Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23147 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23147 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/08/2025
1.La Corte di Appello di Bari ha rigettato il gravame proposto da NOME COGNOME (dipendente della AUSL BA/5 presso il presidio ospedaliero di Conversano con mansioni di collaboratrice professionale sanitaria/infermiera professionale), avverso la sentenza del Tribunale di Bari, che aveva respinto le sue domande, volte ad accertare l’insussistenza di un debito orario nei confronti della AUSL BA/5, ad ottenere la sospensione immediata delle trattenute stipendiali e la condanna dell’Azienda al rimborso delle trattenute effettuate in suo danno.
La COGNOME aveva dedotto di avere ricevuto in data 30.9.1999 dalla Direzione Generale della AUSL BA/5, Ufficio Rilevazioni Presenze, una contestazione di debito orario di 324 ore accumulato fino al mese di agosto 1999 e da recuperare entro il mese di settembre 2000 mediante conversione ferie o con orario da prestare in aggiunta all’ordinario orario di servizio; di avere diffidato l’Azienda dall’operare eventuali trattenute stipendiali e/o detrazioni di ferie in quanto il presunto debito orario (mai contestato) non era dovuto e di avere ricevuto in data 5.6.2002 dal Dirigente dell’Area Gestione del Personale, un’ulteriore comunicazione con la quale le era stato contestato che il debito orario, a seguito di una revisione degli orari di servizio relativi al periodo 1.1.1995/31.12.2001 non era di 324 ore, ma di 240 ore e che a partire da giugno 2002 l’Azienda avrebbe trattenuto mensilmente dalle buste paga l’importo di € 53,10 per 48 mesi.
Aveva inoltre lamentato che la RAGIONE_SOCIALE non aveva mai indicato con esattezza a quali periodi si riferisse il debito orario, la ragione per la quale tale debito era stato ridotto da 324 ore a 240 ore, né i criteri di calcolo adottati per stabilire in € 2548,80 l’importo da restituire, né aveva fatto rilevare sulle buste paga mensili l’accumulo del debito orario, che doveva essere tempestivamente portato a conoscenza della lavoratrice o comunque contestato con le buste paga mensili.
Richiamato il disposto dell’art. 2033 cod. civ., il giudice di appello ha rilevato che i tabulati di rilevazione delle presenze, ancorché indicati nell’indice,
allegati al fascicolo di parte della ASL BA e posti a fondamento della decisione dal giudice di primo grado, non erano più presenti in detto fascicolo; all’udienza del 15.1.2019 la Corte territoriale ha dunque ordinato alla ASL di allegare i suddetti tabulati.
Ha rilevato che all’udienza del 9.10.2019, il Dirigente del Distretto Socio Sanitario di Conversano aveva dichiarato di non essere più in possesso dei tabulati cartacei e che nemmeno la COGNOME, che con il ricorso in appello li aveva contestati, aveva provveduto al loro deposito, ancorché ne avesse ricevuto copia in data 5.6.2002; non aveva pertanto potuto verificare la fondatezza del gravame proposto dalla COGNOME.
Ha applicato il principio espresso da questa Corte, secondo cui l’appellante è tenuto a fornire la dimostrazione delle proprie censure, e secondo cui è onere dell’appellante, quale che sia stata la posizione da lui assunta nella precedente fase processuale, produrre o ripristinare in appello se già prodotti in primo grado, i documenti su cui basa il proprio gravame., o comunque attivarsi perché questi documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, senza che gli stessi possano essere qualificati come ‘nuovi’ agli effetti dell’art. 345 cod. proc. civ.
Ha aggiunto che la lavoratrice non aveva fornito alcuna prova in ordine al regolare assolvimento del suo servizio e all’insussistenza del debito orario, essendo le buste paga allegate al fascicolo di parte primo grado inidonee a comprovare che la COGNOME, nel periodo oggetto di causa, non avesse effettuato alcuna assenza che potesse comportare costituzione di un debito orario.
Ha richiamato i principi secondo cui il recupero di somme indebitamente erogate dalla Pubblica Amministrazione ai suoi dipendenti costituisce un comportamento doveroso, al quale non è di ostacolo la buona fede dell’ accipiens , atteso che il profilo soggettivo rileva soltanto per la restituzione dei frutti e degli interessi; le situazioni di affidamento e di buona fede del percipiente rileverebbero ai soli fini delle modalità con cui il recupero deve essere effettuato, non dovendo incidere in modo eccessivamente oneroso sulle esigenze di vita del dipendente.
Ha ritenuto che la doverosità del recupero delle somme erroneamente corrisposte esclude che l’Amministrazione sia tenuta a fornire una specifica motivazione, essendo sufficiente che vengano indicate le ragioni per le quali il dipendente non aveva diritto a quelle somme; ha comunque rilevato che la ASL BA con la comunicazione del 5.6.2002 aveva motivato in maniera idonea le ragioni del recupero, imputando le trattenute al debito orario ed ha evidenziato che tale voce compare anche nelle buste paga consegnate alla dipendente.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
L’Azienda Sanitaria Locale di Bari è rimasta intimata.
DIRITTO
1.Con il primo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 111 Cost, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale indebitamente invertito l’onere della prova.
Sostiene che incombeva sull’Amministrazione fornire in giudizio la prova del suo diritto, contestato dalla lavoratrice, producendo i tabulati delle presenze giornaliere della Ramunni, che avrebbero indicato con precisione giorno e ora delle sue prestazioni orarie.
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte della ASL a seguito dell’ordinanza della Corte di Appello, tale onere dovesse essere assolto dalla lavoratrice.
Evidenzia che nel giudizio di primo grado i tabulati erano stati prodotti dall’Amministrazione, e non dalla lavoratrice, e che costituivano l’unica prova per sostenere le ragioni dei comportamenti datoriali.
2. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha da tempo affermato (v. Cass. n. 1462/2013; Cass. n. 11797/2016; Cass. n. 1628/2018; Cass. n. 40606/2021) che grava sull’appellante l’onere di ripristinare i documenti su cui si fonda la censura, o di attivarsi perché tali documenti possano essere sottoposti al giudice di appello, in quanto l’appello suppone una ‘revisio’ fondata sulla denuncia di specifici ‘vizi’
di ingiustizia o di nullità della sentenza impugnata con la conseguenza che è onere dell’appellante, quale che sia stata la sua posizione processuale nella precedente fase, ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti su cui egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi anche avvalendosi della facoltà ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ. di farsi rilasciare dalla cancelleria copia degli atti del fascicolo delle altre parti, affinché tali documenti possano essere sottoposti all’e same del giudice di appello, per cui egli subisce le conseguenze della mancata restituzione del fascicolo dell’altra parte, quando questo contenga documenti a lui favorevoli che non ha avuto cura di produrre in copia e che il giudice di appello non ha avuto quindi la possibilità di esaminare.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno in particolare precisato che ‘tenuto conto dell’odierna, sopra delineata, configurazione del giudizio di appello, i criteri di riparto probatorio desumibili dalle norme generali di cui all’art. 2697 c.c. vanno sì applicati, ma non nella tradizionale ottica sostanziale, bensì sotto il profilo processuale, in virtù del quale l’appellante, in quanto attore nell’invocata revisio, a dover dimostrare il fondamento della propria domanda, deducente l’ingiustizia o invalid ità della decisione assunta dal primo giudice, onde superare la presunzione di legittimità che l’assiste ‘; hanno poi osservato che, per quanto riguarda specificamente alle prove documentali ‘ materializzate nelle produzioni di parte, nei casi in cui il giudice di appello, per l’inerzia della parte interessata e tenuta alla relativa allegazione, non sia stato in grado di riesaminarle, le stesse, ancorché non materialmente più presenti in atti ( per la contumacia dell’appellato o per l’insindacabile scelta del medesimo di non più produrle), continuano tuttavia a spiegare la loro efficacia, nel senso loro attribuito dalla sentenza emessa dal primo giudice, la cui presunzione di legittimità non risulta superata per fatto ascrivibile all’appellante. Questi, rimast o inerte, pur disponendo di un adeguato mezzo processuale (la richiesta di cui all’art. 76 disp. att. c.p.c.) per prevenire la sovraesposta situazione di carenza documentale, deve considerarsi soccombente, in virtù del principio, desumibile dall’art. 2697 c.c., secondo cui actore non probante, reus absolvitur (Cass. S.U. n. 3033/2013).
Si è in particolare evidenziato che nel vigente sistema processualcivilistico opera il principio di acquisizione della prova, in forza del quale un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, è definitivamente acquisito alla causa e non può più esserle sottratto, dovendo il giudice utilizzare le prove raccolte indipendentemente dalla provenienza delle stesse dalla parte gravata dall’onere probatorio
Si è pertanto escluso che la dimostrazione dei fatti posti dalle parti a fondamento delle rispettive deduzioni debba essere ricavata solo dalle prove offerte da quella gravata del relativo onere probatorio secondo i principi dettatati dall’art. 2697 co d. civ.; è onere dell’appellante, quale che sia stata la sua posizione processuale nella precedente fase, ripristinare in appello, se già prodotti in primo grado, i documenti su cui egli basa il proprio gravame o comunque attivarsi anche avvalendosi della facoltà ex art. 76 disp. att. cod. proc. civ. di farsi rilasciare dalla cancelleria copia degli atti del fascicolo delle altre parti, affinché tali documenti possano essere sottoposti all’esame del giudice di appello, e questo non implica una sorta di inve rsione dell’onere della prova, ma l’onere dell’appellante di attivarsi ai sensi dell’art. 76 disp. att. cod. proc. civ. per farsi rilasciare dal cancelliere copia degli atti del fascicolo delle altre parti, e ciò al fine di conferire specificità ai motivi di appello ex art. 342, primo comma, cod. proc. civ.
La sentenza impugnata, che a fronte del mancato ripristino dei tabulati di rilevazione delle presenze inseriti nel fascicolo di primo grado della ASL ha ritenuto indimostrata la fondatezza del gravame, è dunque conforme a tali principi.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. artt. 115 e 116 cod. proc. civ., dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 111 Cost, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ.
Addebita alla Corte territoriale l’omesso esame dei tabulati, costituenti un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti.
La censura è inammissibile, in quanto non coglie il decisum .
La Corte ha rilevato che la COGNOME, sulla base della giurisprudenza su citata, non aveva adempiuto all’onere di ripristinare i tabulati di rilevazione delle
presenze (da cui , secondo l’assunto della ricorrente, sarebbe emersa la prova della insussistenza di un suo debito orario) ed ha quindi dato atto dell’impossibilità di verificare la fondatezza del gravame, ‘in quanto radicato sui tabulati di rilevazione delle presenze inseriti nel fascicolo di primo grado della ASL e non riprodotti in appello’ (pag. 5 della sentenza).
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., nonché dell’art. 4 della legge n. 4/1953 2697, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.
Evidenzia che l’Amministrazione è tenuta a rispettare i canoni della correttezza e della buona fede.
Richiama la nota del 30.9.1999, con cui alla COGNOME era stato contestato un debito orario per 324 ore, consunto a tutto il mese di agosto 1999, senza chiarire in quali giorni ed in quali periodi il debito sarebbe stato consunto; evidenzia che a fronte dei chiarimenti richiesti dalla COGNOME nelle date del 22.12.1999 e 27.11.2001, solo il 5.6.2002 la ASL le aveva comunicato di avere operato un’ulteriore revisione degli orari di servizio nel periodo 1.1.1995 -31.12.2001 secondo le annotazioni riportate dall’ufficio sul tabulato allegato, operan do d’imperio sulla retribuzione della ricorrente una trattenuta mensile a titolo di recupero del presunto debito orario.
Lamenta che la revisione aveva spostato il periodo dall’agosto 1999 al 31.12.2001 con una riduzione del debito orario da 324 a 240 ore e che le trattenute erano state effettuate da giugno 2002 a settembre 2005, a distanza di anni dal debito orario; evidenzia che la revisione di orario denotava la mancanza di correttezza e buona fede, non rilevata dalla Corte territoriale, nonostan te il richiamo contenuto nell’atto di appello.
Aggiunge che il prospetto di cui all’art. 1 legge n. 4/1953 deve indicare tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, comprese le singole trattenute e le relative cause.
Sostiene che a fronte della mancata prestazione lavorativa, l’Amministrazione era tenuta a chiedere chiarimenti o ad avviare un procedimento disciplinare, e che in ragione degli obblighi di bilancio di natura pubblicistica, non può corrispondere retribuzioni per prestazioni non rese.
6. Il motivo è inammissibile.
Dalla sentenza impugnata risulta che il Tribunale aveva ritenuto provato il debito orario attraverso i tabulati di rilevazione delle presenze, relativi al periodo dal 1.1.1995 al 31.12.2001 e contenenti l’indicazione, mese per mese, dei saldi orari della Ramunni, con la precisazione dei debiti quotidianamente, mensilmente e annualmente accumulati.
A fronte di questa puntuale ricostruzione, ha dato atto dell’assenza di elementi contrari, dimostranti il regolare assolvimento del servizio da parte della ricorrente ovvero l’insussistenza del debito orario, ritenendo peraltro irrilevanti le buste paga allegate al fascicolo di parte di primo grado in quanto esse non riguardavano il periodo oggetto di contestazione (1.1.1995-31.12.2001), ma il periodo in cui erano state effettuate le trattenute sullo stipendio della dipendente da parte dell’Azienda (maggio 2002 -ottobre 2005).
Ha inoltre ritenuto l’irrilevanza della buona fede dell’ accipiens a fronte dell’erogazione avvenuta sine titulo ed ha evidenziato che la ASL BA con la comunicazione del 5.6.2002 aveva motivato in maniera idonea le ragioni del recupero, imputando le trattenute al debito orario (voce che compare anche nelle buste paga consegnate alla dipendente), con rateizzazione mensile (€ 53,10 per 48 mesi); ha pertanto rilevato che l’obbligazione restitutoria a carico della dipendente era stata dunque diluita e resa sostenibile.
La censura, nel denunciare la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede da parte dell’Amministrazione, non si confronta con tali statuizioni e non assolve compiutamente agli oneri di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. , in quanto non trascrive gli atti su cui si fonda (contestazioni, richiesta di chiarimenti e buste paga).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Nessuna statuizione va adottata sulle spese di lite, in quanto la ASL di Bari non ha svolto attività difensiva.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della