Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 20503 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 20503 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23477/2021 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME domiciliata ex lege all’indirizzo Pec in atti.
–
ricorrente –
contro
COGNOME
NOME
NOME
NOME
COGNOME
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intimati –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI n. 382/2020 depositata il 07/07/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere dr.ssa NOME COGNOME
Rilevato che
NOME COGNOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio avanti al Tribunale di Cagliari la RAGIONE_SOCIALE NOME e RAGIONE_SOCIALE, con cui avevano concluso un preliminare di compravendita di un immobile sito in località Capoterra.
Lamentavano che l’impresa aveva omesso di prestare fideiussione ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 122 del 2005 e che inoltre l’immobile era privo delle caratteristiche promesse ed affetto da vizi; chiedevano pertanto la dichiarazione della legittimità del recesso dal contratto o, in via subordinata, la dichiarazione della nullità del contratto, in ogni caso con condanna alla restituzione della caparra.
Si costituiva l’impresa promittente venditrice, resistendo ed altresì chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna degli attori al risarcimento dei danni subiti per l’occupazione dell’immobile dalla data del 18 Aprile 2007 fino a quella dell’effettivo rilascio, occupazione illegittima in conseguenza della nullità dell’atto concluso tra le parti.
Con sentenza n. 2000 del 24 giugno 2016 il Tribunale di Cagliari dichiarava la nullità del contratto preliminare, per non avere l’impresa promittente venditrice prestato la fideiussione prevista dalla legge, e per l’effetto la condannava alla restituzione della caparra, mentre rigettava la domanda di risarcimento del danno proposta sia dagli attori sia, in riconvenzionale, dall’impresa.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE NOME e COGNOME RAGIONE_SOCIALE proponeva appello; si costituivano, resistendo al gravame, NOME COGNOME e NOME COGNOME
Con sentenza n. 382 del 7 luglio 2020 la Corte d’Appello di Cagliari rigettava l’appello, integralmente confermando l’impugnata sentenza.
Avverso tale sentenza l’impresa propone ora ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Restano intimati i resistenti.
Il Consigliere delegato formulava proposta di decisione accelerata, avente il seguente tenore:
<>.
Il difensore della società ricorrente depositava istanza motivata di decisione del ricorso, che pertanto veniva avviato all’udienza camerale.
Il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni.
La società ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
Con il primo motivo la società ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione ex art 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. delle norme di cui agli artt. 1216 e 1590 cod. civ. in tema di consegna di immobile e di offerta creditore di prenderne possesso e della norma di cui all’art. 2697 cod. civ. in tema di ripartizione dell’onere della prova’.
Censura l’impugnata sentenza là dove afferma (v. p. 9) che ‘non è dato comprendere se l’immobile sia stato realmente abitato dai convenuti e nel caso per quanti mesi o anni e se lo stesso sia ancora occupato’.
Deduce che non spettava certamente alla società promittente venditrice l’onere di dimostrare di aver ricevuto la perfetta e piena disponibilità dell’immobile una volta risolto il preliminare per l’avvenuto recesso dallo stesso da parte dei signori COGNOME; sarebbe invece stato preciso
onere degli odierni resistenti provare il fatto di aver riconsegnato l’appartamento occupato e di aver formalmente intimato alla società e di scavi di prendere nuovamente possesso a termini dell’art 1216 cod. civ.
Pertanto, l’impugnata sentenza avrebbe violato la regola di ripartizione dell’onere probatorio, che nel caso di specie incombeva sui coniugi COGNOME
1.1. Il motivo è inammissibile.
Lo è, in primo luogo, per le ragioni evidenziate nella proposta di definizione accelerata, e cioè che ‘in disparte il rilievo che esso fa riferimento ad una norma (l’art. 1590 cod. civ.) e a principi enunciati con riferimento alla locazione, non coglie la ‘ratio decidendi’ della sentenza impugnata (donde la sua inammissibilità: Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01; in senso conforme Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01; Cass. Sez. 2, ord. 9 aprile 2024, n. 9450, Rv. 670733-01), visto che la sentenza mostra di dubitare che ‘l’immobile sia stato realmente abitato dai convenuti’ e, dunque, che essi siano stati immessi nella disponibilità dell’immobile, conclusione che la ricorrente si propone, per vero, di confutare attraverso una rilettura delle risultanze istruttorie, così proponendo un tipo di censura che esula da quella di violazione dell’art. 2697 cod. civ., ‘configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni’ (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 65884001), restando, invece, inteso che ‘laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia
svolto delle prove proposte dalle parti’, essa ‘può essere fatta valere ai sensi del numero 5 del medesimo art. 360’ (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15107, Rv. 62690701), ovviamente ‘entro i limiti ristretti del «nuovo»’ suo testo (Cass. Sez. 3, ord. n. 13395 del 2018, cit.), qui neppure evocati’.
Le considerazioni svolte dalla società ricorrente prima nell’istanza di decisione e poi nella memoria illustrativa, ignorano completamente le ampie citazioni di giurisprudenza svolte nella proposta di definizione accelerata e finiscono per proporre una propria oppositiva versione dei fatti di causa, peraltro in maniera del tutto assertiva e generica.
In secondo luogo l’inammissibilità sussiste, perché nel motivo la società ricorrente trascura di considerare che l’impugnata sentenza ha confermato il rigetto della domanda di risarcimento del danno per occupazione illegittima, sul rilievo del difetto di prova, financo presuntiva, del quantum risarcitorio, sia riportando e facendo propria la motivazione con cui il tribunale ha rilevato che ‘è comunque evidente come spetti alla parte che intende ottenere il risarcimento offrire elementi sufficienti a dimostrare, anche mediante un meccanismo presuntivo, che il bene era commerciale e idoneo a produrre reddito, oltre che quantomeno allegare un valore locativo medio degli immobili della zona medesima al quale poter commisurare il danno gran disponibilità. in mancanza di tali specificazioni risultano del tutto insussistenti anche i minimi elementi di fatto sui quali basare le presunzioni semplici necessarie alla liquidazione del danno … nel caso di specie la convenuta non ha indicato alcun elemento caratterizzato da una potenziale efficacia probatoria cosicché il danno per l’occupazione dell’immobile non può essere liquidato neanche sulla base di prove
presuntive …’ (v. p. 7); sia specificatamente rilevando che pochi mesi dopo dalla immissione in possesso, quando già erano sorte contestazioni sullo stato dell’immobile, ‘il Comune di Capoterra a seguito di eventi atmosferici, con ordinanza del 31.10.2008 numero 66/2008, dichiarava la totale inagibilità del fabbricato inibendone l’utilizzo’ (p. 8 dell’impugnata sentenza).
Orbene, tali rationes decidendi -in forza delle quali la corte territoriale ha affermato che non è dato comprendere se all’immobile possa attribuirsi un valore commerciale e che non è dunque possibile, neppure per presunzioni, liquidare un danno da occupazione illegittima, non sono state specificatamente impugnate e su di esse la motivazione dell’impugnata sentenza si consolida.
Come questa Suprema Corte ha già più volte avuto modo di affermare, quando la sentenza di merito impugnata si fonda, come nel caso in esame, su più rationes decidendi autonome, nel senso che ognuna di esse è sufficiente, da sola, a sorreggerla, perché possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile che il soccombente le censuri tutte, dato che l’omessa impugnazione di una di essere rende definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, e le restanti censure non potrebbero produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (v. Cass., Sez. Un., n. 7074 del 2017, in motivazione; Cass., 28/06/2023, n. 18403; Cass., 27/07/2017, n. 18641).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ‘Violazione falsa applicazione della norma di cui all’art. 2033 c.c. ex art 360 comma 1 n. 3 c.p.c. circa il mancato riconoscimento della sussistenza dell’indebito legato alla dichiarazione di nullità del contratto preliminare e violazione e falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 115 e 116
c.p.c. nonché 1223, 1226, 2056 e 2727 c.c. in tema di prova sul riconoscimento del danno da illegittima occupazione causato dai resistenti’.
Lamenta che la Corte di territoriale non ha applicato il principio consacrato nella disposizione di cui all’art. 2033 cod. civ., in tema di indebito oggettivo, sul presupposto, errato, che l’odierna ricorrente non avrebbe dimostrato di aver subito un danno dall’occupazione illegittima del proprio immobile ad opera dei resistenti.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La proposta di definizione accelerata, rispetto alla quale le difese svolte dalla ricorrente nella istanza di decisione e nella memoria illustrativa, non apportano alcun elemento di novità, ha molto analiticamente rilevato che il motivo in scrutinio ‘investendo l’affermazione secondo cui l’odierna ricorrente non avrebbe neppure offerto ‘elementi sufficienti a dimostrare, anche mediante un meccanismo presuntivo, che il bene era commerciale e idoneo a produrre reddito’ -si appunta avverso una ‘ratio decidendi’ aggiuntiva ed autonoma rispetto a quella sopra illustrata (che ha escluso, come detto, esservi prova che i promissari acquirenti abbiano mai occupato l’immobile oggetto del preliminare), donde la necessità di dare seguito al principio secondo cui, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza, o inammissibilità, delle censure mosse ad una delle ‘rationes decidendi’ rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione
della decisione stessa (Cass. Sez. 5, ord. 11 maggio 2018, n. 11493, Rv. 648023-01; in senso analogo già Cass. Sez. Un., sent. 29 marzo 2013, n. 7931, Rv. 625631-01; Cass. Sez. 3, sent. 14 febbraio 2012, n. 2108, Rv. 621882-01); che, d’altra parte, l’affermazione della sentenza impugnata relativa alla sussistenza di un ‘deficit probatorio’, anche quanto alla dimostrazione del danno da illegittima occupazione (oltre che, ‘in limine’ dell’esistenza dell’occupazione stessa) è oggetto di una censura che si esplica attraverso una ‘rilettura’ del materiale istruttorio, evidentemente preclusa nella presente sede di legittimità, come è reso evidente dal terzo motivo di ricorso che contesta ‘la valutazione delle prove documentali offerte dalle parti’, evocando inammissibilmente, come si dirà di seguito -ora gli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., ora l’art. 2727; che, difatti, la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. -norma che sancisce il principio secondo cui il giudice decide ‘iuxta alligata et probata partium’ – può essere dedotta come vizio di legittimità ‘solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli’ (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01); -che parimenti inammissibile è pure la censura di violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, essendo la stessa ravvisabile solo quando ‘il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime’ (Cass. Sez. 3,
sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640193-01, nello stesso, più di recente, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618, non massimata sul punto, nonché Cass. Sez. 6-3, ord. 31 agosto 2020, n. 18092, Rv. 65884002), mentre ‘ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. Un., sent. 30 settembre 2020, n. 20867, Rv. 659037-02); – che, infine, inammissibile è pure la censura di violazione dell’art. 2727 cod. civ., giacché, se questa Corte ha affermato che il rifiuto di compiere un ragionamento presuntivo è ‘deducibile senza dubbio come vizio di falsa applicazione delle norme degli artt. 2727 e 2729 cod. civ.’, ciò richiede che ‘nella motivazione della sentenza di merito’ si colga e, quindi si denunci, ‘un’argomentazione motivazionale espressa con cui il giudice violando alcuno dei paradigmi dell’art. 2729 cod. civ. si rifiuta erroneamente di sussumere la vicenda fattuale (assunta proprio come egli l’ha individuata) sotto la norma stessa e, quindi, di applicare una presunzione che doveva applicare’, e ciò perché il ‘rifiuto espresso e motivato di individuare una presunzione «hominis»’ deve essere trattato ‘allo stesso modo dell’applicazione di una presunzione senza rispetto dei paradigmi normativi indicati dall’art. 2729 cod. civ.’, visto che in ‘entrambi i casi la denuncia in Cassazione è possibile secondo il verso della c.d. falsa applicazione della norma dell’art. 2729 cod. civ.’ (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 6 luglio 2018, n. 17720, Rv. 649663-01); – che nella specie, per contro, il ricorso non fa cenno ad alcun ‘rifiuto espresso e’ (soprattutto)
‘motivato’, presente nella sentenza impugnata, di ‘individuare un ragionamento presuntivo’, donde l’inammissibilità pure della censura di violazione dell’art. 2727 cod. civ.’.
La motivazione della proposta di definizione è dal Collegio pienamente condivisa.
2.2. Il motivo, inoltre, lo si aggiunge ad abundantiam , svolge censure in relazione alla prospettazione dell’indebito oggettivo, di cui l’impugnata sentenza non fa alcuna menzione; né la ricorrente specifica, localizza o trascrive, perlomeno indirettamente, se, dove e quando avesse, nel precedente contesto processuale, anche formulato, oltre alla domanda di risarcimento del danno da occupazione legittima, domande fondate sulla violazione dell’art. 2033 cod. civ.
Con il motivo in scrutinio, dunque, la ricorrente parrebbe allora anche dedurre una questione nuova, per la prima volta, in sede di giudizio di legittimità; al riguardo, costante orientamento afferma che ‘In tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio’ (v., tra le tante, Cass ., 01/07/2024, n. 18018).
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia ‘Violazione
e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. nonché dell’art. 2727 cod. civ. circa la valutazione delle prove documentali offerte dalle parti in causa con riferimento all’accertato disconoscimento della commerciabilità dell’immobile occupato dai resistenti a motivo della dichiarata esistenza di un vincolo di sequestro e/o rata di pignoramento a favore di Equitalia e di un privato’.
Lamenta che la corte territoriale avrebbe errato nel negare la commerciabilità dell’immobile, in relazione all’iscrizione di un vincolo di sequestro con successivo pignoramento a favore prima di Equitalia e poi di un privato, dal momento che l’immobile avrebbe comunque, se non fosse stato occupato dai resistenti, essere locato a terze persone, favorendo così l’abbattimento del debito nei confronti di Equitalia, ed a tal proposito evoca gli artt. 2912 e 820 cod. civ. secondo cui ‘i frutti e i fitti della cosa pignorata (compreso il corrispettivo di un’eventuale locazione) spettano al creditore pignorante’ (p. 18 del ricorso).
3.1. Il motivo è inammissibile.
Ferma la piena condivisibilità di quanto argomentato dalla proposta di definizione, si rileva che viene censurato un passaggio motivazionale che la corte territoriale ha svolto meramente ad abundantiam (come si evince dal fatto che inizia con ‘peraltro’: v. p. 9 dell’impugnata sentenza), mentre, nuovamente, omette di censurare le rationes decidendi illustrate in sede di scrutinio del primo motivo e sulle quali la motivazione dell’impugnata sentenza si consolida.
In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Non è luogo a provvedere in ordine alle spese del giudizio di legittimità, dato che i resistenti sono rimasti intimati e non hanno svolto attività difensiva.
Considerato che la trattazione del procedimento è stata chiesta ai sensi dell’art. 380 -bis , ultimo comma, cod. proc. civ. a seguito di proposta di definizione accelerata nel senso della inammissibilità del ricorso, la Corte, avendo definito il giudizio in conformità della proposta, deve applicare il quarto comma dell’articolo 96, come testualmente previsto dal citato art. 380bis cod. proc. civ. (Cass., Sez. Un., 27/09/2023, n. 27433).
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la società ricorrente al pagamento della somma di euro 5.000,00 alla Cassa delle Ammende, ai sensi dell’art. 96, comma quarto, cod. proc. civ.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza