Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 23085 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 23085 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 11/08/2025
sul ricorso 3467/2017 proposto da:
COGNOME PAOLO rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MILANO rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 3019/2016 depositata il 19/07/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/05/2025 dal Cons. Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 3019/2018 ha respinto il gravame di NOME COGNOME avverso il rigetto in primo grado dell’opposizione proposta dal medesimo all’avviso di conguaglio a mezzo del quale il Comune di Milano aveva rilevato di essere incorso in errore nel quantificare il canone dovuto dall’opponente per l’anno 2000 in relazione alla sua attività di commerciante ambulante titolare di posteggi fissi in alcuni mercati di Milano ed aveva perciò preteso il pagamento del relativo conguaglio sulla base di una diversa interpretazione del regolamento comunale, ritenendo che l’attore dovesse qualificarsi come occupante temporaneo e non permanente.
In particolare, i giudici d’appello, per quel che qui ancora rileva, hanno sostenuto che: a) la pretesa creditoria del Comune nei confronti del concessionario per l’occupazione del suolo pubblico rientra nei rapporti di natura privatistica e l’adempimento integrale della prestazione non è soggetto a decadenza per decorso del tempo, non prevista da norma legale o regolamentare; b) che la pretesa creditoria del Comune non è assimilabile ad un canone di locazione, sì che la prescrizione di essa è quella decennale dell’art. 2946 cod. civ.; c) che ai fini della qualificazione temporanea o permanente dell’occupazione di suolo pubblico, tenuto conto dei criteri a tal fine dettati dall’art. 2 dell’allegato tariffario al regolamento comunale Cosap, occorre considerare se l’atto di concessione limiti o meno l’occupazione ad alcuni giorni della settimana o ad alcune ore del giorno perché la limitazione suddetta importa sempre la natura temporanea dell’occupazione; d) che non era riscontrabile la denunciata violazione da parte del Comune degli obblighi di buona fede, atteso che i criteri di determinazione del canone sono resi pubblici e l’errore in cui era incorso il percipiente era facilmente verificabile; e) che esula dalla cognizione consentita al giudice ordinario, sussistendo al riguardo la giurisdizio-
ne di quello amministrativo, l’istanza intesa a far dichiarare l’inefficacia della delibera municipale che aveva disposto l’esazione del conguaglio; che, rigettandosi perciò la proposta opposizione, le spese andavano liquidate nella somma complessiva di euro 2.500,00.
Avverso la suddetta pronuncia il soccombente ricorre ora a questa Corte con sette mezzi, seguiti pure da memoria e resistiti ex adverso dall’intimato con controricorso e memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Giova previamente riferire che la vicenda de qua è già stata scrutinata da queste Corte, da ultimo, con l’ordinanza 9880/2023, che ha respinto analogo ricorso e alle cui ragioni, replicando gli odierni motivi in maniera pressoché pedissequa le medesime censure in allora rassegnate, massimamente si deve fare rinvio.
E’ perciò, in breve, infondato il primo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. per difetto di motivazione logica e lineare in punto alla negatoria della decadenza e alla qualificazione, al contempo, del rapporto come di natura privatistica: la sentenza non risulta affatto infirmata dal denunciato vizio di motivazione, sviluppando, in modo tutt’altro che illogico ed incoerente, il proprio assunto decisorio, intorno, da un lato, all’affermazione che il rapporto patrimoniale corrente tra il Comune e l’obbligato debba intendersi come un rapporto di natura privatistica, in guisa del quale al diritto di credito del primo per l’uso del suolo pubblico concesso al secondo corrisponde l’obbligo di questo del pagamento del relativo canone, e, dall’altro, in adesione a questa impostazione, all’affermazione che nessuna decadenza in capo all’ente esattore, circa il diritto a reclamare il conguaglio, si rende nella specie riconoscibile, non essendo prevista da alcuna fonte normativa.
Infondato è ancora il secondo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2946 e 2948 cod. civ., per aver ritenuto applicabile la prescrizione decennale in luogo della prescrizione quinquennale: la giurisprudenza di questa Corte, come già si è espressamente statuito altrove ( ex plurimis , Cass., Sez. III, 8/ 02/2019, n. 3710) è infatti ferma nel ritenere che l’indennizzo in esame non sia assimilabile né al canone di locazione né alle altre prestazioni periodiche di cui all’art. 2948 cod. civ., in quanto assolve alla funzione di compensare medio tempore , per tutta la durata dello stato di indisponibilità del bene, il detrimento dato dal suo mancato godimento.
In parte inammissibili ed in parte infondati sono il terzo motivo ed il quarto motivo di ricorso con i quali si lamenta, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione dell’art. 63 l. 15 dicembre 1997, n. 446, norma che consentiva agli Enti territoriali di escludere l’applicazione nel proprio territorio della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, optando per il Cosap, e la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del regolamento comunale di Milano, in punto alla qualificazione dell’occupazione, posta in essere nella specie ai fini dell’applicazione del Cosap come temporanea e non permanente: da un lato si impone infatti di considerare che la Corte di appello è pervenuta ad operare la qualificazione in contestazione in applicazione dei criteri enucleati dall’art. 2 dall’allegato tariffario al regolamento Cosap del Comune di Milano, sicché, ove se ne intenda censurare l’approdo, sottoponendo a critica le affermazioni che si ritraggono da delibere comunali, decreti sindacali e regolamenti comunali, è necessario – in virtù del principio di autosufficienza del ricorso stesso – che il testo di tali atti sia interamente trascritto e che siano, inoltre, dedotti i criteri di ermeneutica asseritamente violati, con l’indicazione delle modalità attraverso le quali il giudice di merito se ne sia disco-
stato, non potendo la relativa censura limitarsi ad una mera prospettazione di un risultato interpretativo diverso da quello accolto nella sentenza, circostanze non riscontrabili nella specie, dato che il ricorrente si limita a riprodurre solo l’art. 4 del Regolamento comunale, il che non consente a questa Corte di valutarne l’effettiva portata in mancanza di riproduzione di altre parti delle disposizioni tariffarie, tanto più che, come riferito dal controricorrente, esse definirebbero come “occupazioni temporanee” le occupazioni di “venditori ambulanti”. E’ vero, poi, rispetto alla circostanza allegata dal ricorrente di essere autorizzato in via permanente all’esercizio del commercio, che essa non è foriera di un diverso approdo, essendosi già osservato da questa Corte, quantunque con riferimento al tema della TOSAP, come già annota il precedente citato in limine -ai cui criteri si è rettamente richiamato il decidente -che la considerazione della sola durata (infra o ultra annuale) della occupazione del suolo pubblico oggetto dell’atto di concessione non costituisce corretta valutazione dell’esatto discrimen legale per qualificare come temporanea ovvero come permanente detta occupazione, dovendosi, invece, sempre verificare se l’atto di concessione limiti o meno l’occupazione ad alcuni giorni della settimana e/o ad alcune ore del giorno, perché la limitazione suddetta importa sempre la natura temporanea dell’occupazione.
Inammissibile è il quinto motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1366, 1375 e 1428 cod. civ. circa la contrarietà a buona fede della condotta del Comune che solo a distanza di anni si sarebbe avveduto dell’errata interpretazione data alle norme del proprio regolamento, quando il rapporto era cessato da tempo, insieme all’attività commerciale del ricorrente: l’apprezzamento a cui, al riguardo, ha proceduto il decidente, escludendo segnatamente la denunciata violazione in considerazione dell’a-
gevole riconoscibilità dell’errore sulla base delle norme regolamentari note al ricorrente, impinge in una valutazione di merito che si sottrae ad ogni vaglio di legittimità, non essendo notoriamente la Corte di cassazione giudice del fatto sostanziale.
Inammissibile è il sesto motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione e falsa applicazione della Delib. Consiglio comunale n. 11 del 2000 del Comune di Milano, in relazione al rigetto della domanda subordinata di disapplicazione della suddetta delibera: il motivo non intercetta, infatti, la ratio decidendi sottesa all’affermazione in discorso atteso che il decisum concreta una pronuncia sulla giurisdizione che la Corte di appello ha ritenuto di adottare, escludendo al riguardo la sussistenza della giurisdizione ordinaria in favore di quella amministrativa, sul rilievo che la censura sollevata dinanzi ad essa atteneva al tema del corretto esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione.
3. E’ fondato viceversa il settimo motivo di ricorso, con cui si lamenta la violazione dell’art. 4 d.m. 10 marzo 2014, n. 55 avendo la Corte di appello liquidato le spese del giudizio in complessivi euro 2.500,00, sebbene il valore della controversia fosse pari all’ammontare del conguaglio reclamato, tale, perciò, che l’importo a tal fine liquidato avrebbe dovuto essere debitamente ridotto: tenuto conto del principio risultante dall’art. 5 d.m. 10 marzo 2014 le spese del giudizio di appello avrebbero dovuto essere liquidate in misura più contenuta di quella enunciata dal giudice di appello, onde, accogliendosi di conseguenza il motivo, può decidersi la controversia nel merito, liquidando il predetto ammontare nella somma di euro 1.300,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali e agli accessori di legge.
Le spese del presente giudizio, attesa la reciproca soccombenza, possono essere integralmente compensate.
P.Q.M.
Accoglie il settimo motivo di ricorso, infondati o inammissibili risultando i restanti; cassa l’impugnata sentenza nei limiti del motivo accolto e, decidendo nel merito, liquida le spese del giudizio di appello nella somma di euro 1.300,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali e agli accessori di legge; compensa integralmente le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il