Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 25176 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 25176 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13909-2023 proposto da:
LIBERATORE NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE 02 – LANCIANO VASTO – CHIETI, in persona del Direttore Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
sul ricorso 14037-2023 proposto da:
LIBERATORE NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
Oggetto
PUBBLICO IMPIEGO
DEMANSIONAMENTO
R.G.N. 13909/2023
R.G.N. 14037/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 09/05/2025
CC
RAGIONE_SOCIALE LOCALE INDIRIZZO – INDIRIZZO – CHIETI;
– intimata –
avverso la sentenza n. 442/2022 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 15/12/2022 R.G.N. 616/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME quale dipendente della ASL n. 2 Lanciano-Vasto-Chieti con funzioni di infermiere agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno determinato dal suo demansionamento. Il lavoratore allega di aver svolto, nel periodo compreso tra il mese di ottobre 2012 fino a quello di febbraio 2017, mansioni riconducibili al profilo di operatore socio-sanitario, per oltre il 75% del tempo in cui egli è stato in servizio, a causa della carenza di personale di supporto.
La ASL, sia nel giudizio di primo grado che in appello, ha rappresentato che tutte le mansioni che il lavoratore ha dedotto di aver svolto rientrerebbero nel profilo infermieristico e ha contestato che il ricorrente sia stato adibito a tali mansioni in maniera prevalente.
In primo grado il lavoratore ha richiesto di provare per testimoni i fatti costitutivi della propria pretesa, ma il Tribunale non ha ammesso le prove orali richieste e nel merito ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da demansionamento.
La Corte di appello di L’Aquila ha rigettato l’appello e confermato le statuizioni del giudice di primo grado, sul presupposto che il lavoratore non avesse correttamente
adempiuto agli oneri di allegazione su di esso gravanti: le allegazioni circa la carenza di personale OSS non possono considerarsi sufficienti a supplire le lacune delle allegazioni relative alla specifica posizione del ricorrente, in quanto, avendo il demansionamento carattere necessariamente personale, deve essere valutato in relazione alle specifiche attività svolte dal lavoratore.
Il signor NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione assistito da quattro motivi cui ha resistito l’amministrazione con controricorso.
La ASL n. 2 Lanciano-Vasto-Chieti ha altresì depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente va disposta la riunione al presente giudizio di quello di cui al n. R.G. 14037/2023 avente ad oggetto la stessa sentenza impugnata e identico ricorso proposto dal signor COGNOME che pertanto risulta, per errore, iscritto due volte.
Con il primo motivo ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5) c.p.c. si deduce la lacunosità, contraddittorietà e, comunque, non congruità della motivazione -motivazione apparente. La motivazione della sentenza, alla luce dello svolgimento del processo di secondo grado, è censurabile perché contraddittoria e lacunosa.
Secondo il giudice di secondo grado, le circostanze che sono state, dalla medesima Corte, ammesse come capitoli di prova non sarebbero, di per sé, idonee dal punto di vista allegatorio per la loro genericità a dimostrare la fondatezza della domanda di demansionamento formulata dal ricorrente.
Tale valutazione risulta contraddittoria rispetto alla decisione di ammettere le prove testimoniali su fatti ritenuti generici. La sentenza impugnata non fa alcun cenno all’ordinanza ammissiva delle prove e alle risultanze istruttorie il cui esame avrebbe dovuto costituire il presupposto motivazionale della decisione.
Con il secondo motivo si deduce un vizio di motivazione della sentenza per omessa valutazione delle prove ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Il giudice di secondo grado, oltre all’aspetto richiamato in precedenza, ha omesso completamente di valutare le prove acquisite durante il processo.
Con il terzo motivo si deduce la violazione dell’art. 2697 cod. civ. sulla ripartizione dell’onere probatorio ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.
Secondo la Corte di Appello il datore di lavoro non avrebbe dovuto dimostrare l’esatto adempimento dei propri obblighi contrattuali -quale quello di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto -a fronte di una ritenuta generica allegazione circa la prevalenza delle mansioni inferiori svolte.
Tale opzione interpretativa della Corte distrettuale si pone in contrasto con i principi giurisprudenziali consolidati sul riparto dell’onere della prova in materia contrattuale.
Con il quarto motivo si denuncia la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione dell’art. 253 c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
A fronte della asserita genericità dei capitoli di prova dedotti dal ricorrente La Corte di merito avrebbe potuto rivolgere ai testimoni domande finalizzate a specificare le circostanze allegate al fine di meglio collocare nel tempo lo
svolgimento delle mansioni inferiori o di specificare più nel dettaglio le attività lavorative in concreto svolte dal ricorrente.
6. Il primo motivo è inammissibile per non aver il ricorrente allegato il fatto decisivo per la decisione che la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare.
L’articolo 360 comma 1, n. 5, c.p.c. nel testo attualmente vigente consente di ricorrere per Cassazione esclusivamente per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. La differenza che emerge rispetto alla precedente formulazione della norma consiste nella scomparsa della possibilità di denunciare l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione avendo il ricorrente facoltà di dolersi della sola omissione dell’esame di un fatto decisivo per il giudizio che ha costituito oggetto di discussione tra le parti.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) al riguardo hanno affermato che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto
storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Inoltre, non ricorrono i presupposti per censurare la sentenza impugnata per motivazione apparente.
E’ noto che la motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante sussiste allorquando pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum. E’ stato, in particolare, precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. Un. n. 22232 del 2016), oppure allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li
indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105 del 2017) oppure, ancora, nell’ipotesi in cui le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. 18/09/2009 n. 20112).
Orbene, è evidente che la Corte di merito ha offerto una congrua motivazione al fine di respingere la domanda del ricorrente nella misura in cui ha rilevato la genericità delle allegazioni dedotte.
Va comunque rilevato che il motivo è vieppiù inammissibile in ragione della c.d. doppia conforme.
7. Anche il secondo motivo è inammissibile. Con la censura di omesso esame di fatto decisivo l’odierno ricorrente si lamenta della mancata valutazione delle prove raccolte che, viceversa, da un lato costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito le cui conclusioni in ordine alle ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in Cassazione (vedi Cass.9786/2022) dall’altro è evidente che la Corte di merito ha implicitamente ritenuto non idonee le prove raccolte ai fini della dimostrazione del demansionamento.
Tali valutazioni di merito insindacabili in sede di legittimità non sono censurabili con il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. che come detto per l’esame del precedente motivo è limitato alla contestazione di omesso esame di fatto decisivo che nel caso di specie non ricorre.
Anche per tale censura non può comunque non rilevarsi la inammissibilità per la c.d. doppia conforme.
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della sentenza impugnata che avrebbe violato il disposto dell’articolo 2697 cod. civ..
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata assume correttamente che quando il lavoratore denuncia l’illegittimità dell’esercizio dei poteri datoriali a causa dell’assegnazione di mansioni inferiori alla qualifica ha l’onere di allegare gli elementi significativi ai fini dell’inesatto adempimento dell’obbligo datoriale di adibizione del dipendente a mansioni corrispondenti alla categoria o mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte per cui la Corte non ha invertito l’onere della prova, ma ha correttamente stabilito che il lavoratore non avesse adempiuto gli oneri di allegazione su di esso gravanti.
Con il quarto motivo ci si lamenta del fatto che il giudice di appello non avrebbe utilizzato i propri poteri ufficiosi integrando di propria iniziativa i contenuti dei capitoli di prova.
Questa Corte ha affermato, al riguardo, il principio secondo cui l’indagine del giudice di merito sui requisiti di specificità e rilevanza dei capitoli formulati dalla parte istante va condotta non solo alla stregua della loro formulazione letterale, ma anche in correlazione all’adeguatezza fattuale e temporale delle circostanze articolate con l’avvertenza che la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti e precisazioni ai sensi dell’articolo 253 cod. proc. civ. di natura esclusivamente integrativa non può tradursi in un’inammissibile sanatoria della genericità e delle deficienze dell’articolazione probatoria (Cass. 14364/2018).
E’ inoltre da rilevarsi che (Ordinanza n. 14923 del 28/05/2024) nel rito del lavoro, i poteri istruttori officiosi di cui all’art. 421 c.p.c. – il cui esercizio è del tutto discrezionale e come tale sottratto al sindacato di legittimità – non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale.
Pertanto, anche tale censura è infondata.
Conclusivamente, il ricorso va respinto con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite.
P.Q.M.
La Corte rigetta ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente costituita delle spese di lite che liquida in € 3.500,00 per compensi professionali oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, il giorno 9 maggio 2025.
La Presidente NOME COGNOME