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Onere della prova diffamazione: chi prova la verità?

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una società editrice e del suo direttore, condannati per aver diffamato un cittadino indicandolo erroneamente come indagato per un omicidio. La Corte ha ribadito che l’onere della prova diffamazione grava sul giornalista e sull’editore, i quali devono dimostrare la verità della notizia o, almeno, la sua verosimiglianza e l’attendibilità delle fonti. In questo caso, la Corte ha ritenuto insufficiente basarsi su una singola fonte non qualificata per esonerare da responsabilità.

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Pubblicato il 9 ottobre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Onere della Prova nella Diffamazione a Mezzo Stampa: la Cassazione Fa Chiarezza

L’onere della prova diffamazione rappresenta un pilastro fondamentale nei processi per danni da notizie false. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ribadisce con forza a chi spetti dimostrare la verità o la falsità di una notizia pubblicata, delineando i confini della responsabilità di giornalisti ed editori. Il caso analizzato riguarda la pubblicazione di articoli che attribuivano erroneamente a un cittadino la condizione di indagato per un grave fatto di cronaca, un omicidio di matrice terroristica.

I Fatti di Causa

Un cittadino citava in giudizio un quotidiano e il suo direttore responsabile per aver pubblicato, in un arco temporale di oltre due anni, una serie di articoli in cui veniva indicato come persona sottoposta a indagini per un noto omicidio. In realtà, il suo nome non era mai stato iscritto nel registro degli indagati per quel reato.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda di risarcimento. Successivamente, la Corte d’Appello ribaltava la decisione, accogliendo il ricorso del cittadino diffamato e condannando la società editrice e l’allora direttore in solido al pagamento di 40.000 euro a titolo di risarcimento del danno, oltre interessi. Contro questa sentenza, la società editrice e il nuovo direttore proponevano ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte e l’Onere della Prova Diffamazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società editrice, confermando la condanna al risarcimento. Il punto centrale della decisione riguarda proprio l’onere della prova diffamazione. I ricorrenti sostenevano che dovesse essere il soggetto diffamato a dimostrare la falsità della notizia pubblicata. Solo a seguito di tale prova, sarebbe scattato l’onere del giornalista di dimostrare di aver effettuato le dovute verifiche.

La Suprema Corte ha smontato questa tesi, riaffermando un principio consolidato: nel giudizio di risarcimento del danno da diffamazione, il danneggiato ha l’onere di provare la pubblicazione della notizia e la sua natura diffamatoria. Spetta invece al convenuto (il giornalista o l’editore) provare la sussistenza di una causa di giustificazione, come l’esercizio del diritto di cronaca. Questa esimente richiede la prova della verità della notizia (anche solo putativa, basata sulla verosimiglianza dei fatti e l’attendibilità della fonte) e dell’interesse pubblico alla sua conoscenza.

La Valutazione delle Fonti

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva correttamente evidenziato che i convenuti non avevano dimostrato che la notizia fosse tratta da fonti qualificate, tali da esonerarli da ulteriori verifiche. La Corte di Cassazione ha implicitamente confermato questo approccio, sottolineando come la semplice provenienza della notizia da una singola agenzia di stampa non fosse stata ritenuta sufficiente dal giudice di merito per costituire una fonte qualificata, esonerando il quotidiano dal dovere di controllo.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Cassazione si fondano su una chiara ripartizione dell’onere probatorio, come stabilito dall’art. 2697 del codice civile. L’attore deve provare il fatto costitutivo della sua pretesa (la pubblicazione della notizia lesiva), mentre il convenuto deve provare i fatti estintivi o modificativi che paralizzano tale pretesa (la verità della notizia e la correttezza del proprio operato). Invertire questo onere significherebbe imporre al danneggiato una prova negativa, ossia la prova di non essere indagato, che la giurisprudenza ha definito “facilmente dimostrabile” ma pur sempre a suo carico in un’impostazione errata.

La Corte ha specificato che l’attore deve provare “il fatto della pubblicazione diffamatoria”, e spetta alla controparte provare la verità della notizia, anche in forma putativa per “verosimiglianza dei fatti in relazione alla attendibilità della fonte”. Se il giornalista fornisce questa prova, allora e solo allora spetterà all’attore dimostrare l’inattendibilità della fonte invocata. In questo caso, i ricorrenti non hanno superato il primo scoglio: dimostrare la verità o l’affidabilità della loro fonte.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un principio cruciale per la tutela della reputazione individuale e la responsabilità dei media. L’onere della prova diffamazione ricade in modo netto su chi pubblica la notizia. Non è il cittadino a dover dimostrare l’infondatezza di quanto scritto sul suo conto, ma è il giornalista a dover provare di aver adempiuto al proprio dovere di verifica, basandosi su fonti attendibili e qualificate. Questa decisione funge da monito per il mondo dell’informazione: la fretta o la superficialità nella verifica delle fonti non costituiscono una scusante e possono portare a pesanti condanne risarcitorie.

In un processo per diffamazione a mezzo stampa, chi deve provare che la notizia è vera o falsa?
La persona che si ritiene diffamata deve provare solo che la notizia lesiva della sua reputazione è stata pubblicata. Spetta invece al giornalista e all’editore (i convenuti) dimostrare che la notizia era vera o che, almeno, appariva verosimile sulla base di fonti affidabili e verificate (onere della prova).

È sufficiente per un giornalista citare una fonte per non essere responsabile di diffamazione?
No, non è sufficiente. Secondo la sentenza, il giornalista deve dimostrare che la fonte da cui ha tratto la notizia era “qualificata” e attendibile. In questo caso, basarsi su una sola agenzia di stampa non è stato ritenuto sufficiente dal giudice di merito per esonerare il quotidiano dall’obbligo di ulteriori verifiche.

Cosa succede se una delle parti del processo muore durante il giudizio?
La causa prosegue nei confronti degli eredi. Tuttavia, se le obbligazioni sono solidali (come nel caso di specie tra l’editore e gli eredi del direttore originario), non si crea un litisconsorzio necessario. Ciò significa che le cause possono essere scisse e la mancata citazione di tutti gli eredi non impedisce la prosecuzione del giudizio nei confronti delle altre parti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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