Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 26867 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 26867 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 32037 R.G. anno 2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME, domiciliat a presso l’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
COGNOME NOME , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
contro
ricorrente
nonché
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME , domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME;
interveniente avverso la sentenza n. 1837/2020 della Corte di appello di Bari, pubblicata il 28 ottobre 2020;
riunito
al ricorso iscritto al n. 13177 R.G. anno 2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME , domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
COGNOME NOME , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
contro
ricorrente
avverso la sentenza n. 490/2023 della Corte di appello di Bari, pubblicata il 27 marzo 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 settembre 2024 dal consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
─ Il Tribunale di Bari, sezione distaccata di Rutigliano, ha rigettato le domande proposte da NOME COGNOME nei confronti di Banca Carime RAGIONE_SOCIALEp.a., poi RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE.a.: domande intese all’accertamento dell’illegittimità degli addebiti operati dalla banca sul conto corrente dell’attore per interessi ultralegali, interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto. Con la detta pronuncia il Tribunale ha condannato COGNOME COGNOME pagamento delle spese di lite, ma ha compensato quelle relative alla disposta consulenza tecnica.
2 . ─ In sede di gravame la Corte di appello di Bari ha accolto l’appello principale del correntista e riformato la sentenza di primo grado, condannando la banca al pagamento della somma di euro
245.064,82, oltre interessi; ha inoltre pronunciato statuizione di formale rigetto dell’appello incidentale della banca ; ha infine condannato quest’ultima al pagamento delle spese del doppio grado.
– La pronuncia della Corte di Bari, resa il 28 ottobre 2020, è stata impugnata per cassazione da RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE con quattro motivi di ricorso; all’impugnazione ha resistito con controricorso COGNOME; è intervenuta in giudizio RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE s.p.a., quale società incorporante RAGIONE_SOCIALE.
– La sentenza di appello è stata fatta pure oggetto, da parte della stessa banca, di un gravame per revocazione: gravame che la Corte di appello di Bari ha dichiarato inammissibile con sentenza del 27 marzo 2023.
– Anche quest’ultima decisio ne è stata impugnata per cassazione. Il ricorso consta di un solo motivo ed è sempre resistito con controricorso da COGNOME.
Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-I due giudizi sono da riunire: per giurisprudenza costante di questa Corte, i ricorsi per cassazione contro la decisione di appello e contro quella che decide l’impugnazione per revocazione avverso la prima vanno riuniti in caso di contemporanea pendenza in sede di legittimità nonostante si tratti di due gravami aventi ad oggetto distinti provvedimenti, atteso che la connessione esistente tra le due pronunce giustifica l’applicazione analogica dell’art. 335 c.p.c., potendo risultare determinante sul ricorso per cassazione contro la sentenza di appello l’esito di quello riguardante la sentenza di revocazione (Cass. 6 luglio 2022, n. 21315; Cass. 5 agosto 2016, n. 16435).
Stante il principio appena richiamato, deve essere data precedenza di trattazione al ricorso averso la sentenza n. 490/2023 (di cui al ricorso inscritto al n. NUMERO_DOCUMENTO R.G. anno 2023), che ha deciso l’impugnazione per revocazione.
Chi ricorre oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 395, n. 4, c.p.c.. Si deduce che, contrariamente a quanto rilevato dalla Corte di appello – secondo cui non era stato oggetto di contestazione da parte della banca convenuta la circostanza che il contratto di conto corrente non fu stipulato in forma scritta nella sentenza di appello, poi impugnata per revocazione, l’at tore in giudizio «non aveva mai affermato l’insussistenza del contratto di conto corrente, ma ne aveva, per contro, affermata l’esistenza» e le parti «avevano sempre assunto come fatto pacifico la sussistenza di tale contratto».
Il motivo è privo di fondamento.
L’impugnazione per revocazione aveva investito la seguente enunciazione, contenuta nella sentenza del 28 ottobre 2020: «on è stata oggetto di contestazione da parte della banca convenuta la circostanza che il contratto di conto corrente oggetto di giudizio non fu stipulato in forma scritta». La censura odierna si appunta sulla sentenza del 27 marzo 2023, che ha definito il giudizio di revocazione: in tale decisione è osservato che la doglianza qualificata dall’attore in revocazione come «errore di fatto» non attiene a un «fatto» dato come esistente ed in realtà non sussistente, riguardando, piuttosto, una «deduzione difensiva che sarebbe rimasta dimostrata dalla non contestazione della convenuta ovvero dalla mancata produzione della prova contraria, in caso di contestazione»: talché, ha osservato la Corte di appello, l’errore , nella controversia in esame, aveva riguardato l’interpretazione degli scritti difensivi.
L’esito suddetto merita convinta adesione. Va infatti ricordato che la pronuncia del giudice, che si assuma erronea, sull’esistenza di uno o più fatti ritenuti pacifici per difetto di contestazione, costituisce frutto non di un errore meramente percettivo, ma di un’attività valutativa, nel senso che il giudice stesso, postasi la questione della mancanza di contestazioni in ordine all’esistenza di uno o più fatti determinati, l’ha risolta affermativamente all’esito di un giudizio, di per sé incompatibile
con l’errore di fatto e non idoneo, quindi, a costituire motivo di revocazione a norma dell’art. 395, n. 4 c.p.c. (Cass. 13 dicembre 2022, n. 36249; Cass. 31 marzo 2011, n. 7488; Cass. 21 gennaio 1993, n. 705).
3 . -Passando al ricorso di cui al R.G. n. 32037 R.G. del 2020, che interessa la sentenza n. 1837/2020, il primo motivo di esso denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Il mezzo di censura si dirige contro la richiamata asserzione, contenuta nella sentenza di appello (quella impugnata col ricorso in esame) relativa alla mancata contestazione della conclusione del contratto in forma diversa da quella scritta. Sostiene la banca instante che l’attore non aveva «mai affermato l’inesistenza del contratto di conto corrente», predicandone, anzi, l’ esistenza.
Il motivo è inammissibile.
A di là dell’imprecisione lessicale che si tradotta nella sovrapposizione delle nozioni di contratto scritto (di cui è parola nella pronuncia impugnata) e di contratto (di cui è menzione nel ricorso per cassazione), deve osservarsi che nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ab onere probandi , spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. 7 febbraio 2019, n. 3680). In particola re, l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass. 28 ottobre 2019, n. 27490).
Come è noto, poi, è oggi denunciabile in sede di legittimità solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali: e tale anomalia si esaurisce nella «mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico», nella «motivazione apparente», nel «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili» e nella «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile», esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di «sufficienza» della motivazione (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 3 marzo 2022, n. 7090; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598). L’art. 360, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, ha inoltre introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054 citt.; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415).
Ora, la ricorrente non ha denunciato alcuna delle anomalie motivazionali sopra indicate, ma ha opposto il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. senza però indicare il fatto storico che la Corte di merito avrebbe mancato di esaminare. Come è evidente, il fatto storico atto a sconfessare l’affermazione circa la pacifica inesistenza del contratto scritto andava individuato nella stipula per iscritto del detto contratto: e a tal fine era oltretutto necessario allegare, nella presente sede, il «dato» da cui poteva ricavarsi che tale fatto era realmente esistente (vale a dire il documento negoziale), nonché il «come» e il «quando» tale fatto era stato oggetto di discussione processuale tra le parti (cfr. le sentenze da ultimo citate). La banca ricorrente si è di contro limitata
a richiamare degli atti processuali in cui non è fatta alcuna menzione della conclusione di un contratto scritto.
4. Col secondo motivo di ricorso avverso la sentenza n. 1837 del 2020 si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Deduce la banca istante che la Corte di appello avrebbe operato una inversione dell’onere probatorio quanto alle nullità denunciate da parte attrice, reputandole dimostrate sulla base degli estratti conto, piuttosto che sulla scorta di quanto convenuto nel contratto di conto corrente.
Il motivo è parzialmente fondato.
La Corte di Bari, dopo aver precisato che il contratto doveva ritenersi concluso in forma diversa da quella scritta, ha osservato che dagli estratti conto prodotti poteva desumersi: che la banca aveva addebitato interessi ultralegali; che era stata applicata una commissione di massimo scoperto in assenza di patto scritto; che era stata praticata la capitalizzazione trimestrale dei soli interessi a debito del correntista, non anche di quelli a credito. Di qui l’accoglimento della domanda attrice, con riforma della sentenza di primo grado.
Come risulta dalla sentenza impugnata, il contratto di conto corrente fu stipulato negli anni settanta del secolo scorso e il relativo rapporto si esaurì nel 2001. Non viene quindi in questione la nullità del contratto per vizio di forma; come è ben noto, la previsione della forma scritta dei contratti bancari è stata introdotta d all’art. 3 l. n. 154 del 1992 con previsione che venne poi trasfusa nell’art. 117, comma 1 , t.u.b. (d.lgs. n. 385 del 1993).
Tanto premesso, il richiamato passaggio della sentenza impugnata si sottrae a censura con riguardo alla contabilizzazione degli interessi ultralegali e anatocistici.
Occorre difatti anzitutto osservare che la pattuizione di interessi ultralegali soggiaceva all’obbligo della forma scritta anche al tempo della conclusione del contratto, stante la previsione dell’art. 1284, comma 3, c.c.: in conseguenza, a fronte del l’evidenziazione, negli
estratti conto, di interessi superiori al tasso legale andava senz’altro dato atto dell’illegittimità de relativi addebiti.
Quanto all’anatocismo , deve considerarsi che ove – come nella presente fattispecie non vengano in questione le ipotesi di capitalizzazione specificamente contemplate dall’art. 1283 c.c. (interessi maturati dal giorno della domanda giudiziale e convenzione posteriore alla scadenza, sempre che si tratti di interessi maturati per almeno se i mesi), il correntista attore in ripetizione dell’indebito che si dolga del comprovato addebito di interessi anatocistici non è tenuto a dare dimostrazione delle condizioni pattuite con la banca con riguardo al periodo anteriore a quello di vigenza della delib. CICR 9 febbraio 2000; infatti, nel periodo indicato, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 2000, siffatte clausole sono disciplinate dalla normativa precedentemente in vigore, che non consente alcuna capitalizzazione (salvo che nei casi sopra richiamati), posto che le pattuizioni anatocistiche basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo, sono da considerare nulle per violazione del cit. art. 1283 c.c. (Cass. 20 dicembre 2023, n. 35605, non massimata in CED ). Anche in questo caso, dunque, l’acquisizione del documento contrattuale era superflua ai fini della rilevazione dell’illegittimità degli addebiti.
Tale proposizione va confermata con riguardo al (breve) periodo di vigenza della delib. CICR del 9 febbraio 2000: infatti, quest’ultima consentiva l’anatocismo a condizione che gli interessi creditori e debitori venissero capitalizzati con la stessa periodicità (artt. 2 e 7) e la Corte di merito, come si è visto, ha appurato che la capitalizzazione aveva riguardato i soli interessi a debito.
La pronuncia merita invece censura con riferimento al tema della commissione di massimo scoperto. L’assunto dell’illegitti ma applicazione della stessa avrebbe potuto difatti fondarsi solo sull’accertata mancata pattuizione di tale commissione: si imponeva, pertanto, che l’odierno controricorrente, attore in giudizio, desse prova
del preciso contenuto dell’intercorso cont ratto. Se è il cliente ad agire in giudizio è su di lui, infatti, che grava l’onere di dar prova del contratto di conto corrente da cui si origina il saldo. Vale, al riguardo, la regola generale per cui in tema di ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare la mancanza di una causa che giustifichi lo stesso indebito (Cass. 27 novembre 2018, n. 30713): principio che trova applicazione anche nel caso in cui l’attore in ripetizione alleghi di avere effettuato un pagamento dovuto solo in parte (Cass. 23 novembre 2022, n. 34427), come nel caso in cui la banca abbia operato prelievi privi di giustificazione non in toto , ma nella misura in cui sono stati eseguiti in forza di clausole nulle.
5. Col terzo motivo si oppone la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e del l ‘art. 24 Cost. . La ricorrente si duole che la Corte di appello abbia respinto l’ap pello incidentale con cui aveva lamentato fosse stato riversato su di essa istante il costo della consulenza tecnica d’ufficio «senza tuttavia minimamente entrare nel merito della fondatezza dello specifico motivo, omettendo così di fornire una effettiva motivazione dell’operato rigetto».
Il motivo è inammissibile.
La Corte di appello ha riformato la sentenza di primo grado e ha correlativamente rimodulato le spese del giudizio di primo grado (ponendole a totale carico della banca).
La statui zione di rigetto dell’appello incidentale è evidentemente imprecisa, dal momento che la decisione su detto gravame è restata assorbita in ragione dell’effetto espansivo interno della riforma della pronuncia di primo grado. Non può poi ritenersi che la decisione assunta sul punto dalla Corte di appello sia priva di motivazione: una volta riqualificata la detta statuizione in termini di assorbimento, deve evidenziarsi che è stata proprio la decisione assorbente (con cui la
sentenza di primo grado è stata riformata) a giustificare il mancato accoglimento dell’appello incidentale ( nel senso che la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita -di rigetto oppure di accoglimento -anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento: Cass. 19 dicembre 2019, n. 33764; Cass. 12 novembre 2018, n. 28995).
6 . – Col quarto motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 1422, 2934, 2935 e 2946 c.c., nonché dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza delle Sezioni Unite n. 24418 del 2010. Il mezzo investe il tema della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito: prescrizione che la Corte di appello ha ritenuto inoperante. Deduce in primo luogo la ricorrente che «la verifica dei dati per l’individuazione delle poste aventi natura solutoria non può che essere effettuata sui dati ‘ storici ‘ rilevati direttamente dagli estratti conto senza alcuna modifica o rielaborazione: in sostanza, il saldo da considerare per individuare i versamenti aventi natura solutoria non potrebbe che essere quello ricavabile esclusivamente dagli estratti conto bancari». Osserva, poi, che in assenza di una specifica prova dell’esistenza di un contratto di affidamento, mai fornita dal correntista, «le rimesse anteriori al primo atto interruttivo della prescrizione avrebbero dovuto essere considerate aventi natura solutoria, poiché effettuate su di un conto ‘scoperto’ e, pertanto, prescritte».
Il motivo risulta svolto in via subordinata, per l’ipotesi in cui non venga disposta la cassazione senza rinvio: poiché l’accoglimento parziale del secondo mezzo giustifica la cassazione con rinvio, la condizione indicata non ricorre e il quarto motivo deve essere pertanto scrutinato.
La prima censura va disattesa in ragione del seguente principio, cui il Collegio reputa necessario dare continuità: in tema di conto corrente bancario, ove il cliente agisca in giudizio per la ripetizione di
importi relativi ad interessi non dovuti per nullità delle clausole anatocistiche e la banca sollevi l’eccezione di prescrizione, al fine di verificare se un versamento abbia avuto natura solutoria o ripristinatoria, occorre previamente eliminare tutti gli addebiti indebitamente effettuati dall’istituto di credito e conseguentemente rideterminare il reale saldo passivo del conto, verificando poi se siano stati superati i limiti del concesso affidamento ed il versamento possa perciò qualificarsi come solutorio (Cass. 19 maggio 2021, n. 9141; in senso sostanzialmente conforme: Cass. 16 marzo 2023, n. 7721).
Con la seconda censura si imputa alla sentenza impugnata di aver trascurato di considerare , sempre ai fini della decisione sull’eccezione di prescrizione, che il contratto di conto corrente non era assistito da apertura di credito.
In effetti, la Corte di appello si è limitata a osservare che il consulente tecnico aveva rilevato l’esistenza di due sole rimesse solutorie e nulla ha chiarito quanto alla stipula del contratto di apertura di credito che, in diritto, avrebbe potuto giustificare la conclusione cui era pervenuto l’ausiliario: il Giudice del gravame non ha cioè spiegato per quale ragione la quasi totalità delle rimesse eseguite avrebbero avuto natura ripristinatoria della provvista (evenienza, questa, atta a giustificare una prescrizione del diritto alla ripetizione decorrente dal momento del pagamento del saldo finale del conto).
La distinzione, nel quadro della disciplina della ripetizione dell’indebito in materia di contratti bancari, tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista si deve alle Sezioni Unite, che hanno affrontato il problema della decorrenza della prescrizione del diritto di ripetizione. Spiega Cass. Sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418 che l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta
all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati: ciò in quanto il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del solvens , con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell’ accipiens . La pronuncia muove dal rilievo per cui non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione. In conseguenza, se il correntista, nel corso del rapporto, abbia effettuato non solo prelevamenti ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali da formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca. E questo accadrà ove si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’affidamento: non così in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, fungano unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere (sent. cit., in motivazione).
Di qui l’importanza della differenziazione tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie della provvista: solo le prime possono considerarsi pagamenti nel quadro della fattispecie di cui all’art. 2033 c.c.; con la conseguenza che la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito decorre, per esse, dal momento in cui abbiano avuto luogo.
I versamenti ripristinatori, invece – come precisato dalle Sezioni Unite – non soddisfano il creditore ma ampliano (o ripristinano) la facoltà d’indebitamento del correntista: sicché, con riferimento ai medesimi, di pagamento potrà parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia percepito dal correntista il saldo finale, in cui siano compresi interessi non dovuti.
A fronte dell’eccezione di prescrizione del credito a decorrere dalle singole rimesse, sollevata dalla banca avverso la domanda di ripetizione dell’indebito proposta dal correntista, grava su quest’ultimo l’onere della prova della natura ripristinatoria e non solutoria delle rimesse indicate (Cass. 6 dicembre 2019, n. 31927; Cass. 30 gennaio 2019, n. 2660; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27704), anche se il giudice è comunque tenuto a valorizzare la prova della stipula di un contratto di apertura di credito, purché ritualmente acquisita, indipendentemente da una specifica allegazione del correntista, dal momento che la deduzione circa l’esistenza di un impedimento al decorso della prescrizione determinato da una apertura di credito costituisce un’eccezione in senso lato e non in senso stretto (Cass. 6 dicembre 2019, n. 31927, cit.; cfr. pure Cass. 17 luglio 2023, n. 20455).
Per affermare che quasi tutte le rimesse avevano natura ripristinatoria la Corte di appello avrebbe dovuto quindi dar conto dell’acquisito riscontro del contratto di apertura di credito: ciò che è invece mancato.
– In conclusione, il ricorso di cui al R.G. n. 13177 del 2023 va respinto, mentre quello di cui al R.G. n. 32037 del 2020 va accolto, per quanto di ragione, con riferimento al secondo e al quarto motivo.
Con riguardo alla prima impugnazione deve farsi luogo alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, in base al principio di soccombenza.
Con riferimento al secondo giudizio occorre invece cassare la sentenza n. 1837/2020, disponendo il rinvio della causa alla Corte di
appello di Bari, che giudicherà in diversa composizione e a cui è demandata la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
dispone la riunione dei giudizi; rigetta il ricorso di cui al n. 13177 R.G. anno 2023 e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del relativo giudizio, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto; in relazione al ricorso iscritto al n. 32037 R.G. anno 2020 accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il secondo e il quarto motivo e dichiara inammissibili i restanti; cassa, in relazione alle censure accolte, la sentenza n. 1837/2020 della Corte di appello di Bari e rinvia la causa alla detta Corte, che giudicherà in diversa composizione e statuirà sulla spese del relativo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione