Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8073 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8073 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 9111-2024 proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3759/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/12/2023 R.G.N. 3132/2021;
Oggetto
RISARCIMENTO
DEL DANNO
R.G.N.9111/2024
COGNOME
Rep.
Ud.12/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha accolto le domande risarcitorie proposte dalla società RAGIONE_SOCIALE nei confronti del proprio dipendente NOME COGNOME per violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza.
La Corte territoriale ha, in sintesi, sottolineato che il quadro probatorio acquisito dimostrava sia le competenze del dipendente in ordine alla gestione della cassa e la sua possibilità di effettuare bonifici operando direttamente sul conto corrente della società e il possesso, da parte di quest’ultimo, della carta di credito aziendale sia i numerosi episodi di pagamento di somme non autorizzate e di fatture per servizi di assistenza e gestione contabile mai ricevuti dalla società, nonché di uso della carta aziendale per acquisiti personali, di prelievi non giustificati, episodi confermati, altresì, dall’assoluta genericità delle allegazioni difensive del De Marco. 3. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a un motivo. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo ed unico motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697c.c. e 416 c.p.c. avendo, la Corte territoriale, ritenuto di fondare l’esito del giudizio su meri indizi, non potendosi ritenere provato il credito risarcitorio vantato dalla società in base alla mera genericità delle
contestazioni effettuate dal COGNOME nella memoria di costituzione in giudizio.
La censura formulata come violazione o falsa applicazione di legge mira in realtà alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità
2.1. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Inoltre, la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella sentenza impugnata non è in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio.
In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in applicazione del criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 12 febbraio