correttezza dell’importo ivi esposto, in uno con la considerazione della condotta appena citata del debitore stesso, avrebbero dovuto portare il giudice d’appello a ritenere provato, se non documentalmente quanto meno in via presuntiva (con giudizio ammissibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 2723 e 2729 c.c.), che l’importo dei canoni di locazione convenuto dalle parti nel corso dello svolgimento del rapporto fosse proprio quello portato dai documenti;
─ le eredi del sig. COGNOME (così come il loro dante causa), pur affermando di essere a loro volta creditrici di somme nei confronti dell’opposta prima e dei suoi successori poi, hanno preferito omettere di avanzare in via riconvenzionale la relativa richiesta di pagamento, con ciò palesando l’assoluta infondatezza dei propri assunti;
─ erroneamente la Corte d’appello ha considerato non specificamente contestati i conteggi esposti da controparte nel proprio atto;
─ contraddittoriamente la Corte d’appello ha dapprima rigettato l’ istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di prima grado, ritenendo mancare i presupposti del fumus boni juris e del periculum in mora , poi invece accolto il gravame, sebbene non fosse stata proposta alcuna integrazione dei motivi d’appello;
il ricorso si espone ad un preliminare e assorbente rilievo di improcedibilità;
a norma dell’art. 196 -octies disp. att. c.p.c. (inserito dall’art. 4, comma 12, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149) -ma v. già, di analogo tenore, l’art. 16bis , comma 9bis , d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17
dicembre 2012, n. 221 ─ « le copie analogiche e informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico … hanno la stessa efficacia probatoria dell’atto che riproducono » se « munite dell’attestazione di conformità »;
nella specie i ricorrenti hanno depositato copia informatica della sentenza impugnata ma non anche la necessaria attestazione di conformità;
deve pertanto ritenersi non assolto l’onere, imposto al ricorrente a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, num. 2, c.p.c., di depositare copia autentica della sentenza impugnata;
può comunque incidentalmente rilevarsi, ad abundantiam , che, ove non fosse stato improcedibile, il ricorso avrebbe dovuto comunque considerarsi inammissibile;
infatti, in disparte la sovrapposizione, all’interno di un unitario discorso argomentativo, di censure eterogenee e incompatibili (tali, da un lato, quella di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e, dall’altro, quella di error in iudicando ) e la prospettazione di un vizio non più deducibile (tale quello di illogicità della motivazione), tutti i proposti argomenti di critica sono comunque inammissibili;
lo sviluppo delle censure è, anzitutto, in molti passaggi inosservante dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati (diffide di pagamento di cui a pag. 12 del ricorso; riepilogo delle somme dovute, contratto e fatture menzionati alle pagine 15 e 16; comparse di costituzione in primo grado e in appello, evocate a pag. 18), in violazione dell’onere imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.;
non è in alcun modo illustrata la dedotta violazione dell’art. 1362 cod. civ., così come quella degli artt. 2723 e 2724 cod. civ.;
eccentrica e mal posta è, poi , l’indicazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ. quale parametro normativo cui riferire il controllo di legittimità;
la Corte d’appello non ha affatto posto a base della propria sentenza l’esistenza di prove presuntive, ma ha al contrario motivatamente
evidenziato l’insufficienza delle prove documentali prodotte dagli odierni ricorrenti a dimostrare la sussistenza del credito;
si tratta, dunque, di una valutazione di inefficacia dimostrativa degli elementi di prova offerta, che è tipica attività di merito sindacabile solo per omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.;
la critica proposta, invero, si risolve nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica che, secondo i ricorrenti, avrebbe potuto e dovuto trarsi da quegli elementi (invio fatture e mancata contestazione), ma in tal modo si è lontani dal piano della prospettata violazione di legge, ravvisabile soltanto quando è il giudice a postulare tale inferenza mentre il ricorrente lamenti che, fermi i fatti considerati e la regola inferenziale presupposta dal giudice, non siano rispettati i caratteri della gravità, concordanza e precisione dei fatti considerati (v. Cass. Sez. U. 24/01/2018, n. 1785, in motivazione non massimata, ma diffusa, paragrafi 4 e ss.);
nel caso di specie, al contrario, il giudice ha negato l’esistenza di alcuna inferenza probabilistica che dai fatti noti potesse far risalire a quello ignoto dell’esistenza di un accordo di maggiorazione del canone originariamente previsto;
nel dedurne al contrario l’esistenza il ricorrente non ha fatto altro che proporre e inammissibilmente sollecitare una diversa valutazione delle prove (v. Cass. 06/07/2018, n. 17720, Rv. 649663);
è comunque manifestamente priva di fondamento la tesi secondo cui, dalla mancata contestazione stragiudiziale delle fatture inviate relativamente ai canoni, dovrebbe desumersi la loro tacita accettazione e la preclusione ad una loro contestazione in sede giudiziale, non potendosi certamente ritenere il silenzio o l’inerzia serbata anteriormente al processo, o anche il pagamento integrale in alcuni casi degli importi pretesi, comportamento univocamente significativo in tal senso;
la censura di omesso esame non rispetta il relativo paradigma censorio, quale ricavabile dall’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., secondo l’interpretazione pacificamente accolta nella giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 -8054);
non è infatti illustrata, né è ravvisabile, la decisività della circostanza asseritamente obliterata; mette conto comunque anche rilevare che il fatto che il conduttore abbia ricevuto le fatture senza mai contestarle è espressamente considerato in sentenza e ritenuto ─ come detto, del tutto correttamente ─ non significativo di una tacita accettazione degli importi;
quanto alla pure censurata affermazione secondo cui non erano stati contestati i conteggi esposti da controparte è sufficiente rilevare che sono gli stessi ricorrenti a evidenziare che tale affermazione non ha avuto rilievo fondante della decisione; è appena il caso di soggiungere che, in base agli ordinari criteri di riparto dell’onere della prova, spettava ai locatori dare la prova della sussistenza del credito, essendo dunque del tutto irrilevante che il contrapposto conteggio del conduttore fosse stato da essi a loro volta contestato;
il rilievo della mancata prova del pagamento dei canoni si appalesa eccentrico rispetto al tema del giudizio che attiene alla debenza (contestata dagli appellanti ed esclusa dalla Cor te d’appello) dei maggiori importi pretesi rispetto al canone originariamente pattuito, non risultando sia mai stato dedotto a fondamento della domanda anche il mancato pagamento dei canoni nel minor importo originariamente pattuito;
la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è dedotta del tutto al di fuori dei criteri indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, inaugurati da Cass. n. 11892 del 2016, ribaditi, in motivazione non massimata, ma espressa, da Cass. Sez. U. n. 16598 del 2016 e, quindi, ex multis , da Cass. Sez. U. n. 20867 del 2020, sollecitandosi, invece, una rivalutazione della quaestio facti ;
del tutto irrilevante è poi che la sentenza d’appello sia stata preceduta da ordinanza di rigetto dell’istanza di inibitoria ex art. 283 cod. proc. civ., non avendo tale ordinanza alcun contenuto né effetto decisorio, ma soltanto meramente cautelare, e non potendo in nessun modo condizionare, proprio per tale funzione e considerata la natura della valutazione cautelare, nemmeno sul piano della motivazione, la valutazione che il giudice d’appello è chiamato a compiere al momento della decisione ed all’esito della cognizione piena;
la memoria che, come detto, è stata depositata dai ricorrenti, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , comma primo, cod. proc. civ., non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi;
in conclusione, il ricorso deve essere dichiarato improcedibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;
va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13;
P.Q.M.
dichiara improcedibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.100 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 52,70 come da nota spese ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P .R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile