Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5141 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5141 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 27/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 732-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo Studio Legale COGNOME, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avv. COGNOME e domiciliati presso la cancelleria della Corte di Cassazione
nonché contro
AMITRANO BENIAMINO SALVATORE
– intimato –
avverso la sentenza n. 1145/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/03/2020;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 17.11.2008 COGNOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME Salvatore evocavano in giudizio RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Torre Annunziata, invocando l’accertamento dell’occupazione senza titolo, da parte della società convenuta, di un terreno di proprietà di essi attori e la sua condanna al rilascio del detto bene ed al risarcimento del danno, ovvero all’indennizzo, per mancato godimento dello stesso ovvero, in subordine, a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo. A seguito del decesso di COGNOME si costituivano, in sua vece, gli eredi, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
Nelle more del giudizio di prime cure, il terreno oggetto di causa veniva rilasciato dalla società convenuta e restituito nella libera disponibilità degli attori, giusta atto del 23.2.2012.
Con sentenza n. 173/2013 il Tribunale dava atto della cessata materia del contendere sulla domanda di rilascio e condannava Autostrade Meridionali S.p.a. al risarcimento del danno derivante dall’occupazione senza titolo del cespite controverso, nella misura di € 144.000.
-controricorrenti –
Con la sentenza impugnata, n. 1145/2020, la Corte di Appello di Napoli, dichiarata la contumacia di COGNOME NOME COGNOME rigettava sia il gravame principale interposto da Autostrade Meridionali S.p.a. che quello incidentale, proposto dagli originari attori, confermando la decisione di prime cure e compensando le spese del secondo grado di giudizio.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione RAGIONE_SOCIALE affidandosi a due motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME.
NOMECOGNOME intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 113 c.p.c., 1362 e ss., 2729 c.c., 64 della legge n. 2359 del 1865, 5 bis della legge n. 359 del 1992 e 42 bis del D.P.R. n. 327 del 2001, nonché il vizio della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente inquadrato la domanda sub specie di risarcimento del danno da occupazione senza titolo, senza avvedersi che, in realtà, l’area oggetto di causa era stata occupata giusta verbali di accordo amichevole, sottoscritti anche dagli attori in prime cure, odierni controricorrenti, del 25.1.2005 e del 17.11.2005, con i quali era stata pattuita la cifra di € 2.000 mensili sino a tutto il mese di novembre 2005. Con detti atti, successivi alla procedura di espropriazione che aveva interessato l’area di cui è causa, conclusasi con atto di acquisto del 18.3.2004, trascritto il 29.3.2004, le parti avevano dichiarato di
rinunciare alle procedure amministrative di occupazione temporanea e di espropriazione. Dichiarazione, quest’ultima, che era stata riprodotta anche nell’atto di riconsegna del terreno, del 23.2.2012. Ad avviso della società ricorrente, dunque, nel momento in cui è stato introdotto il giudizio non esisteva più alcun valido titolo contrattuale, né alcun obbligo di Autostrade Meridionali S.p.a. di versare il canone convenzionalmente determinato per il solo periodo di occupazione sino a novembre 2005. Il giudice di merito, quindi, avrebbe errato nel parametrare il danno da occupazione ad un canone stabilito per via negoziale, senza avvedersi che lo stesso non era più attuale, e senza applicare alla fattispecie la normativa in tema di espropriazione per pubblica utilità, che prevede un indennizzo, e non un risarcimento del danno parametrato al canone locativo, nel caso di occupazione resasi necessaria in vista della realizzazione di un’opera pubblica. Di conseguenza, la Corte distrettuale avrebbe dovuto parametrare il danno ai sensi di quanto previsto dall’art. 64 e ss. della legge n. 2359 del 1865 e dunque alla perdita dei frutti, alla diminuzione del valore del fondo e alla durata dell’occupazione, tenendo altresì conto di tutte le altre circostanze del caso concreto.
La censura è infondata.
La Corte di Appello, dopo aver distinto tra indennizzo derivante dall’attività espropriativa, che costituisce la conseguenza di un’attività legittima della P .A., e risarcimento del danno da occupazione senza titolo, che integra invece un illecito permanente ricadente nell’ambito di applicazione dell’art. 2043 c.c., ha parametrato la seconda al valore che il bene occupato aveva al momento della realizzazione del fatto lesivo del diritto del suo legittimo proprietario (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata). La statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, richiamato anche dalla sentenza impugnata, secondo cui
‘Nonostante l’adozione di un criterio legale analogo di liquidazione, indennità di espropriazione e risarcimento del danno derivante da occupazione illegittima conservano la loro ontologica differenza, in quanto ricollegabili la prima ad un’attività legittima dell’Amministrazione, fondata sugli artt. 42 Cost. e 832 c.c., e la seconda ad una condotta illecita dell’occupante, sanzionata dall’art. 2043 c.c., con la conseguenza che l’obbligazione indennitaria ha natura di debito di valuta, mentre l’obbligazione risarcitoria derivante dall’occupazione illegittima resta configurabile come debito di valore, da liquidarsi con riferimento al valore che l’immobile aveva all’epoca della perdita della proprietà, espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della decisione definitiva’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 22923 del 09/10/2013, Rv. 628186; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4070 del 20/03/2003, Rv. 561267). Infatti, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 2007, è stata dichiarata l’incostituzionalità del comma 7 bis dell’art. 5 bis, del D. L. 11 luglio 1992, n. 333 convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nella parte in cui non prevedeva l’integrale ristoro del danno da occupazione acquisitiva (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3189 del 11/02/2008, Rv. 601439). Il risarcimento del danno da occupazione senza titolo, dunque, va parametrato al valore di mercato del suolo illegittimamente acquisito alla mano pubblica.
Non è pertanto applicabile alla fattispecie la procedura di cui agli artt. 64 e ss. della legge n. 2359 del 1865, poiché essa presuppone una occupazione legittima, realizzata dalla P.A. sulla scorta di un titolo validamente formatosi, cosa che, nella specie, secondo quanto accertato dalla Corte di Appello -e non disconosciuto dalla parte odierna ricorrente- non è accaduto. Di conseguenza, va data continuità
al principio, affermato in tema di cd. ‘occupazione espropriativa’ con irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera pubblica, secondo cui, in presenza di un fatto illecito ascrivibile alla P.A., ‘… al privato spetta, a titolo risarcitorio, una somma di denaro che corrisponda al valore del bene al momento del fatto illecito, e sia poi aggiornata, al fine della necessaria attualizzazione dell’espressione monetaria del debito, sulla base dell’inflazione sopravvenuta fino alla data della decisione, ed inoltre spetta il ristoro dell’ulteriore pregiudizio derivante dal ritardo subito nella reintegrazione del proprio patrimonio, con la correlativa perdita della utilitas del bene’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5449 del 03/06/1998, Rv. 516042). Poiché nella specie l’irreversibile trasformazione del terreno non si è verificata, il danno non può essere parametrato al valore di mercato del cespite occupato, bensì al suo valore locativo, in quanto quest’ultimo costituisce criterio idoneo ad esprimere la potenzialità economica che il proprietario dell’area, che ha subito il pregiudizio, avrebbe potuto ritrarre dal bene, qualora ne avesse conservato la disponibilità durante il periodo di occupazione sine titulo .
Tale criterio di determinazione del danno di cui si discute, peraltro, è perfettamente in linea con la più recente elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte in tema di risarcimento del pregiudizio da occupazione senza titolo di un bene immobile, richiamata anche dalla parte ricorrente nella memoria depositata in prossimità dell’adunanza camerale, secondo cui quest’ultimo si configura in termini di normale inerenza all’impossibilità di disporre del bene e può essere apprezzato facendo riferimento al valore locativo, in quanto ‘In tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la
concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15/11/2022, Rv. 666193 – 04). Pertanto, ‘… se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15/11/2022, Rv. 666193 – 02). A differenza di quanto argomentato dalla società ricorrente nella sua memoria, dunque, l’arresto delle Sezioni Unite del 2022, poc’anzi menzionato, conferma l’esattezza del criterio determinativo del danno da occupazione utilizzato, nel caso concreto, dal giudice di merito. In aggiunta, va considerato anche che, nel caso di specie, esisteva tra le parti un atto convenzionale che stabiliva l’importo dell’indennità di occupazione del cespite oggetto di causa, onde la Corte di Appello ha ritenuto di far riferimento al valore indicato da detta pattuizione, in applicazione del criterio tendenziale, indicato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, di parametrazione del danno alla potenzialità reddituale espressa dal cespite occupato senza titolo dalla P .A., ritenuta, nella specie, pari alla somma pattuita direttamente tra le parti.
Con il secondo motivo, la parte ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116 c.p.c. ed il vizio di apparenza e irriducibile contrasto logico della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente apprezzato le risultanze istruttorie, applicando
in modo arbitrario l’importo di € 2.000 mensili, convenzionalmente stabilito tra le parti soltanto per i primi mesi di occupazione, per tutta la durata di quest’ultima, in assenza di norma convenzionale che prevedesse tale automatismo e senza applicare alla fattispecie la normativa prevista degli artt. 64 e ss. della legge n. 2359 del 1865. Ad avviso della società ricorrente, inoltre, la Corte distrettuale non avrebbe accertato l’assenza, nel caso di specie, del titolo legittimante l’occupazione, ed avrebbe finito per riconoscere ai proprietari del suolo un indennizzo sganciato da qualsiasi riferimento ai frutti ricavabili dallo stesso.
La censura è in parte inammissibile ed in parte infondata.
In particolare, essa è inammissibile nella parte in cui denunzia l’omesso esame di circostanze o fatti ritenuti decisivi, in quanto nella specie si configura una ipotesi del cd. doppia conforme. Inoltre, i fatti di cui la società ricorrente lamenta l’omesso esame non sono comunque idonei ad integrare il paradigma del vizio dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., dovendosi ribadire, sul punto, che l’omesso esame denunziabile in sede di legittimità deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, ‘… dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016, Rv. 641174; cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2805 del 05/02/2011, Rv. 616733). Non sono quindi ‘fatti’ nel senso indicato dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere
ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio.
La doglianza, invece, è infondata nella parte in cui lamenta la mancata applicazione al caso di specie delle disposizioni di cui agli artt. 64 e ss. della legge n. 2359 del 1865. Queste ultime, infatti, sono riferibili all’ipotesi di occupazione legittima, mentre nel caso di specie la Corte di Appello ha accertato essersi configurata un’occupazione senza titolo, e dunque un atto illecito causativo di un danno ingiusto, rientrante nello schema normativo di cui all’art. 2043 c.c. Né è corretta la deduzione secondo cui spettava alla proprietà dell’area fornire la prova dell’illiceità dell’occupazione, poiché era (al contrario) onere dell’odierna ricorrente dimostrare che la stessa era stata realizzata in riferimento ad una legittima procedura espropriativa, e dunque sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità e di un titolo legittimante l’occupazione medesima. La Corte distrettuale non ha ritenuto conseguita tale dimostrazione, e la stessa parte ricorrente, nella prospettazione del motivo in esame, non deduce né dimostra che essa sia stata fornita nel giudizio di merito; tanto è vero che ascrive, erroneamente, le conseguenze della mancata prova di detta circostanza alla parte odierna controricorrente, ritenendola, appunto, erroneamente gravata di un onere della prova che, viceversa, gravava direttamente su di essa, odierna ricorrente ed occupante l’area di cui si discute. Di conseguenza, la statuizione secondo cui, in difetto di prova della natura legittima dell’occupazione, la stessa è stata ritenuta priva di titolo idoneo, è del tutto corretta e corrisponde ad una esatta applicazione dei criteri di riparto dell’onere della prova stabiliti dall’art. 2697 c.c.
Né si configura, per concludere, alcuna ipotesi di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dovendosi ribadire, al riguardo, che ‘In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c.’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01). Mentre, con riferimento alla deduzione relativa alla violazione dell’art. 116 c.p.c., va ribadito che ‘In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativasecondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 -02; conf. Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del
09/06/2021, Rv. 661360). Poiché, come già detto, nella specie non si configura un’illecita inversione dell’onere della prova, e sussiste un’ipotesi di cd. ‘doppia conforme’ , non vi è spazio per la violazione né dell’art. 115 c.p.c., né dell’art. 116 c.p.c.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda