Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32133 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32133 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18620/2021 R.G. proposto da :
COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME con domicilio digitale presso il proprio indirizzo di posta elettronica certificata;
-ricorrente-
contro
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa da ll’avv . NOME COGNOME con domicilio digitale presso il proprio indirizzo di posta elettronica certificata;
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Bari n. 501/2021, pubblicata il 17 marzo 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 ottobre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
lette le memorie depositate da entrambe le parti.
FATTI DI CAUSA
-Con atto di citazione notificato il 7 giugno 2004, NOME COGNOME conveniva in giudizio NOME COGNOME, coniuge separato, affinché venisse condannato alla restituzione delle somme, di pertinenza esclusiva di essa attrice, di lire 80.000.000, provenienti da titoli il cui controvalore era confluito nel conto corrente cointestato con il COGNOME, nonché di lire 280.000.000, quale ricavato della vendita di un immobile sempre di proprietà esclusiva di essa attrice, oltre a gioielli di sua proprietà pure trattenuti dal COGNOME.
Si costituiva il convenuto chiedendo il rigetto delle domande attoree e spiegava domanda riconvenzionale per ottenere la restituzione di beni ed effetti personali.
Con la sentenza n. 2012/2017, pubblicata il 13 aprile 2017, il Tribunale di Bari condannava NOME COGNOME alla restituzione della somma di euro 185.924,48 in favore della ricorrente, oltre interessi legali come per legge, nonché al pagamento delle spese del giudizio.
-Avverso detta sentenza il COGNOME proponeva appello.
Si costituiva la COGNOME chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte di appello di Bari, con sentenza n. 501/2021, pubblicata il 17 marzo 2021, rigettava l’impugnazione, condannando l’appellante alla rifusione delle spese di lite.
-Il COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo.
La COGNOME ha resistito con controricorso.
-A seguito della proposta di definizione ex art. 380 bis cod. proc. civ. del Consigliere delegato, il ricorrente ha chiesto la decisione.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con l’unico motivo di ricorso, parte ricorrente prospetta, cumulativamente, la violazione e falsa applicazione degli artt. 167 cod. proc. civ., 143 e 2034 cod. civ. e l’ illogicità della sentenza.
In particolare, il ricorrente si duole della pronuncia nella parte in cui ha ritenuto che riguardo alla domanda riconvenzionale nessun onere di contestazione sia insorto a carico della COGNOME, stante la genericità della deduzione da parte dell’attore e il permanere degli oneri probatori gravanti sulla parte attrice. Per contro, egli evidenzia che una generica contestazione non era sufficiente a contrastare la domanda riconvenzionale, atteso che il disconoscimento, da effettuarsi nel rispetto delle preclusioni processuali, avrebbe dovuto essere chiaro, circostanziato ed esplicito e si sarebbe dovuto concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta. Ne doveva conseguire, quindi, che esso ricorrente -quale convenuto in primo grado agente in riconvenzionale – sarebbe stato sollevato dal l’ onus probandi imposto dall’art. 2697 cod. civ., in quanto l’appellata aveva omesso di prendere posizione sulla detenzione di beni ed effetti personali di esso COGNOME indicati nell’atto allegato alla comparsa di costituzione e risposta. Vengono poi richiamate circostanze attinenti ad alcune operazioni bancarie da cui risulterebbe che esso ricorrente non aveva usato le somme prelevate dal conto corrente cointestato per sopperire ad esigenze personali, avendoli versati in un conto titoli cointestato, nonché l’episodio della locazione dell’immobile per sopperire a esigenze di servizio della controparte che insegnava, nel corso dell’anno 1992, a Siena per avere l’opportunità di entrare nelle graduatorie degli insegnati di ruolo. Tale quadro probatorio lascerebbe emergere -secondo la prospettazione del ricorrente -che la COGNOME, durante la convivenza familiare, aveva ottenuto solo delle utilità dal comportamento del COGNOME. Il Tribunale e la Corte di appello
avevano, invece, inspiegabilmente omesso l’esame dei documenti prodotti dall’odierno ricorrente, disattendendo anche la domanda tesa ad ottenere la restituzione di somme all’esito della rendicontazione delle spese sostenute. Si deduce, inoltre, l ‘ illogicità, la contraddittorietà e l’incompatibilità delle motivazioni offerte dalla Corte d’Appello di Bari con gli atti del processo, contenendo affermazioni risultanti in contrasto tra di loro ed inconciliabili, rendendo incomprensibili le ragioni che poste a base della decisione, determinando una omissione della motivazione.
1.1. -Il motivo è infondato.
L’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero di una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass., Sez. II, 28 ottobre 2019, n. 27490), nei limiti in cui ciò è ancora possibile. Nella specie tale valutazione è stata compiuta (p. 4-7 della motivazione), per cui non vi sono margini per un suo nuovo esame in sede di legittimità.
In particolare, la Corte di appello -nel rendere la motivazione posta a sostegno del percorso logico-giuridico adottato -si è conformata, in punto di diritto, al costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. tra le tante e più recenti, Cass., Sez. II, 29 settembre 2020, n. 20525; Cass., Sez. 6III, 26 novembre 2020, n. 26908 e Cass., Sez. 6-3, 23 marzo 2022, n. 9439) il principio di non contestazione, con conseguente “relevatio” dell’avversario dall’onere probatorio, postula che la parte che lo invoca abbia per prima ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere una puntuale allegazione dei fatti di causa (in merito ai quali l’altra parte è tenuta, poi, a prendere posizione). Se non lo fa, i fatti dedotti non confutati con allegazioni specifiche, debbono ritenersi non contestati, per i fini di cui all’art. 115 c.p.c.
Orbene, nella controversia in esame, la Corte territoriale ha accertato -riportando anche il contenuto, nella parte di interesse, delle conclusioni rassegnate in relazione alla domanda riconvenzionale formulata dal COGNOME -che la richiesta di condanna dell’attrice alla restituzione in suo favore di beni ed effetti personali come da separato atto allegato non fosse supportata da alcuna deduzione, da nessuna descrizione, né da un’apposita motivazione n el corpo dell’atto di costituzione, il quale non era corredato nemmeno dal suddetto enunciato ‘separato atto allegato’ (di cui non era stato rinvenuto alcun riscontro nei successivi atti difensivi del convenuto, né, ancor prima, è emerso che fosse stato indicato nel relativo indice dei documenti).
A fronte di tale generica domanda, la Corte barese ha ritenuto che, legittimamente, il difensore dell’attrice si era limitato nella prima difesa utile successiva, ovvero con deduzione fatta mediante dichiarazione inserita nel verbale di udienza di prima comparizione) -a contestare integralmente ogni avverso dedotto, non essendo onerato di alcuna più puntuale presa di posizione, difettando la specifica allegazione dei fatti da contestare, non rimediabile nemmeno con eventuale produzione documentale pertinente (oltretutto, nel caso di specie, nemmeno avvenuta, come sopra detto), atteso che l’onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni presenti negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti, al fine di consentire hinc ed inde e al giudice di verificare immediatamente, sulla scorta delle contrapposte allegazioni e deduzioni, i fatti non contestati e quelli, invece, rimasti controversi.
Con riguardo, poi, alla domanda di restituzione della somma di lire 80.000.000, versata dalla COGNOME sul conto corrente bancario cointestato ma dedotta come imputabile ad importi direttamente riconducibili ad introiti afferenti in via esclusiva alla sfera patrimoniale (trattandosi di somme derivanti dai propri stipendi di insegnante) della stessa appellata (già attrice), la Corte di appello
ha spiegato adeguatamente come il giudice di primo grado aveva legittimamente ritenuto che quest’ultima avesse provato tale titolarità esclusiva e che il COGNOME l’avesse pre levata per se stesso a mezzo assegno circolare, senza provare alcuna circostanza idonea a confutare (attraverso il riscontro di fatti modificativi e/o estintivi) la pretesa -invece in concreto dimostrata -della COGNOME.
A tal proposito, il giudice di appello ha dato atto che il COGNOME non aveva contestato di aver prelevato tale somma su detto conto, assumendo, tuttavia, che la stessa sarebbe stata versata su un diverso conto corrente cointestato acceso presso altra banca, circostanza che, tuttavia, era rimasta frutto di una ‘mera affermazione di parte’, senza essere riscontrata da alcuna prova.
Occorre, inoltre, evidenziare sul piano generale che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., SU, 7 aprile 2014, n. 8053-8054; Cass., Sez. I, 3 marzo 2022, n. 7090).
Inammissibile risulta, pertanto, la doglianza relativa al vizio di motivazione, non essendo stato leso il minimo costituzionale.
Parte ricorrente, laddove prospetta in rubrica una violazione di legge in merito all’onere della prova, mira inequivocabilmente a ottenere un nuovo esame delle risultanze istruttorie così come
valutate in sede di merito, così intendendo ottenere una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (cfr. Cass., Sez. 6-III, 4 aprile 2017, n. 8758).
L’esame del motivo sotto il profilo dell’assunto vizio motivazionale -è inammissibile in sede di legittimità anche perché si versa in una ipotesi di ‘doppia’ conforme , mancando una diversa ricostruzione dei fatti esaminata in sede del doppio grado di giudizio – che ha respinto le deduzioni del ricorrente. Infatti, nel caso di “doppia conforme” ex art. 348 ter , comma 5, cod. proc. civ., è onere del ricorrente -rimasto qui non assolto -di indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello, dimostrando che sono tra loro diverse (Cass., Sez. III, 20 settembre 2023, n. 26934).
2. -Il ricorso deve, in definitiva, essere rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Essendo la decisione resa all’esito di procedimento per la definizione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ. (novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), con formulazione di istanza di decisione ai sensi del secondo comma della norma citata, e il giudizio definito in conformità alla proposta, il ricorrente deve essere, inoltre, condannata al pagamento delle ulteriori somme ex art. 96 commi 3 e 4 cod. proc. civ., sempre come quantificate come in dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.000,00 per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Condanna, altresì, lo stesso ricorrente, ai sensi dell’art. 96, comma 3, cod. proc. civ., al pagamento, a favore della controricorrente, di una somma ulteriore di euro 3.000,00 equitativamente determinata, nonché -ai sensi dell’art. 96, comma 4, cod. proc. civ. – al pagamento dell ‘importo di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione