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Onere della prova: chi deve dimostrare il difetto?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un’azienda agricola che contestava una fornitura di sementi, ritenendole non conformi a quanto pattuito. La Corte ribadisce un principio cardine: l’onere della prova del difetto del prodotto grava sull’acquirente. Tentare di ottenere in Cassazione una nuova valutazione dei fatti, già accertati nei gradi di merito anche tramite consulenza tecnica, costituisce un motivo di inammissibilità. L’azienda ricorrente è stata condannata anche per lite temeraria.

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Pubblicato il 23 agosto 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Onere della prova: la Cassazione sulla non conformità dei prodotti agricoli

Nelle controversie commerciali, specialmente quelle relative alla fornitura di beni, uno dei principi cardine è l’onere della prova. Spetta a chi lamenta un’inadempienza, come la consegna di un prodotto difettoso, dimostrare non solo il proprio diritto ma anche i fatti su cui si fonda la sua pretesa. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre un chiaro esempio di questo principio, dichiarando inammissibile un ricorso che tentava di ribaltare le decisioni di merito senza rispettare le regole processuali.

I fatti di causa

La vicenda trae origine da una disputa tra due aziende agricole. Un’azienda fornitrice otteneva un decreto ingiuntivo per il pagamento di una fornitura di sementi di cipolla. L’azienda acquirente si opponeva al decreto e, in via riconvenzionale, chiedeva il risarcimento dei danni. A suo dire, le sementi fornite non erano della pregiata varietà pattuita (la “cipolla rossa di Tropea”), ma di una qualità diversa che aveva causato un raccolto insoddisfacente.

La decisione dei giudici di merito

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto le pretese dell’azienda acquirente. Entrambi i giudici hanno basato le proprie decisioni sulle risultanze di una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU). L’esperto nominato dal tribunale aveva infatti accertato che le sementi fornite erano effettivamente identiche a quelle pattuite nel contratto e che l’entità del credito del fornitore era corretta. Di conseguenza, l’opposizione al decreto ingiuntivo e la domanda di risarcimento danni sono state rigettate.

L’inammissibilità del ricorso e l’onere della prova

Insoddisfatta, l’azienda acquirente ha proposto ricorso per cassazione, lamentando un errore di diritto da parte della Corte d’Appello. Sostanzialmente, la ricorrente affermava che la non conformità del prodotto fosse un fatto pacifico e non contestato tra le parti e che i giudici avessero errato nel disporre una CTU per accertarlo.

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. I giudici hanno chiarito che, al di là della formale denuncia di una violazione di legge, il ricorso rappresentava un tentativo di ottenere una terza valutazione dei fatti di causa. Questo tipo di riesame è precluso in sede di legittimità, dove la Corte può solo verificare la corretta applicazione delle norme di diritto, non ricostruire i fatti.

Le motivazioni

La Corte ha sottolineato che la circostanza fondamentale della controversia, ovvero se il prodotto fornito fosse o meno una “cipolla di Tropea”, costituiva il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno invocato dall’acquirente. In base al principio dell’onere della prova, era proprio l’acquirente a dover allegare e dimostrare tale difformità. Non avendolo fatto, e non avendo provato che tale circostanza fosse “incontestata”, correttamente il giudice di primo grado aveva disposto una CTU per accertare la natura del prodotto. La CTU non ha esteso illegittimamente il proprio accertamento, ma ha risposto a un quesito finalizzato proprio a verificare il presupposto della domanda risarcitoria. Il ricorso, pertanto, si è tradotto in una critica alla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, una critica non ammissibile in Cassazione.

Le conclusioni

La decisione riafferma con forza due principi fondamentali. Primo, chi lamenta un vizio della fornitura ha l’onere della prova, deve cioè dimostrare con prove concrete la difformità del bene ricevuto rispetto a quello pattuito. Secondo, il ricorso per cassazione non è un terzo grado di giudizio dove si possono ridiscutere le prove e i fatti. Tentare di farlo, mascherando la critica nel merito come una violazione di legge, porta all’inammissibilità del ricorso. Tale condotta processuale può inoltre costare cara: la parte ricorrente è stata infatti condannata non solo al pagamento delle spese legali, ma anche al risarcimento dei danni per lite temeraria e al versamento di una somma alla Cassa delle ammende, a testimonianza della gravità di un uso improprio degli strumenti processuali.

In una causa per vizi della fornitura, chi deve dimostrare che il prodotto è difettoso?
Secondo la Corte, l’onere della prova del difetto del prodotto grava sull’acquirente che lamenta l’inadempimento. È suo compito dimostrare i fatti che costituiscono il fondamento della sua richiesta di risarcimento.

È possibile contestare la valutazione delle prove, come una perizia tecnica, nel ricorso in Cassazione?
No, di regola non è possibile. Il ricorso per cassazione serve a controllare la corretta applicazione della legge (giudizio di legittimità), non a riesaminare le prove e i fatti (giudizio di merito). Criticare la ricostruzione dei fatti operata dai giudici sulla base di una CTU equivale a chiedere un riesame nel merito, che è inammissibile.

Cosa rischia chi propone un ricorso in Cassazione ritenuto inammissibile?
Oltre alla condanna al pagamento delle spese legali della controparte, se il ricorso viene ritenuto infondato e proposto con colpa grave, la parte può essere condannata al risarcimento dei danni per lite temeraria (art. 96 c.p.c.) e al pagamento di una somma alla Cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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