Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 2478 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 2478 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4392/2022 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME unitamente agli avvocati COGNOME NOMECOGNOME NOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO ROMA n. 5378/2021 depositata il 20/07/2021; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/12/2024
dal Consigliere NOME COGNOME:
Rilevato che
la RAGIONE_SOCIALE ricorre, sulla base di tre motivi, avverso la sentenza n. 5378 del 2021 della Corte di appello di Roma, esponendo, per quanto ancora qui di utilità, che:
-aveva concluso con RAGIONE_SOCIALE, poi divenuta RAGIONE_SOCIALE, un contratto denominato master dealer , in base al quale si era impegnata a intraprendere una collaborazione commerciale con erogazione di servizi e vendita di prodotti di telefonia mobile per conto della RAGIONE_SOCIALE, a fronte della fornitura di materiale necessario per l’espletamento dell’attività;
-il rapporto era proseguito sino al 13 dicembre 2007 quando aveva ricevuto comunicazione della volontà di controparte di recedere dal contratto;
-nonostante nella missiva fosse stato indicato che il recesso sarebbe stato operativo decorsi sei mesi dalla comunicazione, personale della TIM, a ridosso della stessa comunicazione, si era sùbito recato presso la sede della deducente procedendo all’asporto del materiale necessario per lo svolgimento dei servizi aziendali;
-ai sensi dell’articolo 18.2 del contratto ognuna delle parti era libera di recedere, ma con obbligo di preavviso dalla durata variabile in relazione a quella del rapporto negoziale e con il limite massimo di sei mesi, con obbligo di versare altrimenti un indennizzo calcolato sulla base dei compensi mensili maturati negli ultimi tre anni della relazione negoziale ovvero, in caso di durata inferiore, dall’inizio del rapporto;
-aveva quindi convenuto la società TIM per ottenerne la condanna al pagamento dell’indennizzo;
-il Tribunale aveva rigettato la domanda osservando che la pattuizione dell’indennizzo era come tale diversa da quella di una clausola penale o multa penitenziale, sicché lo stesso doveva ritenersi dovuto solo in caso di pregiudizio arrecato alla controparte, nell’ipotesi assente;
-in ogni caso, anche volendo intendere l’obbligo di pagamento dell’indennizzo come svincolato dalla sussistenza di qualsiasi pregiudizio, lo stesso non poteva essere riconosciuto in quanto il consulente tecnico di ufficio, nominato nel corso del giudizio, aveva spiegato di non aver potuto ricostruire la contabilità della società deducente a causa delle carenze documentali che, in particolare, non avevano consentito di determinare i compensi mensili maturati dalla parte attrice negli ultimi tre anni, restando così da disattendere anche la richiesta di quantificare l’indennizzo stesso in via equitativa ma, in realtà, arbitrariamente elusiva degli oneri istruttori;
-La Corte di appello aveva disatteso il gravame osservando, in specie, che:
-la parte istante e appellante aveva omesso di depositare il proprio fascicolo di parte del primo grado di giudizio, e il potere del giudice di seconde cure di ordinare alla parte di produrre la copia di determinati documenti già esibiti nel precedente grado era da ritenersi limitata all’ipotesi di impugnazione contro sentenze parziali, diversamente dovendo evincersi, dalla condotta processuale de qua , l’opzione della parte di non avvalersi di quelli;
-in base alla ragione più liquida, doveva constatarsi la portata dirimente della seconda ratio decidendi fatta propria dal Tribunale, relativa all’impossibilità di determinare correttamente l’indennizzo per la mancanza della documentazione contabile relativa all’annualità compresa tra novembre 2004 e novembre 2005;
-difatti, ferma l’inammissibilità di ogni produzione tardiva di prove documentali concernenti i fatti posti direttamente a
fondamento della domanda, sarebbe stato possibile estendere le operazioni peritali all’esame di documenti ulteriori solo quando accessori ovvero utili a consentire solo una risposta più esauriente ai quesiti;
-era da confermare anche l’impossibilità di procedere a liquidazione equitativa che aveva come presupposto l’impossibilità o la particolare difficoltà di provare il danno ovvero la pretesa nel suo preciso ammontare; resiste con controricorso TIM s.p.a.; le parti hanno depositato memorie;
Rilevato che
con il primo motivo si prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che l’indennizzo poteva quantificarsi comunque rispetto al fatturato di due anni, non essendo comprensibile il riferimento, contenuto nella sentenza gravata, alla circostanza che avrebbero potuto esservi fatture negative ovvero note di credito incisive riguardo al computo da diminuire così in modo non altrimenti determinabile, fermo rimanendo che, semmai, la mancata dimostrazione dei compensi relativi all’anno mancante avrebbe, in tesi, potuto portare solo a un conteggio di compensi pari a zero e non, pertanto, al rigetto della domanda;
con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 1227 cod. civ., poiché la Corte d’appello avrebbe errato omettendo di pronunciarsi sul motivo, davanti a essa proposto, volto alla qualificazione della pattuizione contrattuale sull’indennizzo in termini di clausola penale ovvero comunque scollegata dalla necessità di provare specificatamente un pregiudizio, con riflessi sulla possibilità di determinazione equitativa in via integrativa dell’indennizzo stesso;
con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 72, 77, 123-bis disp. att. cod. proc. civ., 116, 345 e 347
cod. proc. civ., perché la Corte d’appello avrebbe errato non considerando che non era stato annotato un ritiro del fascicolo di parte, mentre avrebbe potuto e dovuto rilevare l’assenza nel relativo fascicolo di parte, per causa non imputabile all’allora appellante, di documenti essenziali alla decisione, ovvero proprio quelli relativi ai compensi dell’anno ritenuto carente di prova, che infatti erano stati esibiti al momento della costituzione in giudizio, come da documento n. 4 del fascicolo di primo grado;
Considerato che:
il terzo motivo di ricorso, da esaminare prioritariamente per ragioni logiche, è inammissibile;
è stato chiarito che, « affinché il giudice di appello possa procedere all’autonomo e diretto esame del documento già prodotto in formato cartaceo nel giudizio di primo grado, onde dare risposta ai motivi di impugnazione o alle domande ed eccezioni riproposte su di esso fondati, il documento può essere sottoposto alla sua attenzione, ove non più disponibile nel fascicolo della parte che lo aveva offerto in comunicazione (perché ritirato e non restituito, o perché questa è rimasta contumace in secondo grado), mediante deposito della copia rilasciata alle altre parti a norma dell’art. 76 disp. att. cod. proc. civ., semmai … sulla base dell’ordine in tal senso imposto dal giudice all’atto del ritiro effettuato avvalendosi della facoltà di cui agli artt. 169 cod. proc. civ. e 77 disp. att. cod. proc. civ. Il giudice di appello può inoltre porre a fondamento della propria decisione il documento prodotto in formato cartaceo non rinvenibile nei fascicoli di parte apprezzandone il contenuto che sia trascritto o indicato nella decisione impugnata, o in altro provvedimento o atto del processo. Dovendosi negare, inoltre, che la permanente portata dimostrativa nel giudizio di appello di uno o di determinati documenti acquisiti in primo grado discenda dalla scelta delle parti di volersi avvalere del relativo effetto probatorio, può ritenersi consentito al giudice di secondo grado, eventualmente
aperto un preventivo contraddittorio, di ordinare la produzione dei medesimi documenti, in copia o in originale, se lo ritiene necessario, a modello di quanto del resto stabilito dall’art. 123 -bis disp. att. cod. proc. civ.., per l’impugnazione di sentenza non definitiva, valutando la mancata esibizione, senza giustificato motivo, come comportamento contrario al dovere di lealtà e probità » (Cass., Sez. U., 16/02/2023, n.4835, pagg. 24 e seguenti);
in altri termini, « il principio di ‘non dispersione (o di acquisizione) della prova’, operante anche per i documenti – prodotti sia con modalità telematiche che in formato cartaceo -, comporta che il fatto storico in essi rappresentato si ha per dimostrato nel processo, costituendo fonte di conoscenza per il giudice e spiegando un’efficacia che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, né può dipendere dalle successive scelte difensive della parte che li abbia inizialmente offerti in comunicazione » (Cass., Sez. U., n. 4835/2023, cit., pag. 25);
non è corretta, quindi, l’affermazione della Corte di appello in ordine all’impossibilità di ordinare la produzione di documenti acquisiti in prime cure, che non risultino peraltro ritirati, e di cui la parte stia dunque chiedendo di avvalersi, ritenendolo limitato all’ipotesi d’impugnazione di sentenze parziali, altrimenti dovendo ritenersi sussistere, in quella prospettiva, una volontà di rinuncia della stessa parte interessata;
ciò nondimeno, deve trattarsi di documenti, come detto, ritualmente acquisiti, e in questa sede, allora, parte ricorrente avrebbe dovuto dimostrare tale acquisizione, ovvero la presenza della documentazione contabile o fiscale di cui si tratta, corrispondente, per quanto allegato, alle fatture 2004-2005;
ciò non è avvenuto con la sola affermazione generica contenuta a pag. 4 (2° capoverso) del ricorso, senza neppure la specificazione del contenuto dell’asserita documentazione;
sul punto, al contempo, risulta la specifica contestazione a pag. 9, § b.2.1., del controricorso, in cui si afferma che «il doc. n. 4 di parte attrice … inizia con la fattura n. 3210/6040 del 19.12.2006, sulla quale peraltro, in alto a destra, è apposto, a penna, il numero 4»;
la censura è pertanto aspecifica e carente di capacità concludente; passando allora al primo motivo, questo è parzialmente fondato; la Corte di appello, con irresolubile contraddizione, in concreto dedotta sia pure nell’ottica formale delle ricadute in termini di onere probatorio, ha negato ogni fondamento della domanda attorea pur avendo a disposizione la documentazione di due dei tre anni previsti dalla pattuizione contrattuale, senza spiegare perché, nella stessa logica, nell’effettuare la quantificazione relativa al triennio non avrebbero potuto computarsi come pari a zero i compensi dell’anno mancante ; e a nulla rileva l ‘astratta congettura dell’esistenza di note di credito (fatture negative), poiché avrebbe dovuto essere la parte convenuta ad allegare, prima che dimostrare, un tale fatto logicamente modificativo ovvero impeditivo;
il secondo motivo è sostanzialmente assorbito dal primo;
infatti la Corte di appello, senza esorbitare dal tema devoluto alla decisione (cfr. Cass., 3/11/2023 n. 30507), ha risolto la decisione sulla natura della clausola contrattuale relativa a ll’indennizzo non ritenendo raggiunta la prova necessaria ad applicarla come richiesto dall’attrice , come sopra si è appena visto, immotivatamente reputando che la carenza di ricostruzione di un anno rendesse irrilevante quanto avvenuto negli altri due;
è comunque opportuno ben chiarire (cfr. Cass., 29/04/2022 n. 13515) che il potere di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., costituisce espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., e che il suo esercizio rientra nel potere/dovere del giudice di merito senza
necessità di una specifica richiesta di parte, dando luogo a un giudizio di diritto di equità giudiziale correttiva o integrativa: ciò naturalmente con il limite di non attribuire al giudice un fondamentale onere dei litigatores , ovvero consentirgli di surrogare mediante il poliedrico strumento equitativo un inequivocamente imputabile inadempimento degli oneri istruttori di parte, dovendosi invece reputare che ad avviare all’utilizzo corretto dell’equità è l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del danno anche in senso relativo e dovendo quindi ritenersi sufficiente, a tal fine, pure un’apprezzabile difficoltà probatoria, costituente casi in cui non risulta consentita, al giudice del merito, una declinatoria dal suo potere/dovere che si tradurrebbe in un inammissibile non liquet ; la sentenza impugnata va dunque cassata per quanto di ragione, con rinvio, anche per le spese processuali, alla stessa corte territoriale in diversa sezione e diversa composizione;
P.Q.M.
accoglie per quanto di ragione il primo motivo, assorbito il secondo, inammissibile il terzo, cassa in relazione la decisione impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 17/12/2024.