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Onere della prova: buste paga non firmate e contratto

La Corte di Cassazione conferma la condanna di un datore di lavoro al pagamento di differenze retributive. Il caso verte sull’onere della prova: le buste paga prodotte dal datore, ma non firmate dal lavoratore, non sono state ritenute prova sufficiente dell’avvenuto pagamento. La Corte ha stabilito che il lavoratore ha correttamente assolto al suo onere della prova dimostrando l’esistenza del rapporto di lavoro, mentre il datore di lavoro non è riuscito a provare di aver corrisposto l’intera retribuzione dovuta. Respinto anche il ricorso basato su una presunta domanda riconvenzionale per canoni di locazione, ritenuta inammissibile.

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Onere della prova nel Lavoro: Buste Paga non Firmate non Bastano

In una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale nel diritto del lavoro: l’onere della prova del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro. La semplice produzione di buste paga non firmate dal dipendente non è sufficiente a dimostrare l’effettivo adempimento dell’obbligazione retributiva. Analizziamo questa importante decisione e le sue implicazioni pratiche.

Il caso: differenze retributive e prove di pagamento

Un lavoratore, impiegato per la manutenzione di una piscina e la cura di animali, citava in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il pagamento di differenze retributive non corrisposte. Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello accoglievano la domanda del lavoratore, riconoscendogli il diritto a quanto richiesto.

La difesa del datore di lavoro si basava, tra le altre cose, sulla produzione di buste paga. Tuttavia, queste non recavano la firma del dipendente per quietanza. I giudici di merito, pertanto, le hanno considerate insufficienti a provare l’avvenuto pagamento, confermando la posizione del lavoratore.

I motivi del ricorso e l’analisi sull’onere della prova

Il datore di lavoro ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse questioni. Il fulcro del ricorso era, ancora una volta, l’onere della prova. Secondo il ricorrente, il lavoratore non aveva adeguatamente dimostrato i fatti a fondamento della sua pretesa. Inoltre, lamentava la mancata ammissione di alcune prove e un presunto vizio di ultrapetizione della sentenza d’appello riguardo all’orario di lavoro.

La Suprema Corte ha respinto tutti i motivi del ricorso, ritenendoli infondati o inammissibili. In particolare, ha chiarito che il lavoratore aveva correttamente soddisfatto il proprio onere probatorio, dimostrando l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. A quel punto, spettava al datore di lavoro dimostrare di aver pagato integralmente la retribuzione, prova che non è stata fornita in modo adeguato.

La questione della domanda riconvenzionale

Un altro punto interessante riguardava una domanda riconvenzionale presentata dal datore di lavoro per ottenere il pagamento di canoni di affitto per l’alloggio fornito al dipendente. Anche questa domanda era stata respinta nei gradi di merito per mancanza di prova di un contratto di locazione. In Cassazione, la Corte ha sottolineato che il contratto era stato prodotto tardivamente solo in appello, rendendone inammissibile l’esame. Inoltre, il fatto che il lavoratore beneficiasse di ospitalità era già stato considerato nel calcolo delle somme dovute, escludendo l’indennità di alloggio.

Le motivazioni della Corte

La Corte di Cassazione ha motivato la sua decisione sulla base di principi consolidati. In primo luogo, ha affermato che l’onere di provare l’avvenuto pagamento della retribuzione grava sempre sul datore di lavoro. Le buste paga, se non sottoscritte dal lavoratore con una formula che ne attesti l’avvenuto pagamento (la cosiddetta quietanza), non costituiscono prova liberatoria. In secondo luogo, i giudici hanno ribadito che la valutazione delle prove è un compito riservato al giudice di merito e non può essere riesaminata in sede di legittimità, se non in presenza di vizi logici o giuridici manifesti, qui assenti. Infine, la Corte ha confermato la correttezza del rigetto della domanda riconvenzionale, sia per la tardività della produzione documentale sia perché il vantaggio dell’alloggio era già stato considerato, seppur in altra forma, nella determinazione delle spettanze del lavoratore.

Le conclusioni

Questa ordinanza offre importanti spunti pratici. Per i datori di lavoro, emerge la necessità cruciale di ottenere sempre una quietanza firmata dal dipendente all’atto del pagamento della retribuzione, specialmente se questo avviene in contanti. La sola preparazione della busta paga non è sufficiente. Per i lavoratori, la decisione conferma che, una volta provata l’esistenza del rapporto di lavoro, la palla passa al datore per dimostrare di aver adempiuto ai propri obblighi retributivi. La sentenza sottolinea infine il rigore delle regole processuali, che impediscono di introdurre nuove prove, come un contratto, per la prima volta in appello, a meno di circostanze eccezionali.

Una busta paga non firmata dal lavoratore costituisce prova del pagamento della retribuzione?
No. Secondo la decisione in esame, le buste paga prodotte dal datore di lavoro ma non firmate dal dipendente non sono considerate prova sufficiente del pagamento, il cui onere ricade sul datore stesso.

Su chi grava l’onere della prova del pagamento dello stipendio in una causa di lavoro?
L’onere della prova è ripartito: il lavoratore deve dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro e le mansioni svolte, mentre spetta al datore di lavoro provare di aver corrisposto integralmente la retribuzione dovuta.

È possibile presentare un documento come prova per la prima volta nel giudizio di appello?
Di norma no. La Corte ha ritenuto inammissibile la produzione di un contratto di locazione per la prima volta in appello, confermando che le prove devono essere presentate nel primo grado di giudizio, salvo eccezioni previste dalla legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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