Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 22551 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 22551 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
Oggetto
Differenze retributive
R.G.N.19656/2021
COGNOME
Rep.
Ud.08/04/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 19656-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 379/2021 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 17/06/2021 R.G.N. 11/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di L’Aquila rigettava l’appello proposto da NOME COGNOME contro la sentenza del Tribunale di Teramo n. 4610/2020, che aveva accertato e dichiarato che l’attrice NOME COGNOME aveva prestato attività lavorativa di natura subordinata, a tempo pieno, alle dipendenze del COGNOME dall’1 giugno 1999 al 31 dicembre 2015, con mansioni di cuoca inquadrabili al livello 4 del CCNL per i dipendenti di aziende del settore turismo e, per l’e ffetto, aveva condannato il convenuto a corrispondere alla ricorrente la somma complessiva di € 271.836,00, di cui € 253.713,60 a titolo di differenze retributive da retribuzione ordinaria, 13^ e 14^ mensilità, ed € 18.122,40 quale TFR, oltre interessi legali e rivalutazione dalla maturazione dei crediti al saldo, e oltre alla regolarizzazione contributiva.
La Corte territoriale giudicava infondato il primo motivo di gravame, con il quale l’appellante denunciava la parziale inammissibilità della prova orale.
2.1. Riferiva la Corte che, con il secondo ed il terzo motivo, che per la loro evidente connessione esaminava congiuntamente, l’appellante censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto sussistente un continuativo ed ininterrotto rapporto di lavoro subordinato tra le parti, nell’intero periodo dal 1999 al 2015, ma riteneva infondate anche tali doglianze.
Reputava infondata anche la doglianza con la quale l’appellante sosteneva, quanto alle mansioni, che ‘dall’istruttoria, è risultato siano state svolte mansioni di aiuto cuoca, compartecipando la COGNOME, al più in cucina alla
preparazione dei piatti ma, invero, per lo più adibita al rassetto e alla sistemazione del locale cucina e della sala, con compiti di carattere assolutamente routinario’; inoltre, accertava anche l’orario di lavoro osservato dalla dipendente, rilevando, tr a l’altro, la totale assenza di una prova scritta dell’assunzione in regime di part-time verticale, dedotta dall’appellante.
La Corte giudicava infondato anche il quarto motivo di gravame, con il quale l’appellante censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto non contestati i conteggi prodotti dalla lavoratrice.
Infine, riteneva infondato anche l’ultimo motivo, con il quale l’appellante censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva disatteso la sua eccezione di prescrizione, per il decorso del relativo termine quinquennale ex art. 2948 n. 4 e n. 5 c.c.
Avverso tale decisione NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e successiva memoria.
L’intimata resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia: ‘ error in iudicando in relazione all’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2094 e 2103 c.c., per avere, la Corte di merito, riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso fra le parti come a tempo a tempo pieno ed indeterminato e per una durata, senza interruzione, di circa 16 anni, in assenza di prova della sussistenza di tutti gli elementi necessari e sufficienti alla
qualificazione del rapporto come subordinato ed in presenza di periodi interruttivi dell’attività lavorativa (assenza di continuità temporale), a seguito di acquisizione probatoria fornita da entrambe le parti del giudizio, violando il principio di riparto dell’onere probatorio tra lavoratore e datore di lavoro’.
Con il secondo motivo denuncia: ‘ error in iudicando in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c. per omesso esame su un punto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, ed in particolare per omesso esame della documentazione versata in atti, per avere, la Corte di Appello di L’Aquila, o messo di valutare ai fini del giudizio tutti gli atti e documenti confluiti nel procedimento, limitandosi, per quanto preannunciato al punto che precede, a stabilire l’asserita sussistenza di un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato della durata ventennale senza soluzione di continuità’.
Con il terzo motivo denuncia: ‘ error in procedendo ed in iudicando in relazione all’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione anche alla Legge 9 marzo 1989, n. 54, per aver disatteso le cosiddette prove legali acquisite in giudizio’.
Con il quarto motivo denuncia: ‘ error in procedendo ed in iudicando in relazione all’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 167 e 416 c.p.c., e 111, comma II, Cost., art. 6 CEDU e del principio di non contestazione come noto gravante su entrambe le parti del giudizio per averlo applicato in maniera erronea nei confronti dell’allora parte resistente e per non avere, comunque, la Corte d’Appello di L’Aquila, come il Tribunale di Teramo, applicato il
citato principio anche alla controparte facendone, dunque, un uso distorto solo in danno del signor COGNOME.
5. Il primo motivo è inammissibile.
Difatti, nota il Collegio che tale censura -al di là del promiscuo ed indistinto riferimento in rubrica ai differenti mezzi di cui ai nn. 3), 4) e 5) del comma primo dell’art. 360 c.p.c. riguarda principalmente un tema, quale quello della natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto in causa, in realtà estraneo all’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.
6.1. In particolare, per quello che riferisce la Corte territoriale, l’attuale ricorrente per cassazione non aveva sostenuto che il rapporto inter partes non fosse di natura subordinata, bensì aveva dedotto che ‘il rapporto sarebbe stato contraddistinto da una serie di contratti di lavoro a tempo determinato, tra loro non collegati e per periodi non continuativi, con prestazioni lavorative saltuarie e concentrate soprattutto in alcuni periodi dell’anno’ (così al punto 2 a pag. 2 dell’impugnata sentenza).
E i giudici di secondo grado hanno, poi, disatteso detta tesi, perché hanno anzitutto ritenuto che: ‘come puntualmente riscontrato dal primo giudice, l’odierno appellante non ha curato di produrre i contratti relativi alle singole asserite assunzioni a tem po determinato, che, come è noto soggiacciono all’onere della prova scritta ad substantiam , in mancanza della quale l’apposizione del termine rimane priva di effetti (art. 1 Legge n° 230/1962; art. 1 D.lgs. 368/2001). In mancanza di tale specifico requisito formale, deve dunque concludersi che il rapporto di lavoro tra le parti contendenti deve ritenersi ab origine a tempo indeterminato, tenuto anche conto delle
univoche risultanze del compendio testimoniale (cfr. deposizioni testi COGNOME NOME per il periodo 1999/2010; NOME COGNOME per il periodo 1997/1999; COGNOME NOME per il periodo 2003/2004; COGNOME NOME per il periodo 2002/2017; COGNOME NOME per il periodo 2014/2015). Sulla scorta di tali univoche risultanze istruttorie, sulla cui attendibilità non vi è ragionevole motivo di dubitare, nonché tenuto conto della mancata prova scritta di una valida apposizione del termine al contratto di lavoro (non surrogabile con documentazione di diversa natura, come gli estratti contributivi), deve concludersi che tra le parti è intercorso un unico rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato nel periodo (continuativo ed ininterrotto) dal 1999 al 2 015′ (così nel § ‘a) Durata del rapporto’, a pag. 3 della sua sentenza).
6.2. Pertanto, anzitutto il devolutum (in base all’ appellatum ) non era rappresentato dal carattere subordinato o meno del rapporto di lavoro tra le parti, bensì era costituito dalla verifica della tesi dell’appellante secondo cui, tra le parti erano intercorsi diversi ‘contratti relativi alle singole asserite assunz ioni a tempo determinato’, e quindi di natura subordinata, e perciò non un unico e continuativo rapporto di lavoro (come dedotto dall’attrice), sostenendo lo stesso che si era trattato di contrat ti ‘tra loro non collegati e per periodi non continuativi, con prestazioni lavorative saltuarie e concentrate soprattutto in alcuni periodi dell’anno’.
6.3. Del resto, osserva ancora il Collegio a riprova di quanto sopra che il ricorrente per cassazione neanche deduce che la sentenza d’appello sia affetta da vizi di omessa pronuncia o di minuspetizione ex art. 112 c.p.c. a riguardo; il che doveva in ipotesi essere fatto valere, quale error in procedendo ex art.
360, comma primo, n. 4), c.p.c., e, comunque, deducendo la nullità della sentenza.
Ulteriore ragione d’inammissibilità del primo motivo è che lo stesso s’incentra comunque su una rivisitazione delle risultanze processuali (cfr. pagg. 77-81 del ricorso), la cui valutazione è riservata ai giudici di merito.
Parimenti inammissibile è il secondo motivo.
Tale censura, benché denunci un error in iudicando (facendo cenno anche al n. 3) dell’art. 360 c.p.c.) e si riferisca ad un ‘punto decisivo’ (locuzione presente nel previgente testo dell’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.), è da ricondurre all’ipotesi di ‘omesso esame circa un fatto decisivo per il giud izio oggetto di discussione tra le parti’, di cui al vigente art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.
In questa chiave, però, s’imbatte nella preclusione di cui all’art. 348 ter, comma quinto, c.p.c. in caso di c.d. ‘doppia conforme’, che indubbiamente ricorre nella specie, avendo la Corte di merito integralmente confermato la sentenza di primo grado.
9.1. D’altronde, anche detta censura s’incentra su altra rivalutazione delle emergenze processuali (cfr. in particolare, pagg. 83-86 del ricorso).
Il terzo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
A prescindere ancora una volta dalla cumulativa deduzione di vizi eterogenei, sostenendosi nel contempo un ‘ error in procedendo ed in iudicando in relazione all’art. 360 n. 3, 4 e 5 c.p.c.’, il ricorrente indica genericamente quali ‘prove
di fede pubblica’ sarebbero state ‘non valutate (e dunque disattese) correttamente’, e cioè: ‘estratto contributivo, variazione dati aziendali, ordinanza ingiunzione e relativo verbale ispettivo, testimonianza resa dall’ispettore’ (così alla pag. 86 del ricorso).
L’unico di tali documenti così genericamente indicati sui cui il ricorrente si sofferma è un ‘estratto contributivo’ che si assume ‘offerto in comunicazione proprio dalla parte ricorrente’, del quale documento comunque non vengono meglio specificati gli estremi, prima che il contenuto.
In ogni caso, la tesi del ricorrente secondo la quale tale documento rientrerebbe tra le prove legali delle quali i giudici di merito non avrebbero tenuto conto, in violazione dell’art. 116 c.p.c., è priva di fondamento.
13.1. L’art. 54 l. n. 88/1989, sotto la rubrica ‘Accesso dei cittadini ai dati personali, previdenziali e pensionistici’, recita: ‘1. E’ fatto obbligo agli enti previdenziali di comunicare, a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica. La comunicazione da parte degli enti ha valore certificante della situazione in essa descritta’.
Ebbene, detta previsione, cui si riferisce il ricorrente, disciplina una comunicazione degli enti previdenziali (comunemente, denominata ‘estratto contributivo’ o ‘estratto conto assicurativo’), ma, come rammostra la nutritissima giurisprudenza di questa Corte (oltre che di merito), non preclude certamente all’interessato, sia nelle controversie nei confronti dell’istituto previdenziale che la rilascia che in quelle
tra privati, di dedurre e provare in giudizio errori della stessa imputabili all’ente o semplicemente, anche in controversie tra privati (come nella specie), di dedurre e provare in giudizio che le risultanze certificate non corrispondono all’effettiva sit uazione cui si riferiscono o che non attestano situazioni ulteriori non considerate affatto in essa comunicazione, per le più varie ragioni.
13.2. Nel caso di specie, appunto, per quanto riferisce lo stesso ricorrente per cassazione (nell’ambito del secondo motivo a pag. 82 del ricorso, piuttosto che nel terzo ora in esame), l’estratto contributivo in questione era stato prodotto dall’attrice, che l’aveva ottenuto dall’INPS, allo scopo di far emergere l’ ‘assoluta irrisorietà dei contributi versati’, ed infatti la Corte territoriale, come già riportato in narrativa, ha dato conto che il primo giudice aveva condannato il convenuto anche ‘alla regolarizzazione contributiva’.
13.3. Pertanto, il documento in questione non poteva di certo costituire prova legale contro l’istante che l’aveva prodotto a detti fini.
E’ infine inammissibile il quarto motivo.
In esso, prescindendo dalla mescolanza di mezzi di ricorso eterogenei, il ricorrente deduce un uso distorto a proprio sfavore del principio di non contestazione da parte della Corte di merito, con riferimento appunto ai conteggi prodotti dalla lavoratrice.
Ebbene, come accennato in narrativa, la Corte ha respinto, tra l’altro, il quarto motivo d’appello dell’attuale ricorrente per cassazione, che riguardava appunto tale aspetto.
16.1. In particolare, ha ritenuto che ‘Anche tale doglianza non ha fondamento, atteso che i conteggi allegati al ricorso introduttivo appaiono attendibili (in riferimento alla disciplina collettiva del settore, applicabile quanto meno come parametro di equ ità della retribuzione ai fini della tutela apprestata dall’art. 36 cost.) e comunque non sono stati specificamente contestati dalla parte convenuta, che si è limitata solo ad una generica ed indeterminata contestazione (v. Cass. Civ., sez. lav., 10.06.2003, n. 9285; Cass. Civ., sez. lav., 08.01.2003, n. 85; Cass. Civ., sez. un., 23.01.2002, n. 761; Cass. Civ., sez. III, 01.09.2000, n. 11495) e non ha provveduto ad allegare un proprio alternativo conteggio di parte depurato dai denunciati errori contabili.
Nel rito del lavoro, come è noto, il convenuto ha l’onere della specifica contestazione dei conteggi elaborati dall’attore, ai sensi degli artt. 167, comma 1, e 416, comma 3, c.p.c., con la conseguenza che la mancata o generica contestazione -rappresentan do, in positivo e di per sé, l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto -rende i conteggi accertati in via definitiva, vincolando in tal senso il giudice (Cass. Civ., sez. lav., 10.06.2003, n. 9285). Non si vede del resto come il primo giudice avrebbe dovuto prendere in considerazione una diversa misura in difetto di più specifiche allegazioni da parte del datore di lavoro appellante’.
Osserva allora il Collegio che il ricorrente nella censura in esame si riferisce a giurisprudenza di legittimità non specificamente riferita alla mancata o non specifica contestazione dei conteggi che il lavoratore produca in giudizio (cfr. pagg. 89-92 del ricorso).
17.1. Per contro, la decisione gravata in parte qua ha richiamato principi di diritto costantemente enunciati da questa Corte e confermati anche di recente: a) nel rito del lavoro, il convenuto ha l’onere di contestare specificamente i conteggi elaborati dall’attore, ai sensi degli artt. 167, comma 1, e 41 6, comma 3, c.p.c., occorrendo a tal fine una critica precisa, che involga puntuali circostanze di fatto -risultanti dagli atti ovvero oggetto di prova -idonee a dimostrare l’erroneità dei conteggi (così, tra le altre, Cass. n. 5949/2018); b) nel processo del lavoro, l’onere di contestare specificamente i conteggi relativi al quantum sussiste anche quando il convenuto contesti in radice la sussistenza del credito, poiché la negazione del titolo degli emolumenti pretesi non implica necessariamente l’affermazione dell’erroneità della loro quantificazione, mentre la contestazione dell’es attezza del calcolo ha una sua funzione autonoma, dovendosi escludere una generale incompatibilità tra il sostenere la propria estraneità al momento genetico del rapporto e il difendersi sul quantum debeatur (in tal senso, sempre tra le tante, Cass. n. 29236/2017); c) inoltre, nei procedimenti che seguono il rito del lavoro, il principio di non contestazione, con riguardo ai conteggi elaborati dal ricorrente ai fini della quantificazione del credito oggetto della domanda, impone la distinzione tra la componente fattuale e quella normativa dei calcoli, nel senso che è irrilevante la non contestazione attinente all’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione, appartenendo al poteredovere del giudice la cognizione di tale disciplina, mentre rileva quella che ha ad oggetto i fatti da accertare nel processo e la loro qualificazione giuridica (così, sempre ex plurimis , Cass. n. 20998/2019; n. 26591/2021).
Tanto premesso, secondo altro consolidato indirizzo di questa Corte, il ricorso per cassazione con cui si deduce l’erronea applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto integrata la non contestazione che il ricorrente pretende di negare (così, tra le altre, Cass. n. 17735/2022; n. 15256/2022; n. 10786/2022).
Orbene, nello svolgimento del motivo in esame, il ricorrente mentre specifica che il conteggio della controparte era contenuto nel doc. 8 del fascicolo di quest’ultima in primo grado, assume di averlo ‘prontamente contestato’ (cfr. pag. 88 del ricorso per cassazione), ma non trascrive l’atto processuale in cui avrebbe operato tale contestazione, men che meno deducendo di averlo fatto nei termini specifici e precisi sopra illustrati, e neppure indica tale atto.
19.1. Rileva, infine, il Collegio che la Corte d’appello, nell’esaminare i primi tre motivi d’appello, aveva certamente considerato le difese e le contestazioni anche in fatto dell’attuale ricorrente (cfr. pagg. 3-6 della sua sentenza).
Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in €
8.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale dell’8.4.2025.
La Presidente
NOME COGNOME